Di Stefano: la scuola
non è indifferente
ai grandi valori
PALERMO. «Non è sufficiente insegnare ai ragazzi ad acquisire lo
spirito critico. Il docente non può essere indifferente rispetto
ai valori fondamentali. La scuola deve sì dare gli strumenti, certo,
ma non può assolutamente essere neutra e tralasciare la
funzione educativa».
È una bocciatura senza appello quella che il dottor Guido Di
Stefano, direttore generale dell’Ufficio scolastico regionale,
pronuncia sulla risposta data dal preside e da 28 docenti del liceo
«Nicola Spedalieri» di Catania alla lettera-appello dei ragazzi
della stessa scuola. Una bocciatura netta, da operatore che
conosce bene il mondo della scuola e da genitore, che sa quanto
la collaborazione con le famiglie sia fondamentale per la crescita
dei giovani.
«I docenti dello "Spedalieri" – sottolinea Di Stefano – definiscono
"laica" la loro risposta. Ma laico significa non confessionale,
non indica certo una persona senza idee. Ci sarà pure
qualche professore fazioso, però il vero docente, quello con la
"d" maiuscola, fornisce gli strumenti di autoanalisi, ma espone
pure le proprie opinioni, e comunque non è in nessun caso
"terzo". Mi viene in mente Croce, il suo "Perché non possiamo
non dirci cristiani", da non cristiano quale
lui era. Una cosa è la confessione, altro
sono i valori. E quelli sono fondamentali.
Faccio un esempio che può sembrare
banale. Io, docente, parlo ai miei ragazzi
dell’olocausto, del nazismo, fornisco ai
miei allievi gli strumenti critici ma poi
non condanno gli orrori del nazismo.
Ho fatto davvero il mio lavoro di educatore?
Il nodo fondamentale – continua il
direttore generale dell’Ufficio scolastico
regionale – è che il mio compito di insegnante
non è solo istruire, ma anche
educare. È vero, non è un ruolo che posso
svolgere da solo, devo affiancarmi alla
famiglia. Ma non posso esimermi da
questo compito. Cinquanta, sessanta anni
fa i vecchi libri di didattica distinguevano
tra la scuola che aveva il compito di
educare - quella che oggi chiamiamo
primaria - e la scuola - il cosiddetto "superiore"
- che doveva invece istruire.
Oggi questa distinzione è superata, la
scuola, tutta, ha entrambe le funzioni.
Altrimenti non fa crescere gli individui.
Un altro esempio. La Germania nazista sfornava tecnici "perfetti",
ma mancava l’educazione della persona ai valori».
Cosa rispondere, allora, ai ragazzi del liceo «Spedalieri»? «Io
– dice Di Stefano – avrei detto loro parliamo, certo. Avrei anche
aggiunto che se loro vogliono solo essere aiutati ad essere felici
è un po’difficile. La felicità non può darla nessuno. Se, invece,
vogliono discutere di un mondo da costruire e dei sacrifici
da fare beh, questo è doveroso, perché questo è il mio compito
di insegnante. Il docente deve avere tre qualità: ascolto, cervello,
cuore. Per ascoltare devo conoscere: i ragazzi che filmano
le scene di violenza col telefonino non nascono certo dal
nulla, sono figli di una società che li bombarda di messaggi che
indicano valori sbagliati, falsi, di genitori che li spingono a cercare
il successo a tutti i costi ricorrendo a mezzucci. Poi c’è il
cervello: si deve stimolare il cervello dei ragazzi, insegnare loro
a ragionare. Ma fondamentale è pure il cuore: io insegnante
devo essere capace di creare interesse nei miei ragazzi, di
stupirli. Se non lo faccio, fallisco».
MARIATERESA CONTI (da www.lasicilia.it)
Sgalambro: «Gli adulti
sommersi nella palude»
«Giovani violenti? Parliamo piuttosto
degli adulti». Se non facesse di
mestiere il provocateur, Manlio Sgalambro
che razza di filosofo sarebbe?
Il suo prossimo libro, ormai in
uscita, si occupa della conoscenza
del peggio, giacché «la filosofia ha
sempre pensato il meglio. Anzi,
l’ottimo. Ma Platone dice: del peggio
bisogna sapere. Sono partito di
là».
Allora, partiamo dal peggio degli
adulti.
«Le notti violente dei giovani sono
molto più regolate dei giorni malmostosi,
sregolati, di noi uomini
maturi».
Notti regolate?
«Se parliamo del fenomeno violenza,
non posso esimermi, anzitutto,
dal prenderne le distanze per osservare
la cosa in sé. Di norma, la
violenza dell’uomo è dominata dalla
regola: dai gladiatori ai pugilatori,
dai toreri ai guerrieri, non c’è
violenza che non sia ordinata da
regole. La violenza diventa ferocia
quando, appunto, viene meno ogni
regola».
E questo dipende da noi grandi?
«Da chi altri, sennò? Prendiamo la
guerra. Non c’è più guerra che soggiaccia
a una regola. I Talebani
combattono una guerra senza regole.
Non fanno forse lo stesso gli
Americani? Il terrorismo copre tutto
con una coltre giustificazionista.
Pensi solamente ai sistemi di sicurezza
negli aeroporti... Siamo costretti
a ispezioni personali a mani
alzate, a smettere scarpe e guanti, a
depositare le impronte digitali, a
essere palpati... Non è coercizione
questa? Viaggiare l’America, per un
cittadino europeo, significa entrare
in un rituale di violenza».
Anche la violenza giovanile - allo
stadio, in discoteca, a scuola - pare
obbedisca ai suoi rituali...
«Con una differenza, però. In quel
caso, le tappe del rito, le sue regole,
stanno dentro la violenza stessa,
non fuori di essa. L’anti-terrorismo,
invece, implica forme di violenza
rivolte all’interno della comunità -
in qualche modo, contro di essa - e
praticate come sistema di difesa
dalla violenza esterna. Ma c’è una
violenza indotta dall’apparato repressivo.
Lei diceva: lo stadio... Veda,
io non credo affatto che schierare
allo stadio mille poliziotti in assetto
di guerra sia uno spettacolo
privo di conseguenze».
Beh, a Catania, uno di quei mille è
stato ammazzato...
«Appunto. Mi si capisca: non voglio
dire, naturalmente, che quell’omicidio
sia correlato allo spiegamento
di forza pubblica inteso a
prevenire fatti violenti anche meno
gravi di quello accaduto. Dico che
l’idea di aggiustare il mondo secondo
Logik und Polizei, è precisamente
un’idea pericolosa. Se il
principio di non contraddizione
sterilizza la libertà del pensare, l’ostensione
di scudi, elmetti e manganelli
alla partita di calcio può
avere effetti sulla natura del gioco».
Lei riesce a immaginare uno stadio
senza la sorveglianza di un solo questurino?
«Certo che no. Posso immaginare,
però, prima che intervengano prefetti
e questori, il lavoro
di educatori
che insegnino ai ragazzi
ad ammirare
la bellezza del gioco
del calcio. Di questo
si tratta, in fin dei
conti».
Dell’educazione o
della bellezza?
«Dell’una e dell’altra.
Ammesso si dia
il caso che vadano
disgiunte. Ci sono i
Bronx, certo; ma la
violenza nei Bronx
la portiamo noi tutti».
Vorrei scendere in dettaglio. Lei crede
che il caso Catania abbia una specificità
propria?
«Se ce l’ha, bisognerebbe legarla
ad altre specificità. Mi vengono in
mente quei sociologi che definiscono
liquida la nostra epoca. Liquida?
Direi, piuttosto: oleosa. Si
ondeggia come turaccioli su una
marea vischiosa, squamosa. Non ci
sono fondamenta solide, né modelli
di riferimento. Ci sono mode.
Ma alle mode, diceva Hegel, bisogna
stare attenti: possono essere
età dello spirito. I giovani annaspano?
Può darsi. Qualche anziano, in
compenso, è già sommerso dalla
palude. Non abbiamo ancora avviato
le opere di bonifica».
Da dove comincerebbe?
«Dal principio di autorità
e dal principio di
responsabilità. L’autorità
è credibile - direi,
amabile - in quanto è
autorevole, non autoritaria.
Ad essa si aderisce
spontaneamente:
non per timore di
punizioni, ma per
amore di esempi.
Quanto alla responsabilità,
è sempre individuale.
Genitori o insegnanti
che non trasmettano simili
princìpi, hanno già abdicato al ruolo
».
Alcuni insegnanti del liceo "Spedalieri"
di Catania hanno scritto che la
scuola non deve offrire valori agli
studenti, bensì fornire il metodo
che li aiuti a trovarseli da sé.
«Insisto: è un’abdicazione, una
forma di sottostima, di autosvalutazione,
del lavoro di docenza. L’educatore
che fa della paidéia una
pura questione di metodo, rinuncia
alla metà del suo compito».
Perciò, molti genitori, in fatti e fattacci
scolastici, dànno quasi sempre
torto ai professori e quasi sempre
ragione ai figli?
«Non ho molta fiducia nella famiglia
in queste faccende. Chi dà la
colpa alla famiglia in queste cose,
non sa cosa dice. O, se lo sa, ne discorre
annoiato. La famiglia oggi è
un luogo di controversie, di dispute:
fra coniugi, ex coniugi, o separati
potenziali. La scuola, sì, può trovare
il modo di uscire dal pantano».
Come?
«L’educazione ridiventi formazione.
Le faccio un solo esempio: tutti
i ragazzi che conosco parlano inglese
con la stessa abilità con cui
battono i tasti del pc. Sarà un vantaggio,
ma non è un merito. Chi sa
qualcosa di Shakespeare? Diffondere
una lingua, senza la cultura
diffusa in quella lingua, è educativo
forse, ma certo non è formativo».
Ammesso che siano tanti i docenti
d’inglese nei licei capaci di trasmettere
Shakespeare, sia pure come valore
aggiunto...
«Ammesso, e non concesso, questo.
Of course».
GIUSEPPE TESTA (da www.lasicilia.it)