C’era da aspettarselo
in un ambiente (tutta la Nazione) nel quale mai si era aperto un dibattito
franco e soprattutto paritario fra alunni e insegnanti anche se rattrista
l’occasione nel quale è nato. La morte violenta di un ispettore di polizia (un
papà come altri milioni costretto anche lui a fare la fila durante l’ora di
ricevimento coi docenti e in trepidazione per i risultati quadrimestrali) per
mano di un bulletto (un alunno che ha frequentato le scuole e che è stato
informato sui logaritmi e sulla poesia dell’ottocento) ha indotto i ragazzi del
liceo Spedalieri di Catania a scrivere una lettera aperta ai loro professori
chiedendo che “qualcuno li aiuti a trovare il senso del vivere e del morire,
qualcuno che non censuri la loro domanda di felicità e di verità”. E su quella
lettera, e la conseguente risposta dei docenti, si è aperta una sorta di
battaglia ideologica nella quale gli interlocutori che si sono man mano
succeduti, ancora una volta, si sentono tenutari di verità certe, mentre il
Corriere del 10 scorso avverte: “Ma ciò che rende terribile quella lettera (dei
professori) è il nichilismo pedagogico che sembra ispirarla, il fatto cioè che
professori e professoresse vi sostengano che la scuola, loro stessi dunque,
risposte non debbono neanche provare a darne. La scuola, secondo loro, dovrebbe
infatti limitarsi a «stimolare domande»; quanto al «senso della vita», che nella
loro lettera quasi disperata gli studenti dichiaravano di aver perso o non aver
mai trovato, ebbene, che ciascuno cerchi da solo le «risposte adeguate al
proprio percorso»”. Per non correre il rischio di mettere sul tavolo altre
verità, diciamo subito che abbiamo assunto come maestro di cose dell’educazione,
piuttosto che il sempre citato Socrate, Edgar Morin che afferma: “E’ sorprendete
che l’educazione sia cieca su ciò che è la conoscenza umana e che non si
preoccupi affatto di far conoscere che cosa è conoscere”. Da questa semplice, ma
complessa, osservazione ne desumiamo che i ragazzi per il fatto stesso che
chiedano qualcosa abbiamo già in loro il senso stesso della conoscenza perchè
fondamentalmente sanno cosa vogliono: verità e felicità anche se non individuano
i percorsi per il loro raggiungimento. Ma chi conosce queste strade? E il fatto
stesso che le chiedano dovrebbe rendere felici (sic) i loro insegnanti-maestri
perché questi alunni ci appaiono una di quelle elite spirituale “sapiente” in
cerca del famoso quid frugato inutilmente da Amleto. In moltissime scuole di
frontiera (e quante ce ne siano solo pochi missionari-docenti lo sanno) il
difficilissimo è riuscire a far leggere agli alunni un solo brano del tormento
di Faust e del suo scellerato patto per essere felice di un fuggevolissimo
attimo. In quelle aule sta il vero problema e nella confusione fra i modelli
sanciti dal degrado e quelli proposti dalla scuola in cerca di una sintesi
culturale verso la felicità e il senso della vita. E che la scuola non possa
dare risposte alle domande dei ragazzi appare balzano per il fatto stesso che la
ricerca della felicità e del senso della vita è in tutta la letteratura dalle
origini barbariche ai nostri giorni, comprese le cosiddette scienze esatte.
Altrimenti quale fine avrebbe l’educazione e la cultura? Dice ancora Morin: “E’
necessario che tutti coloro che hanno il compito di insegnare si portino negli
avamposti dell’incertezza del nostro tempo, insegnando a navigare in un oceano
di incertezze attraverso arcipelaghi di certezze.” E gli arcipelaghi sono li che
attendono e che accolgono quando l’arte della maieutica è ben posseduta e il
maestro-guida conduce con sapienza e rigore la rotta. Insegnare la comprensione
e l’etica del genere umano rientra nella missione del professore, ma nelle sue
funzioni, al di là di qualunque laicità o confessionalità che hanno tutto il
sapore delle categorie politiche più trite, rientra pure l’insegnamento della
“condizione umana” che è l’oggetto essenziale di ogni didattica.
PASQUALE ALMIRANTE (da
www.lasicilia.it)