- «La scuola che non crede a nulla, nulla può insegnare»
- La scuola scopre che il
vuoto di proposte favorisce i bulli
-
«Non siamo chiamati a trasmettere valori»
- «Il dibattito allo Spedalieri: la produttività del confronto, le "domande del proprio tempo", gli insegnanti»
- «Il primo grande problema dei giovani forse siamo noi adulti»
- «La lavagna vuota, le attese degli studenti, e il compito degli insegnanti»
- «Scuola, guerra totale»
- «L’educazione alla verità
e la relazione educativa»
- «Per combattere il bullismo, definiamo meglio il fenomeno e definiamo le responsabilità, anche istituzionali»
«La scuola che non crede a nulla, nulla può insegnare»
Negli ultimi giorni la scuola è entrata
nelle cronache, soprattutto per i casi di
violenza di studenti e genitori contro
professori e presidi (ma si è verificato anche,
in qualche caso, l’inverso). E’ invece
scivolato nella disattenzione generale
quel che è avvenuto a Catania, dove un
gruppo di studenti del liceo Spedalieri ha
scritto una lettera-manifesto ai propri
docenti, ricevendo da preside e professori
una risposta (anch’essa pubblicata sul
quotidiano La Sicilia) che lascia davvero
sgomenti. Il documento degli studenti
partiva da una drammatica riflessione
sulle violenze del 2 febbraio, in cui venne
ucciso l’ispettore Raciti, per interrogarsi
sull’assenza di valori nella quale
sentono di vivere, sulla totale mancanza
di punti di riferimento che li porta a sentirsi
«soffocati dal nulla». E terminava,
quella lettera, con una richiesta drammatica:
«Abbiamo bisogno che qualcuno
ci aiuti a trovare il senso del vivere e del
morire, qualcuno che non censuri la nostra
domanda di felicità e di verità».
Intendiamoci: la lettera vergata dai
docenti catanesi va letta con la consapevolezza
di quanto sia difficile per chiunque
oggi, insegnante e non, provare a rispondere
a interrogativi tanto fondamentali.
Ma ciò che rende terribile quella
lettera è il nichilismo pedagogico che
sembra ispirarla, il fatto cioè che professori
e professoresse vi sostengano che la
scuola, loro stessi dunque, risposte non
debbono neanche provare a darne. La
scuola, secondo loro, dovrebbe infatti limitarsi
a «stimolare domande»; quanto
al «senso della vita», che nella loro lettera
quasi disperata gli studenti dichiaravano
di aver perso o non aver mai trovato,
ebbene, che ciascuno cerchi da solo le
«risposte adeguate al proprio percorso».
Invece di rallegrarsi che un fatto drammatico
abbia spinto un gruppo di studenti
a interrogarsi sul senso del vivere,
a porsi le domande essenziali, ebbene gli
insegnanti li invitano puramente e semplicemente
a piantarla: «Proporvi, o imporvi,
delle verità è integralismo, cioè
barbarie, e pertanto questo atteggiamento
non può avere luogo nella scuola pubblica,
cioè democratica e laica». Si notino
le assurdità contenute in questa frase: la
coincidenza tra proporre e imporre, l’idea
secondo la quale la laicità corrisponderebbe
all’assenza di qualunque valore,
principio, credenza. Ma sono assurdità
che molti insegnanti italiani, temo, ormai
non considerano affatto tali.
Contemporaneamente il documento
dei docenti di Catania è un perfetto riassunto
di quella vera e propria ideologia
del dialogo e dell’ascolto - a base di «rispetto
dell’altro e delle differenze», di
«solidarietà», di «rigetto di ogni forma di
prevaricazione» - con cui la scuola italiana
si illude di ovviare alla sua incapacità
di trasmettere valori e norme di vita.
Non c’è ormai istituto scolastico, credo,
in cui non vi siano in atto progetti multiculturali,
per insegnare appunto a rispettare
l’altro, a rifiutare la prevaricazione
e via elencando. Tutte intenzioni
buonissime, figuriamoci; ma il punto è
che non si vede quale incontro con l’altro
possa mai avvenire, quale dialogo possa
mai instaurarsi, se non a partire da un riconoscimento,
problematico quanto si
vuole, critico quanto si vuole, di propri
valori e di una propria cultura. Una scuola
e una società che non ritengano di
aver nulla da salvare nella propria tradizione
e nella propria storia, nulla che
meriti d’essere proposto se non una generica
disposizione all’ascolto e all’apprezzamento
indifferenziato (e in fondo
indifferente) di tutto e di tutti, su quale
base mai incontrerà l’«altro»? Qualche
mese fa, bastò che dieci o venti studenti
occupassero un noto liceo della Capitale
perché subito il ministro Fioroni si precipitasse
da loro per sentire cosa avessero
da dire. Forse, ci permettiamo di osservare,
sarebbe opportuno che ora facesse almeno
lo stesso con gli studenti di Catania,
magari per spiegar loro che non è vero,
o non lo è sempre, che la scuola «pubblica
», «democratica» e «laica» debba essere,
puramente e semplicemente, una
scuola in cui si insegna a non credere a
nulla.
GIOVANNI BELARDELLI (Corriere della Sera, 10 marzo 2007 - da
www.lasicilia.it)
La scuola scopre che il
vuoto di proposte favorisce i bulli
E’ accaduto in un istituto tecnico di Milano.
Un ragazzo litiga con un coetaneo
e lo apostrofa con dispregio: «Filippo Raciti!». L’insegnante di lettere, che ha
assistito alla scena, rimprovera l’alunno
violento e tenta di spiegare: «Ma come,
non hai nessun rispetto per un padre di
famiglia ucciso, per un poliziotto..». Ma il
ragazzo non sente ragioni. E, quel che è
peggio, i suoi compagni di classe stanno
dalla sua parte: «Anche noi la pensiamo
così». Siamo al cinismo più disumano,
per di più in una scuola superiore della
capitale economica del Paese.
Ma come siamo arrivati a questa violenza
generalizzata, che prende i giovani
di tutti i ceti, di tutte le età, di ogni
parte del Paese? Come siamo arrivati
ad avere una generazione che fa dello
sfascio l’ideale quotidiano? I bulli di Milano
non hanno nulla di diverso dai giovani
che ieri in una discoteca di Piazza
Armerina hanno accoltellato un sedicenne.
La violenza dei giovani fa il paio con la
rassegnazione degli adulti, col «nichilismo
pedagogico» di molti insegnanti sedicenti
laici e democratici che camuffano
come rispetto dell’altro l’incapacità di
comunicare i presupposti ideali che li
muovono nell’insegnamento e nella vita.
Accade così che il caso Spedalieri divenga
l’emblema di una situazione nazionale.
Agli studenti che, con un appello
pubblicato sul nostro giornale,
chiedono ai loro docenti un aiuto sulle
domande fondamentali della vita, ventotto
prof replicano che la scuola non è
chiamata a dare risposte, essa è terreno
neutro di confronto, luogo «laico».
Ma proprio questo concetto di laicità
assomiglia a una scimmiottatura del
dialogo. «Non si vede quale incontro con
l’altro possa mai avvenire - ha scritto
acutamente sul Corriere della Sera Giovanni
Belardelli prendendo spunto proprio
dai fatti dello Spedalieri - quale dialogo
possa mai instaurarsi, se non a partire
da un riconoscimento , problematico
quanto si vuole, critico quanto si vuole,
di propri valori e di una propria cultura
». Su questo punto, di una laicità che
non può essere confusa con la neutralità,
si ritrovano sorprendentemente in consonanza
il filosofo del diritto Pietro Barcellona
(che sul nostro giornale ha scritto
un editoriale illuminante) e il teologo
e cardinale Angelo Scola, che proprio
ieri sul «Sole 24» ha pubblicato un articolo
dal titolo «Laico, non indifferente».
Se i giovani violenti dello stadio Massimino
hanno scoperchiato la pentola
del malessere giovanile a Catania e nel
resto del Paese, i ragazzi dello Spedalieri
con il loro appello stanno costringendo
il mondo educativo italiano a ripensare
sul fatto che «una scuola che non
crede a nulla, nulla può insegnare».
Facciamo nostro, allora, l’appello lanciato
dal Corriere: ministro Fioroni, lei
che ha parlato in questi giorni di una vera
e propria emergenza educativa, non
lasci cadere la domanda dei giovani catanesi,
la raccolga, venga ad ascoltarli e
li rassicuri sul fatto che la scuola c’è anche
per dare risposta - critica, ragionevole,
culturalmente argomentata - alle loro
domande. Altrimenti la violenza
avrebbe l’ultima parola.
GIUSEPPE DI FAZIO (da www.lasicilia.it)
«Non siamo chiamati a trasmettere valori»
Ho seguito con interesse il dibattito sul disagio e le domande dei giovani, che è stato suscitato dall’appassionata lettera di alcuni studenti del Liceo "Spedalieri", accostata per questo alla Lettera a una professoressa (scritta quarant’anni fa dagli allievi della scuola di Barbiana e dal loro maestro, Lorenzo Milani), magari un po’ enfaticamente e tutto sommato impropriamente, in quanto quest’ultima era una rigorosa messa in questione degli "assoluti" ideologici e didattici che irreggimentavano la società e la scuola del tempo, mentre la nostra - direi all’incontrario - è nient’altro che un’accorata richiesta, ovviamente pienamente congrua alla corretta dialettica tra le diverse componenti dell’"universo" scolastico, di attenzione e di verità. Tale tema si sviluppa nell’"appello", ed è stato poi sviluppato dai partecipanti al dibattito, su due piani, che spesso si confondono ma che, a mio avviso, vanno tenuti distinti: da un lato la denuncia, o quanto meno la constatazione, di una demotivazione degli insegnanti ritenuta diffusa; dall’altro lato la struggente "nostalgia dell’altro", che sconfina, o tende a sconfinare, nel bisogno dell’"assolutamente altro", inteso come risposta rassicurante e onnicomprensiva a ogni emergere di un’alterità conflittuale o semplicemente diversa dai modelli consueti. A proposito del primo aspetto, il discorso inevitabilmente accomuna al disagio dei giovani quello degli insegnanti, gli uni e gli altri "vittime" invisibili, finché non siano funzionali a un qualche interesse "forte" che li trascende, di una spietata competizione sociale, in cui, a prescindere da chi "vince", su cui nondimeno ci sarebbe da dire molto, a chi "perde" non resta che aggredire, per rivalsa o per sentirsi protagonista e "vincente". Da questo punto di vista, gli insegnanti non sono marziani e non si può pretendere che siano "eroi", ancorché la nostra terra sia sufficientemente "infelice" da legittimarne la presenza; probabilmente le critiche che in modo implicito o velato sono state loro avanzate in più di un intervento possono non essere ritenute del tutto infondate; forse l’attenzione, la motivazione e la concentrazione che alcuni di essi mettono nella loro attività professionale non sono sempre profuse al massimo grado; e tuttavia, così come avviene anche in occasione di fatti che riguardano gli studenti, e in generale i giovani, ci si accorge di loro e del loro lavoro solo per metterne in evidenza le inevitabili défaillances e difficoltà, l’attenzione dei media di massa non è prestata all’impegno, di certo non meno rilevante e qualitativo di quello profuso dalle altre categorie professionali, con cui è da essi, ciascuno con la sua personalità e le sue risorse umane e culturali, portato quotidianamente avanti il dialogo con i giovani, né all’entusiasmo, che ha dell’eccezionale in relazione a un’attività particolarmente usurante sul piano nervoso, con cui sistematicamente si aprono agli altri e alle loro esigenze, a fronte di un riconoscimento sociale pressoché nullo, per cui tutti si sentono in diritto di giudicarli e sono di fatto incoraggiati a condannarli. Certo l’aspetto della lettera degli studenti che maggiormente ha attratto l’interesse di chi è intervenuto e la legittima risposta di numerosi professori, che non penso possa essere stigmatizzata come segno di hubris, è stato quello riguardante la domanda di "felicità e verità" che verrebbe dai giovani e che inevitabilmente ha determinato due "schieramenti", quello di chi si è sentito in grado di soddisfare questa richiesta di pienezza e di esaustività, o comunque l’ha ritenuta compatibile con le funzioni della scuola e le responsabilità dei docenti, e quello di chi ha inteso mettere in guardia i ragazzi perché siano in grado di ridimensionare le "figure" e i "miti" della pubblicità, così come le rappresentazioni mediatiche di una realtà meramente pensata, attraverso un rapporto corretto e razionale con la realtà, e rifuggano da "scorciatoie" e semplificazioni. In altri termini, hanno affermato che la scuola non è chiamata a trasmettere valori, non perché essa sia luogo di arida e scettica "riproduzione" dei saperi, ma proprio per il motivo opposto, perché è sede privilegiata del dibattito culturale di un paese e di una città, "spazio" di riconoscimento degli altri e delle diversità. Prendendo spunto da questa contrapposizione di legittime opinioni, che in quanto tali non qualificano una scuola buona o cattiva, il mio illustre collega e autorevole editorialista Pietro Barcellona ha mediato, da buon magister, tra opponentes e respondentes, evidenziando nella laicità un "terreno" che gli uni e gli altri possano riconoscere comune e che emerge dalla lettura di tutti gli interventi, lettura che, quanto meno, non si fermi ai titoli, i quali peraltro, come si sa, hanno una genesi eteronoma rispetto ai contenuti espressi. Sento tuttavia l’esigenza di un’ulteriore precisazione, a beneficio proprio dei giovani e dei soggetti in formazione, da cui è partito il dibattito e che hanno diritto di capire prima di prendere una qualunque posizione: il significato del termine "laicità", per come s’è strutturato nel tempo a prescindere dalle differenti idee, confessioni e ideologie di chi l’ha promosso, non è modificato, come non è accresciuto né ridimensionato quello di "democrazia", da un qualsiasi aggettivo che viene a esso concordato; c’è quindi una sola laicità, non una buona e una cattiva, che accomuna, nell’accettazione del confronto paritario col "diverso", speranze e timori, bisogni di stabilità e aspirazioni al cambiamento, fedi e incredulità di uomini diversi e lontani, nello spazio e nel tempo. Essa non è mera neutralità, tanto meno scettico disimpegno o disinteresse nei confronti dei diversi bisogni culturali e spirituali. La laicità, come si evince dalla più volte ricordata risposta dei docenti, con cui si dichiarano disponibili ad accogliere e indirizzare, secondo quello che è il loro compito, l’appello dei loro giovani allievi, ma anche dalla diffusa ostilità che è nutrita nei suoi confronti (in questi nostri tempi di "riformismi" restauratori) quando non è intesa nel senso del "laicato", è, in positivo, pratica del riconoscimento di legittimità di tutte le posizioni e del ravvisamento della piena dignità di tutti i soggetti, con i quali è auspicabile e possibile incontrarsi e ai quali è auspicabile e possibile aprirsi, certo a partire dalle idee e dalla mentalità di ciascuno nonché dall’immagine di sé che ciascuno è stato provvisoriamente in grado di realizzare, ma dentro un orizzonte radicalmente mondano, che non preclude scelte valoriali e veritative, anzi ne è ricettacolo e "madre", ma non consente di brandirle come armi ideologiche o di utilizzarle come strumenti di controllo e di "selezione" delle idee.
CONCETTO MARTELLO professore associato di Storia della Filosofia Medievale nell’Università di Catania
(da www.lasicilia.it)
«Il dibattito allo Spedalieri: la produttività del confronto, le "domande del proprio tempo", gli insegnanti»
E’ stato con soddisfazione che abbiamo
constatato la consonanza dell’intervento
del 6 marzo di Pietro
Barcellona con la lettera da noi "prof" indirizzata il 4 marzo agli alunni
del Liceo "N. Spedalieri", nonostante
ad una prima vista il taglio editoriale
che lo presentava, come ci sembra
peraltro sia avvenuto nel caso del
nostro stesso scritto, facesse ipotizzare
contenuti che, invece, una lettura
condotta attentamente e senza
pregiudizi, rivelava poco consoni con
le tematiche effettivamente trattate.
Consonanza, dunque, sulla necessità
di rispondere seriamente ai giovani
in modo pubblico partecipando
ad un libero dibattito a più voci e
sulla necessità di "conoscere noi e gli
altri, apprendere a pensare e guardare
oltre la superficie degli eventi",
scrive Barcellona, di realizzare una
"comune crescita culturale... al di là
delle tante chiese di moda oggi...
[verso] il rispetto per l’altro e per le
differenze, la solidarietà e il rigetto
di ogni forma di prevaricazione", abbiamo
scritto noi.
Altro momento fondante del discorso
di Barcellona è il richiamo al rapporto
del senso con la verità mediato
dalla capacità di "problematizzare,
rappresentare la complessità del
mondo [senza] arrestarsi al dubbio,
giacché altrimenti si cadrebbe nel
nichilismo e nel relativismo": c’è
sembrato di ritrovare il significato di
quelle nostre stesse frasi con cui ribadivamo
agli alunni l’impegno dei
loro professori a "stimolare domande
e curiosità intellettuali, pensiero
critico...libera espressione...confronto
e ricerca...[per] prepararvi affinché
siate voi...a chiedervi quale sia il
senso della vita...a riuscire a individuare,
tramite lo studio...le risposte
adeguate al vostro percorso".
Conseguenza di questo nostro pensare
è che l’insegnante parli certo di
sè con i giovani ma mai confondendo
il dialogo didattico con l’opportunità
di offrire loro le proprie temporanee
risposte come Verità rivelate,
giacché "...la verità non è oggetto
della signoria di nessuno e nessuno
può conferire significati assoluti alla
propria esperienza e al proprio
punto di vista" e il mutamento di
orizzonte interpretativo contiene
non la negazione ma "prospettive
diverse": aver potuto argomentare
tale conseguenza prendendo in
prestito parole e concetti dalla lettera
di Barcellona ci convince ancor
di più dell’utilità dell’ascolto e del
dialogo reciproco, tanto da permetterci
di proseguire il confronto facendo
il paio tra il nostro richiamo
alla rigorosa posizione di Primo Levi
e la richiesta di Barcellona affinchè
la laicità della scuola non sia
"neutrale e avalutativa". Possiamo,
allora, ancora ribadire che la scuola
democratica e laica rifugge dall’integralismo,
cioé dal "dogmatismo
fondamentalista" e dal "significato
assoluto" per rifarci alla terminologia
barcelloniana, e vuole invece,
richiamando Levi, accompagnare il
proprio alunno tramite la fatica del
ragionamento, dello studio, della
discussione, alla conquista di verità
più modeste di quelle rivelate,
attuando un metodo produttivo e
utile ad esplicare la nostra onestà
intellettuale nel cammino culturale
che compiamo interrogandoci insieme
al giovane nella volontà di costruire
un mondo migliore, come
abbiamo dichiarato.
E’ stato di nuovo nell’intervento del
professore Barcellona che i "prof"
hanno ritrovato convergenza con la
loro riflessione sopra espressa, precisamente
quando Barcellona sottolinea
il fatto che il docente onesto intellettualmente
dichiari le proprie
credenze e le metta in discussione
aprendosi all’altro per garantire la
laicità dell’insegnamento. Noi insegnanti
che ci muoviamo nel rispetto
dei diritti costituzionali e formiamo
cittadini, abbiamo comunicato ai nostri
alunni che vorremmo vederli
soggetti e non oggetti del loro futuro
nella realtà della globalità, che
vorremmo aiutarli a non essere "soldatini
di piombo" dell’assolutismo,
dell’intolleranza, del consumismo,
dell’omologazione, che vorremmo
guardare con loro alla società al di là
delle effimere mode del momento e
Barcellona ci fa eco, invitandoci a
"produrre negli studenti la capacità
di riflettere sui significati delle pratiche
sociali in cui siamo immmersi",
a rintracciare foucoultianamente genealogie
del potere, a "educare alle
virtù civiche e alla democrazia".
Quando, poi, Barcellona conclude
parlando della necessità che i docenti
si confrontino con i temi della
violenza e del senso della vita all’interno
della "vita sociale collettiva",
recuperando a quei temi la dimensione
storica che li rende "domande
del proprio tempo" piuttosto che indistinti
assoluti, e coglie l’importanza
di condurre una simile operazione,
siamo riportati all’interpretazione
della maieutica socratica da lui
proposta, cioé che il "senso della vita...
che fa di un uomo un essere consapevole
e riflessivo" è anch’esso oggetto
del pungolo socratico, " l’interrogazione",
che, aggiungiamo noi,
sta alla base del dialogo teso a far
partorire attraverso gli altri ciò che
ciascuno conosce di se stesso e dei
propri limiti (quel consapevole sapere
di non sapere in grado di essere
guida delle azioni) e diviene innesco
della corrosività dell’ironia socratica
quando essa investe le certezze
presunte.
E’ vero: l’insegnante che sa solo rispondere
non riesce a garantire la
laicità dalla neutralità nè la produttiva
laicità dell’insegnamento, non
riesce a tutelare la società dal dogmatismo,
ad aiutare gli alunni a divenire
insieme cittadini e uomini e
donne criticamente autonomi, ma,
forse, potrebbe provare a realizzare
tutto ciò all’interno della dimensione
comunitaria quell’insegnante
che pone domande a se stesso, agli
altri, alla società e insegna ai propri
alunni a interrogarsi, a interrogare
gli altri, a interrogare la società con
spirito propositivo.
ADRIANA CANTARO - AGATA BOGNANNI -
- ELVIMAZZEI - LINA CRISPO - PIETRO
LAURETTA - ROSANNA CONSALVO PIERA
LEONARDI - GIOVANNI LO CASTRO - GIUSEPPE
CARRUBA - LUCIO CAMERA -
FRANCESCA DE SANTIS -GRAZIA RUSSO -
MIMMÌMICALIZZI - GIOVANNI DE FRANCISCO
- ELEONORAMORANDO - CARMELO
CONSOLI -ISABEL FARRUGIA - MARIA FLAVIA
LAURO
(da www.lasicilia.it)
«Il primo grande problema dei giovani forse siamo noi adulti»
Ho letto e riletto la lettera firmata dal preside e da 28
docenti del Liceo classico "N. Spedalieri" pubblicata il
4 Marzo, in risposta alla precedente "lettera-manifesto"
degli alunni della medesima scuola pubblicata
quasi un mese fa dopo i fatti accaduti il 2 febbraio durante
il derby Catania-Palermo. L’ho letta e riletta e
non solo non riesco, da insegnante, a condividerla per
i contenuti espressi, ma soprattutto non mi sembra
una puntuale risposta ai problemi posti e alla richiesta
di aiuto fatta dai ragazzi. I professori scrivono: "Il
nostro impegno di educatori e i cittadini è diretto a
stimolare domande e curiosità intellettuali, pensiero
critico, a favorire la libera espressione e circolazione
delle idee, il confronto e la ricerca nel rispetto dei diritti
di tutti sanciti dalla Costituzione. Non possiamo,
né vogliamo, darvi delle risposte, ma prepararvi affinché
siate voi non solo a chiedervi quale sia il senso
della vita ma anche riuscire a individuare le risposte
adeguate al vostro percorso (…) Vi rispettiamo troppo
per sventolarvi verità rivelate".
Ma i ragazzi cosa avevano chiesto nella loro lettera?
"Dove dovremmo impararlo noi il valore della vita?
Chi ce lo dovrebbe comunicare? Certo in primis la
scuola e la famiglia… Occorre ripartire dall’educazione…
Noi abbiamo bisogno che qualcuno ci aiuti a trovare
il senso del vivere e del morire, qualcuno che non
censuri la nostra domanda di felicità e verità. Noi riteniamo
che la scuola possa costituire uno spazio
adatto per questa ricerca e che liberamente uno possa
verificare tutta la positività e il bene che la realtà ci
promette. Dentro le cose che studiamo, dentro il tempo
scolastico, dentro il rapporto con i professori".
Alla luce di questi passi citati mi sembra che, forse, i
professori hanno travisato la domanda dei ragazzi.
Nella lettera i giovani non hanno parlato né chiaramente,
né in modo allusivo di Verità Rivelate, non mi
sembra - dal tono della lettera - che cerchino riposte
preconfezionate, tutt’altro. Quello che rivendicano -
ed è sacrosanto - è di essere accompagnati e aiutati a
divenire uomini e donne adulti, chiedono ai loro insegnanti
di aiutarli, attraverso lo studio di Dante, Seneca,
Euripide, Socrate, Platone, Kant…, innanzitutto ad
impostare la domanda sul senso della vita, domanda
che non appartiene solo ed esclusivamente alle "religioni
rivelate", ma all’uomo di ogni tempo, di ogni
classe sociale, di ogni fede e cultura, e quindi anche a
loro. Chiedono - e mi sembra lecito - di poter azzardare
riposte e di poterle confrontare e verificare in quello
"spazio", la scuola, che i professori di tutti i tempi
amano definire una "palestra di vita". Se non è compito
della scuola insegnare che la vita ha un valore, se
non è innanzitutto scopo degli studi - soprattutto
degli studi umanistici - suscitare il desiderio di porre
interrogativi sul senso della vita, della morte e spingere
a correre l’avventura di cercare risposte a queste
domande, far nascere la voglia di "sognare" un mondo
diverso, una famiglia diversa, una città diversa…
ma allora la scuola che ci sta a fare?
Mi ha ferito e deluso leggere questa lettera, anche perché
alcuni dei professori che l’hanno firmata sono stati
miei insegnanti, proprio allo "Spedalieri" ed è anche
attraverso loro che è maturato in me la vocazione all’insegnamento.
I miei ricordi più belli degli anni del
liceo sono quelli legati alle discussioni in classe proprio
sul senso della vita, dibattiti suscitati in classe
dalla lettura di Manzoni, Leopardi, di Platone, delle
tragedie greche e arricchiti da risposte diverse a domande
comuni a tutti: ognuno proponeva il proprio
punto di vista, anche legato ad una verità rivelata, ma
mai, nessun professore ci ha azzittiti, o ha detto: "a
scuola non si danno risposte alle vostre domande".
L’atteggiamento era un altro, duplice se vogliamo: da
una parte i professori - anche quelli che hanno firmato
- ascoltavano, dall’altro ciò che pretendevano da noi
erano argomentazioni valide alle tesi che proponevamo.
E il confronto non era solo tra noi ragazzi era anche
con gli insegnati che in classe portavano tutta la
loro carica di umanità.
Capisco che una lettera come quella dei ragazzi dello
"Spedalieri" metta in crisi gli insegnanti, perché spinge
ad una verifica dei propri comportamenti, dei propri
atteggiamenti, ma - mi dispiace - non giustifica
una presa di posizione come questa: c’è quasi risentimento
nelle loro parole perché i ragazzi hanno pubblicato
sul giornale le loro opinioni. Credo sia degno
di nota il fatto che i ragazzi non hanno iniziato il loro
scritto con le parole "Cari professori" perché non si riferivano
solo ed esclusivamente ai loro professori,
ma al mondo degli adulti più vicino a loro: la famiglia
e la scuola.
È triste constatare che con questa lettera gli adulti
hanno forse un po’"banalizzato" una lecita richiesta
dei ragazzi. Forse è proprio vero: il primo grande
problema dei giovani siamo noi adulti.
GABRIELA LAMENDOLA
(da www.lasicilia.it)
«La lavagna vuota, le attese degli studenti, e il compito degli insegnanti»
All’università il mio insegnante di lingua
francese non smetteva mai di ripetere:
"Ricordatevi di tradurre dal
francese all’italiano e dall’italiano all’italiano".
Frase sibillina? Tutt’altro.
Anche chi è abituato a leggere esclusivamente
"SuperGossip6000" sa
perfettamente che esistono diversi
tipi di linguaggio, l’italiano che si parla
a casa o con gli amici, l’italiano che
si usa fra colleghi, col dirigente, quello
da usare quando si interviene in un
dibattito culturale. Esiste, esiste ed è
inutile nascondersi con la testa sotto
la sabbia come gli struzzi, un italiano
"dei giovani". Fenomeno atipico? Assolutamente
(scusate il modo di dire,
è attualissimo...) Basta leggere un romanzo
scritto nell’800, o guardare
un film degli anni ’30 o rivedere un
reportage girato negli anni ’70 che ci
si accorge immediatamente che i
"giovani" hanno sempre adoperato
un linguaggio verbale e gestuale di
rottura con le generazioni che li hanno
preceduti. E ci mancherebbe... Se
così’ non fosse ci esprimeremmo ancora
con i suoni gutturali dei nostri
progenitori delle caverne o a definire
il medico di base cerusico.
Il punto concreto su cui dibattere è un
altro. I "giovani", tranne qualche fortunato
che ha alle spalle una famiglia
che gli fornisce i vari stimoli culturali
e sociali di cui ha bisogno, hanno
come punto di riferimento la scuola.
Dovrebbero. Se così non è, la colpa è
loro? Da piccola la maestra mi diceva
che gli studenti sono come una lavagna
vuota su cui scrivere le varie nozioni.
Quando un insegnante, anche
di un istituto superiore, scopre delle
zone vuote su questa lavagna, deve
rimboccarsi le maniche e scriverci
qualcosa. Se invece si scandalizza di
quei vuoti senza fare null’altro che
lamentarsi dell’ignoranza del suo
alunno, secondo me, ha soltanto violato
i suoi doveri formativi.
Vi racconto un episodio tristissimo
accaduto quando frequentavo il primo
liceo. Ora di Matematica, l’insegnante
spiega e infine domanda se
avessimo capito, facce sbigottite, secchione
compreso, ops, scusate, volevo
dire che anche il più studioso aveva
delle perplessità. Un mio compagno
alza la mano timidamente e chiede
delucidazioni, viene invitato alla
lavagna per eseguire personalmente
i passaggi poco chiari. A poco a poco,
sotto i nostri occhi increduli, la richiesta
di spiegazioni si è trasformata
in una feroce interrogazione, dalla
quale il mio compagno, un ragazzetto
mite e che aveva la sfortuna (scolastica)
di provenire da una famiglia di
operai, è uscito a pezzi. La lezione
l’abbiamo capita immediatamente:
negli anni a venire, con certi insegnanti
nessuno di noi si è più sognato
di alzare la mano per chiedere lumi.
Meditate gente, meditate.
ELISABETTA FRAZZETTO
(da www.lasicilia.it)
«Scuola, guerra totale»
Che la scuola possa essere la cassa di risonanza
della società, dei suoi disagi e
delle sue fragilità, è cosa assai risaputa,
come è noto che i giovani si sentano
sempre più distanti dal pianeta scuola
per i diversi orizzonti culturali e per i
contenuti delle discipline che diventano
sempre più démodé, rispetto alla realtà
degli sms, dell’internet dove la cultura
può essere scelta e cercata comodamente
da casa. E’ vero però che il compito
della scuola non deve limitarsi ad informare
ma a formare eticamente e ideologicamente
il giovane cittadino di domani
e questo certo non può farlo internet.
E con questa problematica discriminante
gli operatori della scuola vivono quotidianamente,
spinti dalla profonda convinzione,
acquisita in anni di studio, sacrifici
e preparazione, che questo lavoro
abbia come obiettivo la iniziazione e la
formazione del piccolo cittadino e non il
suo indottrinamento.
Ma quello che ritengo più grave è che a
creare la disarmonia nel mondo della
scuola non sia questo ovvio scollamento
generazionale, ma la mancanza di un
atteggiamento rispettoso tra le componenti
dell’ambito scolastico: dirigenti
verso i professori, genitori verso dirigenti
e professori, cioè una guerra tra
adulti. Dirigenti presi dalla nefasta concezione
della scuola come azienda e degli
alunni come clienti utenti, la cui affluenza
decreta il successo della stessa,
additano i docenti come responsabili
dell’"insuccesso" della loro azienda
quando alunni-clienti, giudicati nelle
valutazioni come insufficienti, chiedono
i nulla osta per andare in scuole diplomifici
con un conseguente calo di iscritti.
L’altra componente sono dunque le famiglie
che colmando di doni e di facili
consumi i propri rampolli, riparando così
alle loro difficoltà di educatori, reputano
una punizione immeritata e iniqua
la valutazione severa o l’imposizione
di doveri ai loro "piccoli principi",
così li difendono e li proteggono prelevandoli
anticipatamente dalle classi per
evitare loro le interrogazioni o li fanno
trasferire altrove...
I giovani rampolli dunque, intorno ai
quali si combattono guerre corpo a corpo
(come quella del preside picchiato a
Bari) o dispute fatte con carte bollate e
ricorsi al Tar, sapendo che i voti bassi sono
una ingiustizia, sapendo che i genitori
li sposteranno nei diplomifici, non trovano
altro passatempo che praticare il
bullismo, unico mezzo per affermare la
loro bellezza o superiorità fisica all’interno
delle aule. E intanto i governanti
pensano a tagliare le cattedre, a dimensionare
le classi e le scuole, con la sola
logica del risparmio sulla spesa pubblica,
mentre servirebbe una forte opera di
rivalutazione dei principi su cui si fonda
la scuola, per una vera e propria "campagna"
di informazione dei successi che
pure esistono nella scuola, e di difesa e
di incremento della dignità del professore,
per restituirgli quella serenità indispensabile
per operare. Credo infatti che
sia fortemente necessario che nella
scuola si accresca la credibilità da parte
dei giovani e la fiducia da parte degli
adulti verso le competenze che ciascun
operatore ha acquisito con l’amore e la
passione che lo hanno portato a scegliere
un lavoro ahimè gravoso ma dal quale
poi non riesce ad andare via tanto facilmente!
COSTANZA DAMANTI
(un’insegnante indignata)
(da www.lasicilia.it)
«L’educazione alla verità
e la relazione educativa»
Da operatore scolastico, anche se nel primo settore
della formazione sento il dovere di intervenire nel
dibattito che si è instaurato tra i ragazzi del Liceo
“Spedalieri”, (alcuni dei quali sono nostri ex alunni),
i docenti ed il prof. Pietro Barcellona. Sia nella lettera-
manifesto dei ragazzi, sia nella risposta dei docenti
c’è tanta ansia di colmare il vuoto educativo.
Nell’azione educativa non si può essere “neutrali” e
la proclamata “laicità” non diventa segno di coerenza
e di fedeltà agli impegni professionali. E’ infatti
professore, professionista, colui che crede alle cose
che fa e, quindi, se ci crede, ha il dovere di agire, testimoniare
e insegnare in maniera coerente. In una
frase-messaggio di 17 anni fa, (ancora oggi attuale)
abbiamo scritto come sintesi del progetto educativo
di una scuola media “statale” : “L’alunno cresce
nella comunità, diventa uomo, apre i suoi occhi al
vero, scopre la dimensione dell’Assoluto”. La scuola,
infatti non può insegnare cose false, ecco perché
ha ben detto il prof. Barcellona quando evidenza il
dovere di esplicitare i valori , spiegando i percorsi attraverso
i quali si è pervenuti alla loro conquista e
spiegando che la verità non è oggetto della signoria
di nessuno. La scuola, a cominciare dalla primaria
aiuta e guida il bambino ad “aprire i suoi occhi al vero”
ad apprendere cose nuove, ma utili e giuste, a conoscere
fatti e personaggi che hanno trasmesso e testimoniato
i valori della convivenza civile, divenendo
così uomo e cittadino. Compito della scuola non
è quello di trasmettere “il già pensato” da altri, ma di
“insegnare a pensare” in maniera critica, responsabile
e coerente. Gli apprendimenti, infatti, diventano
tali quando producono delle modificazioni, relativamente
stabili, nel modo di pensare, di sentire e
di agire. Se tutto ciò non avviene non c’è vero apprendimento
e quindi l’insegnamento non è stato
efficace. L’appello dei ragazzi è forte e chiaro e sollecita
un nuovo stile pedagogico, una reale presenza
del docente educatore, che si prende cura di tutti
e cerca di non perderne nessuno nel percorso, che
guida, consiglia, richiama e rimprovera, che accompagna
il processo di formazione di tutti e di ciascuno,
che trova nuove forme di dialogo educativo e che
costantemente sollecita una sempre insistente collaborazione
tra la scuola e la famiglia (spesso assente
o inesistente). La scuola catanese è ricca di tante
professionalità e, lavorando insieme, si potranno
dare sagge riposte di senso ai tanti problemi dei ragazzi.
GIUSEPPE ADERNÒ
preside Istituto scolastico "G. Parini" Catania
(da www.lasicilia.it)
«Per combattere il bullismo, definiamo meglio il fenomeno e definiamo le responsabilità, anche istituzionali»
Da qualche tempo la nostra cronaca è funestata dal continuo ripetersi
di azioni violente ed aggressive operate da giovani
(spesso minorenni) contro altri coetanei .
Tali azioni vengono usualmente ed impropriamente codificate
col termine tecnico di "bullismo". In realtà la definizione che dà
Olweus (a tutt’oggi il ricercatore più autorevole sull’argomento)
recita che :"Uno studente è oggetto di azioni di bullismo, ovvero
è prevaricato o vittimizzato, quando viene esposto, ripetutamente
nel corso del tempo, alle azioni offensive messe in
atto da parte di uno o di più compagni". Questo a nostro parere
è un punto fondamentale che non può essere disatteso.
Bisogna distinguere fra gli atti violenti, ripetuti, persecutori intrascolastici
che vedono come vittima uno studente "capro
espiatorio" delle viltà morali e della pochezza degli aggressori
e le azioni violente messe in atto da bande composte da criminali,
contro cui l’uso del termine "bullismo" è improprio tecnicamente
e soprattutto tende, semanticamente, a depotenziarne
il peso e gli effetti trasformando eventi di pieno interesse penale
quasi in "monellerie" di ragazzi un poco turbolenti.
Riteniamo necessario porre tale distinzione perché farlo ci indirizza
sui percorsi di intervento, contestualizzando gli eventi
e individuando gli interlocutori, che non possono essere aspecifici
(la società, la scuola..) ma che sono persone ben precise
con ruoli e responsabilità istituzionali ben caratterizzati. E, infatti,
il vero problema resta il concetto di responsabilità ed il
modo con cui esso viene declinato.
Riportiamo due episodi di cui siamo venuti a conoscenza, per
meglio chiarire il nostro pensiero. Domenica sera scorsa alcuni
ragazzi ,vengono puntati da una banda di giovani criminali
che cominciano a seguirli e che, infine, li aggrediscono colpendoli
con vari ceffoni: i ragazzi chiamano le forze dell’ordine che
li conducono presso di sé ma che non accettano la denuncia adducendo
che "prima i ragazzi dovevano passare dall’ospedale a
farsi refertare e poi tornare per stendere la denuncia". Ovviamente
i ragazzi, stanchi (erano le tre del mattino) ed impauriti
hanno "mollato" e a nulla sono valse le loro argomentazioni
di voler comunque denunciare l’aggressione (che li aveva molto
spaventati, determinando un danno sul piano psichico) sorvolando
sugli schiaffi che , fortunatamente ,avevano prodotto
pochi danni sul piano fisico. Ci chiediamo, e chiediamo, quale
è stato il senso di responsabilità in questa occasione?
Ancora: in una scuola superiore, alcuni alunni vessano costantemente
alcuni compagni, ma sono cauti, esplicano le loro
azioni nei momenti in cui sono presenti, come insegnanti,
quelli meno autorevoli che, nonostante gli inviti dei colleghi a
denunciare i fatti, si rifiutano adducendo varie motivazioni. Ci
chiediamo, e chiediamo, quale messaggio educativo viene dato
alle vittime, in primo luogo, ed ai persecutori?
Come dicevamo prima, allora, il problema è il "far finta di
niente" individuale ed in qualche misura istituzionale, questo
"girar lo sguardo" che ha permesso il lento ed inarrestabile ingigantirsi
del fenomeno con tutte le sue sfaccettature, scolastiche
ed extrascolastiche ed in questo anche alcune scelte di titoli
dei quotidiani ("Picchiato da bulli del Cibali", per esempio),
tendono a ridurre la portata e la gravità dei fatti che sono a tutti
gli effetti violenza e criminalità, più o meno organizzata.
Vi è inoltre la tendenza a pensare che gli avvenimenti che ci
stanno interessando siano "nuovi", quando invece sono stati finora
ignorati in larga parte, e che siamo " i primi " ad avere tali
problemi trascurando le importanti esperienze italiane ed internazionali
al riguardo.
Infine, andrebbe visto lo stretto legame fra questi episodi ed il
vertiginoso e preoccupante aumento dei fenomeni di violenza
contro le donne, causa di tassi di mortalità e di invalidità elevatissimi
in tutto il mondo; contro tali fenomeni esistono, anche
da noi, esperienze egregie ed avanzate come la Rete antiviolenza
sostenuta dalla Provincia (grazie alla tenace caparbietà dell’assessore
Ferro) cui hanno collaborato e collaborano enti del
Terzo settore, la Asl 3, diversi Comuni. Forse, se vogliamo veramente
combattere i fenomeni descritti, noi adulti (come singoli
e come istituzioni) dovremmo prima e velocemente trovare
un linguaggio comune che ci faccia agire come "genitori sociali"
coerenti ed adeguati, rifuggendo da tendenze parolaie e
collegando le vere operatività altrimenti vincono le spinte criminali,
impulsive e destabilizzanti a livello individuale e sociale.
DR. GIANCARLO COSTANZA
neuropsichiatria infantile, psicoterapeuta
DR.SSA GIUSI ORTOLEVA
psicologa, psicoterapeuta
(da www.lasicilia.it)