Il dibattito dello Spedalieri
Data: Martedì, 13 marzo 2007 ore 01:30:54 CET
Argomento: Rassegna stampa


- «La scuola che non crede a nulla, nulla può insegnare»

- La scuola scopre che il vuoto di proposte favorisce i bulli

- «Non siamo chiamati a trasmettere valori»

- «Il dibattito allo Spedalieri: la produttività del confronto, le "domande del proprio tempo", gli insegnanti»

- «Il primo grande problema dei giovani forse siamo noi adulti»

- «La lavagna vuota, le attese degli studenti, e il compito degli insegnanti»

- «Scuola, guerra totale»

- «L’educazione alla verità e la relazione educativa»

- «Per combattere il bullismo, definiamo meglio il fenomeno e definiamo le responsabilità, anche istituzionali»

 

«La scuola che non crede a nulla, nulla può insegnare»

Negli ultimi giorni la scuola è entrata nelle cronache, soprattutto per i casi di violenza di studenti e genitori contro professori e presidi (ma si è verificato anche, in qualche caso, l’inverso). E’ invece scivolato nella disattenzione generale quel che è avvenuto a Catania, dove un gruppo di studenti del liceo Spedalieri ha scritto una lettera-manifesto ai propri docenti, ricevendo da preside e professori una risposta (anch’essa pubblicata sul quotidiano La Sicilia) che lascia davvero sgomenti. Il documento degli studenti partiva da una drammatica riflessione sulle violenze del 2 febbraio, in cui venne ucciso l’ispettore Raciti, per interrogarsi sull’assenza di valori nella quale sentono di vivere, sulla totale mancanza di punti di riferimento che li porta a sentirsi «soffocati dal nulla». E terminava, quella lettera, con una richiesta drammatica: «Abbiamo bisogno che qualcuno ci aiuti a trovare il senso del vivere e del morire, qualcuno che non censuri la nostra domanda di felicità e di verità». Intendiamoci: la lettera vergata dai docenti catanesi va letta con la consapevolezza di quanto sia difficile per chiunque oggi, insegnante e non, provare a rispondere a interrogativi tanto fondamentali. Ma ciò che rende terribile quella lettera è il nichilismo pedagogico che sembra ispirarla, il fatto cioè che professori e professoresse vi sostengano che la scuola, loro stessi dunque, risposte non debbono neanche provare a darne. La scuola, secondo loro, dovrebbe infatti limitarsi a «stimolare domande»; quanto al «senso della vita», che nella loro lettera quasi disperata gli studenti dichiaravano di aver perso o non aver mai trovato, ebbene, che ciascuno cerchi da solo le «risposte adeguate al proprio percorso». Invece di rallegrarsi che un fatto drammatico abbia spinto un gruppo di studenti a interrogarsi sul senso del vivere, a porsi le domande essenziali, ebbene gli insegnanti li invitano puramente e semplicemente a piantarla: «Proporvi, o imporvi, delle verità è integralismo, cioè barbarie, e pertanto questo atteggiamento non può avere luogo nella scuola pubblica, cioè democratica e laica». Si notino le assurdità contenute in questa frase: la coincidenza tra proporre e imporre, l’idea secondo la quale la laicità corrisponderebbe all’assenza di qualunque valore, principio, credenza. Ma sono assurdità che molti insegnanti italiani, temo, ormai non considerano affatto tali. Contemporaneamente il documento dei docenti di Catania è un perfetto riassunto di quella vera e propria ideologia del dialogo e dell’ascolto - a base di «rispetto dell’altro e delle differenze», di «solidarietà», di «rigetto di ogni forma di prevaricazione» - con cui la scuola italiana si illude di ovviare alla sua incapacità di trasmettere valori e norme di vita. Non c’è ormai istituto scolastico, credo, in cui non vi siano in atto progetti multiculturali, per insegnare appunto a rispettare l’altro, a rifiutare la prevaricazione e via elencando. Tutte intenzioni buonissime, figuriamoci; ma il punto è che non si vede quale incontro con l’altro possa mai avvenire, quale dialogo possa mai instaurarsi, se non a partire da un riconoscimento, problematico quanto si vuole, critico quanto si vuole, di propri valori e di una propria cultura. Una scuola e una società che non ritengano di aver nulla da salvare nella propria tradizione e nella propria storia, nulla che meriti d’essere proposto se non una generica disposizione all’ascolto e all’apprezzamento indifferenziato (e in fondo indifferente) di tutto e di tutti, su quale base mai incontrerà l’«altro»? Qualche mese fa, bastò che dieci o venti studenti occupassero un noto liceo della Capitale perché subito il ministro Fioroni si precipitasse da loro per sentire cosa avessero da dire. Forse, ci permettiamo di osservare, sarebbe opportuno che ora facesse almeno lo stesso con gli studenti di Catania, magari per spiegar loro che non è vero, o non lo è sempre, che la scuola «pubblica », «democratica» e «laica» debba essere, puramente e semplicemente, una scuola in cui si insegna a non credere a nulla.

GIOVANNI BELARDELLI (Corriere della Sera, 10 marzo 2007 - da www.lasicilia.it)

 

 

La scuola scopre che il vuoto di proposte favorisce i bulli

E’ accaduto in un istituto tecnico di Milano. Un ragazzo litiga con un coetaneo e lo apostrofa con dispregio: «Filippo Raciti!». L’insegnante di lettere, che ha assistito alla scena, rimprovera l’alunno violento e tenta di spiegare: «Ma come, non hai nessun rispetto per un padre di famiglia ucciso, per un poliziotto..». Ma il ragazzo non sente ragioni. E, quel che è peggio, i suoi compagni di classe stanno dalla sua parte: «Anche noi la pensiamo così». Siamo al cinismo più disumano, per di più in una scuola superiore della capitale economica del Paese. Ma come siamo arrivati a questa violenza generalizzata, che prende i giovani di tutti i ceti, di tutte le età, di ogni parte del Paese? Come siamo arrivati ad avere una generazione che fa dello sfascio l’ideale quotidiano? I bulli di Milano non hanno nulla di diverso dai giovani che ieri in una discoteca di Piazza Armerina hanno accoltellato un sedicenne. La violenza dei giovani fa il paio con la rassegnazione degli adulti, col «nichilismo pedagogico» di molti insegnanti sedicenti laici e democratici che camuffano come rispetto dell’altro l’incapacità di comunicare i presupposti ideali che li muovono nell’insegnamento e nella vita. Accade così che il caso Spedalieri divenga l’emblema di una situazione nazionale. Agli studenti che, con un appello pubblicato sul nostro giornale, chiedono ai loro docenti un aiuto sulle domande fondamentali della vita, ventotto prof replicano che la scuola non è chiamata a dare risposte, essa è terreno neutro di confronto, luogo «laico». Ma proprio questo concetto di laicità assomiglia a una scimmiottatura del dialogo. «Non si vede quale incontro con l’altro possa mai avvenire - ha scritto acutamente sul Corriere della Sera Giovanni Belardelli prendendo spunto proprio dai fatti dello Spedalieri - quale dialogo possa mai instaurarsi, se non a partire da un riconoscimento , problematico quanto si vuole, critico quanto si vuole, di propri valori e di una propria cultura ». Su questo punto, di una laicità che non può essere confusa con la neutralità, si ritrovano sorprendentemente in consonanza il filosofo del diritto Pietro Barcellona (che sul nostro giornale ha scritto un editoriale illuminante) e il teologo e cardinale Angelo Scola, che proprio ieri sul «Sole 24» ha pubblicato un articolo dal titolo «Laico, non indifferente». Se i giovani violenti dello stadio Massimino hanno scoperchiato la pentola del malessere giovanile a Catania e nel resto del Paese, i ragazzi dello Spedalieri con il loro appello stanno costringendo il mondo educativo italiano a ripensare sul fatto che «una scuola che non crede a nulla, nulla può insegnare». Facciamo nostro, allora, l’appello lanciato dal Corriere: ministro Fioroni, lei che ha parlato in questi giorni di una vera e propria emergenza educativa, non lasci cadere la domanda dei giovani catanesi, la raccolga, venga ad ascoltarli e li rassicuri sul fatto che la scuola c’è anche per dare risposta - critica, ragionevole, culturalmente argomentata - alle loro domande. Altrimenti la violenza avrebbe l’ultima parola.

GIUSEPPE DI FAZIO (da www.lasicilia.it)

 

«Non siamo chiamati a trasmettere valori»

Ho seguito con interesse il dibattito sul disagio e le domande dei giovani, che è stato suscitato dall’appassionata lettera di alcuni studenti del Liceo "Spedalieri", accostata per questo alla Lettera a una professoressa (scritta quarant’anni fa dagli allievi della scuola di Barbiana e dal loro maestro, Lorenzo Milani), magari un po’ enfaticamente e tutto sommato impropriamente, in quanto quest’ultima era una rigorosa messa in questione degli "assoluti" ideologici e didattici che irreggimentavano la società e la scuola del tempo, mentre la nostra - direi all’incontrario - è nient’altro che un’accorata richiesta, ovviamente pienamente congrua alla corretta dialettica tra le diverse componenti dell’"universo" scolastico, di attenzione e di verità. Tale tema si sviluppa nell’"appello", ed è stato poi sviluppato dai partecipanti al dibattito, su due piani, che spesso si confondono ma che, a mio avviso, vanno tenuti distinti: da un lato la denuncia, o quanto meno la constatazione, di una demotivazione degli insegnanti ritenuta diffusa; dall’altro lato la struggente "nostalgia dell’altro", che sconfina, o tende a sconfinare, nel bisogno dell’"assolutamente altro", inteso come risposta rassicurante e onnicomprensiva a ogni emergere di un’alterità conflittuale o semplicemente diversa dai modelli consueti. A proposito del primo aspetto, il discorso inevitabilmente accomuna al disagio dei giovani quello degli insegnanti, gli uni e gli altri "vittime" invisibili, finché non siano funzionali a un qualche interesse "forte" che li trascende, di una spietata competizione sociale, in cui, a prescindere da chi "vince", su cui nondimeno ci sarebbe da dire molto, a chi "perde" non resta che aggredire, per rivalsa o per sentirsi protagonista e "vincente". Da questo punto di vista, gli insegnanti non sono marziani e non si può pretendere che siano "eroi", ancorché la nostra terra sia sufficientemente "infelice" da legittimarne la presenza; probabilmente le critiche che in modo implicito o velato sono state loro avanzate in più di un intervento possono non essere ritenute del tutto infondate; forse l’attenzione, la motivazione e la concentrazione che alcuni di essi mettono nella loro attività professionale non sono sempre profuse al massimo grado; e tuttavia, così come avviene anche in occasione di fatti che riguardano gli studenti, e in generale i giovani, ci si accorge di loro e del loro lavoro solo per metterne in evidenza le inevitabili défaillances e difficoltà, l’attenzione dei media di massa non è prestata all’impegno, di certo non meno rilevante e qualitativo di quello profuso dalle altre categorie professionali, con cui è da essi, ciascuno con la sua personalità e le sue risorse umane e culturali, portato quotidianamente avanti il dialogo con i giovani, né all’entusiasmo, che ha dell’eccezionale in relazione a un’attività particolarmente usurante sul piano nervoso, con cui sistematicamente si aprono agli altri e alle loro esigenze, a fronte di un riconoscimento sociale pressoché nullo, per cui tutti si sentono in diritto di giudicarli e sono di fatto incoraggiati a condannarli. Certo l’aspetto della lettera degli studenti che maggiormente ha attratto l’interesse di chi è intervenuto e la legittima risposta di numerosi professori, che non penso possa essere stigmatizzata come segno di hubris, è stato quello riguardante la domanda di "felicità e verità" che verrebbe dai giovani e che inevitabilmente ha determinato due "schieramenti", quello di chi si è sentito in grado di soddisfare questa richiesta di pienezza e di esaustività, o comunque l’ha ritenuta compatibile con le funzioni della scuola e le responsabilità dei docenti, e quello di chi ha inteso mettere in guardia i ragazzi perché siano in grado di ridimensionare le "figure" e i "miti" della pubblicità, così come le rappresentazioni mediatiche di una realtà meramente pensata, attraverso un rapporto corretto e razionale con la realtà, e rifuggano da "scorciatoie" e semplificazioni. In altri termini, hanno affermato che la scuola non è chiamata a trasmettere valori, non perché essa sia luogo di arida e scettica "riproduzione" dei saperi, ma proprio per il motivo opposto, perché è sede privilegiata del dibattito culturale di un paese e di una città, "spazio" di riconoscimento degli altri e delle diversità. Prendendo spunto da questa contrapposizione di legittime opinioni, che in quanto tali non qualificano una scuola buona o cattiva, il mio illustre collega e autorevole editorialista Pietro Barcellona ha mediato, da buon magister, tra opponentes e respondentes, evidenziando nella laicità un "terreno" che gli uni e gli altri possano riconoscere comune e che emerge dalla lettura di tutti gli interventi, lettura che, quanto meno, non si fermi ai titoli, i quali peraltro, come si sa, hanno una genesi eteronoma rispetto ai contenuti espressi. Sento tuttavia l’esigenza di un’ulteriore precisazione, a beneficio proprio dei giovani e dei soggetti in formazione, da cui è partito il dibattito e che hanno diritto di capire prima di prendere una qualunque posizione: il significato del termine "laicità", per come s’è strutturato nel tempo a prescindere dalle differenti idee, confessioni e ideologie di chi l’ha promosso, non è modificato, come non è accresciuto né ridimensionato quello di "democrazia", da un qualsiasi aggettivo che viene a esso concordato; c’è quindi una sola laicità, non una buona e una cattiva, che accomuna, nell’accettazione del confronto paritario col "diverso", speranze e timori, bisogni di stabilità e aspirazioni al cambiamento, fedi e incredulità di uomini diversi e lontani, nello spazio e nel tempo. Essa non è mera neutralità, tanto meno scettico disimpegno o disinteresse nei confronti dei diversi bisogni culturali e spirituali. La laicità, come si evince dalla più volte ricordata risposta dei docenti, con cui si dichiarano disponibili ad accogliere e indirizzare, secondo quello che è il loro compito, l’appello dei loro giovani allievi, ma anche dalla diffusa ostilità che è nutrita nei suoi confronti (in questi nostri tempi di "riformismi" restauratori) quando non è intesa nel senso del "laicato", è, in positivo, pratica del riconoscimento di legittimità di tutte le posizioni e del ravvisamento della piena dignità di tutti i soggetti, con i quali è auspicabile e possibile incontrarsi e ai quali è auspicabile e possibile aprirsi, certo a partire dalle idee e dalla mentalità di ciascuno nonché dall’immagine di sé che ciascuno è stato provvisoriamente in grado di realizzare, ma dentro un orizzonte radicalmente mondano, che non preclude scelte valoriali e veritative, anzi ne è ricettacolo e "madre", ma non consente di brandirle come armi ideologiche o di utilizzarle come strumenti di controllo e di "selezione" delle idee.

CONCETTO MARTELLO professore associato di Storia della Filosofia Medievale nell’Università di Catania

(da www.lasicilia.it)

 

«Il dibattito allo Spedalieri: la produttività del confronto, le "domande del proprio tempo", gli insegnanti»

E’ stato con soddisfazione che abbiamo constatato la consonanza dell’intervento del 6 marzo di Pietro Barcellona con la lettera da noi "prof" indirizzata il 4 marzo agli alunni del Liceo "N. Spedalieri", nonostante ad una prima vista il taglio editoriale che lo presentava, come ci sembra peraltro sia avvenuto nel caso del nostro stesso scritto, facesse ipotizzare contenuti che, invece, una lettura condotta attentamente e senza pregiudizi, rivelava poco consoni con le tematiche effettivamente trattate. Consonanza, dunque, sulla necessità di rispondere seriamente ai giovani in modo pubblico partecipando ad un libero dibattito a più voci e sulla necessità di "conoscere noi e gli altri, apprendere a pensare e guardare oltre la superficie degli eventi", scrive Barcellona, di realizzare una "comune crescita culturale... al di là delle tante chiese di moda oggi... [verso] il rispetto per l’altro e per le differenze, la solidarietà e il rigetto di ogni forma di prevaricazione", abbiamo scritto noi. Altro momento fondante del discorso di Barcellona è il richiamo al rapporto del senso con la verità mediato dalla capacità di "problematizzare, rappresentare la complessità del mondo [senza] arrestarsi al dubbio, giacché altrimenti si cadrebbe nel nichilismo e nel relativismo": c’è sembrato di ritrovare il significato di quelle nostre stesse frasi con cui ribadivamo agli alunni l’impegno dei loro professori a "stimolare domande e curiosità intellettuali, pensiero critico...libera espressione...confronto e ricerca...[per] prepararvi affinché siate voi...a chiedervi quale sia il senso della vita...a riuscire a individuare, tramite lo studio...le risposte adeguate al vostro percorso". Conseguenza di questo nostro pensare è che l’insegnante parli certo di sè con i giovani ma mai confondendo il dialogo didattico con l’opportunità di offrire loro le proprie temporanee risposte come Verità rivelate, giacché "...la verità non è oggetto della signoria di nessuno e nessuno può conferire significati assoluti alla propria esperienza e al proprio punto di vista" e il mutamento di orizzonte interpretativo contiene non la negazione ma "prospettive diverse": aver potuto argomentare tale conseguenza prendendo in prestito parole e concetti dalla lettera di Barcellona ci convince ancor di più dell’utilità dell’ascolto e del dialogo reciproco, tanto da permetterci di proseguire il confronto facendo il paio tra il nostro richiamo alla rigorosa posizione di Primo Levi e la richiesta di Barcellona affinchè la laicità della scuola non sia "neutrale e avalutativa". Possiamo, allora, ancora ribadire che la scuola democratica e laica rifugge dall’integralismo, cioé dal "dogmatismo fondamentalista" e dal "significato assoluto" per rifarci alla terminologia barcelloniana, e vuole invece, richiamando Levi, accompagnare il proprio alunno tramite la fatica del ragionamento, dello studio, della discussione, alla conquista di verità più modeste di quelle rivelate, attuando un metodo produttivo e utile ad esplicare la nostra onestà intellettuale nel cammino culturale che compiamo interrogandoci insieme al giovane nella volontà di costruire un mondo migliore, come abbiamo dichiarato. E’ stato di nuovo nell’intervento del professore Barcellona che i "prof" hanno ritrovato convergenza con la loro riflessione sopra espressa, precisamente quando Barcellona sottolinea il fatto che il docente onesto intellettualmente dichiari le proprie credenze e le metta in discussione aprendosi all’altro per garantire la laicità dell’insegnamento. Noi insegnanti che ci muoviamo nel rispetto dei diritti costituzionali e formiamo cittadini, abbiamo comunicato ai nostri alunni che vorremmo vederli soggetti e non oggetti del loro futuro nella realtà della globalità, che vorremmo aiutarli a non essere "soldatini di piombo" dell’assolutismo, dell’intolleranza, del consumismo, dell’omologazione, che vorremmo guardare con loro alla società al di là delle effimere mode del momento e Barcellona ci fa eco, invitandoci a "produrre negli studenti la capacità di riflettere sui significati delle pratiche sociali in cui siamo immmersi", a rintracciare foucoultianamente genealogie del potere, a "educare alle virtù civiche e alla democrazia". Quando, poi, Barcellona conclude parlando della necessità che i docenti si confrontino con i temi della violenza e del senso della vita all’interno della "vita sociale collettiva", recuperando a quei temi la dimensione storica che li rende "domande del proprio tempo" piuttosto che indistinti assoluti, e coglie l’importanza di condurre una simile operazione, siamo riportati all’interpretazione della maieutica socratica da lui proposta, cioé che il "senso della vita... che fa di un uomo un essere consapevole e riflessivo" è anch’esso oggetto del pungolo socratico, " l’interrogazione", che, aggiungiamo noi, sta alla base del dialogo teso a far partorire attraverso gli altri ciò che ciascuno conosce di se stesso e dei propri limiti (quel consapevole sapere di non sapere in grado di essere guida delle azioni) e diviene innesco della corrosività dell’ironia socratica quando essa investe le certezze presunte. E’ vero: l’insegnante che sa solo rispondere non riesce a garantire la laicità dalla neutralità nè la produttiva laicità dell’insegnamento, non riesce a tutelare la società dal dogmatismo, ad aiutare gli alunni a divenire insieme cittadini e uomini e donne criticamente autonomi, ma, forse, potrebbe provare a realizzare tutto ciò all’interno della dimensione comunitaria quell’insegnante che pone domande a se stesso, agli altri, alla società e insegna ai propri alunni a interrogarsi, a interrogare gli altri, a interrogare la società con spirito propositivo.

ADRIANA CANTARO - AGATA BOGNANNI - - ELVIMAZZEI - LINA CRISPO - PIETRO LAURETTA - ROSANNA CONSALVO PIERA LEONARDI - GIOVANNI LO CASTRO - GIUSEPPE CARRUBA - LUCIO CAMERA - FRANCESCA DE SANTIS -GRAZIA RUSSO - MIMMÌMICALIZZI - GIOVANNI DE FRANCISCO - ELEONORAMORANDO - CARMELO CONSOLI -ISABEL FARRUGIA - MARIA FLAVIA LAURO

(da www.lasicilia.it)

 

«Il primo grande problema dei giovani forse siamo noi adulti»

Ho letto e riletto la lettera firmata dal preside e da 28 docenti del Liceo classico "N. Spedalieri" pubblicata il 4 Marzo, in risposta alla precedente "lettera-manifesto" degli alunni della medesima scuola pubblicata quasi un mese fa dopo i fatti accaduti il 2 febbraio durante il derby Catania-Palermo. L’ho letta e riletta e non solo non riesco, da insegnante, a condividerla per i contenuti espressi, ma soprattutto non mi sembra una puntuale risposta ai problemi posti e alla richiesta di aiuto fatta dai ragazzi. I professori scrivono: "Il nostro impegno di educatori e i cittadini è diretto a stimolare domande e curiosità intellettuali, pensiero critico, a favorire la libera espressione e circolazione delle idee, il confronto e la ricerca nel rispetto dei diritti di tutti sanciti dalla Costituzione. Non possiamo, né vogliamo, darvi delle risposte, ma prepararvi affinché siate voi non solo a chiedervi quale sia il senso della vita ma anche riuscire a individuare le risposte adeguate al vostro percorso (…) Vi rispettiamo troppo per sventolarvi verità rivelate". Ma i ragazzi cosa avevano chiesto nella loro lettera? "Dove dovremmo impararlo noi il valore della vita? Chi ce lo dovrebbe comunicare? Certo in primis la scuola e la famiglia… Occorre ripartire dall’educazione… Noi abbiamo bisogno che qualcuno ci aiuti a trovare il senso del vivere e del morire, qualcuno che non censuri la nostra domanda di felicità e verità. Noi riteniamo che la scuola possa costituire uno spazio adatto per questa ricerca e che liberamente uno possa verificare tutta la positività e il bene che la realtà ci promette. Dentro le cose che studiamo, dentro il tempo scolastico, dentro il rapporto con i professori". Alla luce di questi passi citati mi sembra che, forse, i professori hanno travisato la domanda dei ragazzi. Nella lettera i giovani non hanno parlato né chiaramente, né in modo allusivo di Verità Rivelate, non mi sembra - dal tono della lettera - che cerchino riposte preconfezionate, tutt’altro. Quello che rivendicano - ed è sacrosanto - è di essere accompagnati e aiutati a divenire uomini e donne adulti, chiedono ai loro insegnanti di aiutarli, attraverso lo studio di Dante, Seneca, Euripide, Socrate, Platone, Kant…, innanzitutto ad impostare la domanda sul senso della vita, domanda che non appartiene solo ed esclusivamente alle "religioni rivelate", ma all’uomo di ogni tempo, di ogni classe sociale, di ogni fede e cultura, e quindi anche a loro. Chiedono - e mi sembra lecito - di poter azzardare riposte e di poterle confrontare e verificare in quello "spazio", la scuola, che i professori di tutti i tempi amano definire una "palestra di vita". Se non è compito della scuola insegnare che la vita ha un valore, se non è innanzitutto scopo degli studi - soprattutto degli studi umanistici - suscitare il desiderio di porre interrogativi sul senso della vita, della morte e spingere a correre l’avventura di cercare risposte a queste domande, far nascere la voglia di "sognare" un mondo diverso, una famiglia diversa, una città diversa… ma allora la scuola che ci sta a fare? Mi ha ferito e deluso leggere questa lettera, anche perché alcuni dei professori che l’hanno firmata sono stati miei insegnanti, proprio allo "Spedalieri" ed è anche attraverso loro che è maturato in me la vocazione all’insegnamento. I miei ricordi più belli degli anni del liceo sono quelli legati alle discussioni in classe proprio sul senso della vita, dibattiti suscitati in classe dalla lettura di Manzoni, Leopardi, di Platone, delle tragedie greche e arricchiti da risposte diverse a domande comuni a tutti: ognuno proponeva il proprio punto di vista, anche legato ad una verità rivelata, ma mai, nessun professore ci ha azzittiti, o ha detto: "a scuola non si danno risposte alle vostre domande". L’atteggiamento era un altro, duplice se vogliamo: da una parte i professori - anche quelli che hanno firmato - ascoltavano, dall’altro ciò che pretendevano da noi erano argomentazioni valide alle tesi che proponevamo. E il confronto non era solo tra noi ragazzi era anche con gli insegnati che in classe portavano tutta la loro carica di umanità. Capisco che una lettera come quella dei ragazzi dello "Spedalieri" metta in crisi gli insegnanti, perché spinge ad una verifica dei propri comportamenti, dei propri atteggiamenti, ma - mi dispiace - non giustifica una presa di posizione come questa: c’è quasi risentimento nelle loro parole perché i ragazzi hanno pubblicato sul giornale le loro opinioni. Credo sia degno di nota il fatto che i ragazzi non hanno iniziato il loro scritto con le parole "Cari professori" perché non si riferivano solo ed esclusivamente ai loro professori, ma al mondo degli adulti più vicino a loro: la famiglia e la scuola. È triste constatare che con questa lettera gli adulti hanno forse un po’"banalizzato" una lecita richiesta dei ragazzi. Forse è proprio vero: il primo grande problema dei giovani siamo noi adulti.

GABRIELA LAMENDOLA

(da www.lasicilia.it)

 

«La lavagna vuota, le attese degli studenti, e il compito degli insegnanti»

All’università il mio insegnante di lingua francese non smetteva mai di ripetere: "Ricordatevi di tradurre dal francese all’italiano e dall’italiano all’italiano". Frase sibillina? Tutt’altro. Anche chi è abituato a leggere esclusivamente "SuperGossip6000" sa perfettamente che esistono diversi tipi di linguaggio, l’italiano che si parla a casa o con gli amici, l’italiano che si usa fra colleghi, col dirigente, quello da usare quando si interviene in un dibattito culturale. Esiste, esiste ed è inutile nascondersi con la testa sotto la sabbia come gli struzzi, un italiano "dei giovani". Fenomeno atipico? Assolutamente (scusate il modo di dire, è attualissimo...) Basta leggere un romanzo scritto nell’800, o guardare un film degli anni ’30 o rivedere un reportage girato negli anni ’70 che ci si accorge immediatamente che i "giovani" hanno sempre adoperato un linguaggio verbale e gestuale di rottura con le generazioni che li hanno preceduti. E ci mancherebbe... Se così’ non fosse ci esprimeremmo ancora con i suoni gutturali dei nostri progenitori delle caverne o a definire il medico di base cerusico. Il punto concreto su cui dibattere è un altro. I "giovani", tranne qualche fortunato che ha alle spalle una famiglia che gli fornisce i vari stimoli culturali e sociali di cui ha bisogno, hanno come punto di riferimento la scuola. Dovrebbero. Se così non è, la colpa è loro? Da piccola la maestra mi diceva che gli studenti sono come una lavagna vuota su cui scrivere le varie nozioni. Quando un insegnante, anche di un istituto superiore, scopre delle zone vuote su questa lavagna, deve rimboccarsi le maniche e scriverci qualcosa. Se invece si scandalizza di quei vuoti senza fare null’altro che lamentarsi dell’ignoranza del suo alunno, secondo me, ha soltanto violato i suoi doveri formativi. Vi racconto un episodio tristissimo accaduto quando frequentavo il primo liceo. Ora di Matematica, l’insegnante spiega e infine domanda se avessimo capito, facce sbigottite, secchione compreso, ops, scusate, volevo dire che anche il più studioso aveva delle perplessità. Un mio compagno alza la mano timidamente e chiede delucidazioni, viene invitato alla lavagna per eseguire personalmente i passaggi poco chiari. A poco a poco, sotto i nostri occhi increduli, la richiesta di spiegazioni si è trasformata in una feroce interrogazione, dalla quale il mio compagno, un ragazzetto mite e che aveva la sfortuna (scolastica) di provenire da una famiglia di operai, è uscito a pezzi. La lezione l’abbiamo capita immediatamente: negli anni a venire, con certi insegnanti nessuno di noi si è più sognato di alzare la mano per chiedere lumi. Meditate gente, meditate.

ELISABETTA FRAZZETTO

(da www.lasicilia.it)

 

«Scuola, guerra totale»

Che la scuola possa essere la cassa di risonanza della società, dei suoi disagi e delle sue fragilità, è cosa assai risaputa, come è noto che i giovani si sentano sempre più distanti dal pianeta scuola per i diversi orizzonti culturali e per i contenuti delle discipline che diventano sempre più démodé, rispetto alla realtà degli sms, dell’internet dove la cultura può essere scelta e cercata comodamente da casa. E’ vero però che il compito della scuola non deve limitarsi ad informare ma a formare eticamente e ideologicamente il giovane cittadino di domani e questo certo non può farlo internet. E con questa problematica discriminante gli operatori della scuola vivono quotidianamente, spinti dalla profonda convinzione, acquisita in anni di studio, sacrifici e preparazione, che questo lavoro abbia come obiettivo la iniziazione e la formazione del piccolo cittadino e non il suo indottrinamento. Ma quello che ritengo più grave è che a creare la disarmonia nel mondo della scuola non sia questo ovvio scollamento generazionale, ma la mancanza di un atteggiamento rispettoso tra le componenti dell’ambito scolastico: dirigenti verso i professori, genitori verso dirigenti e professori, cioè una guerra tra adulti. Dirigenti presi dalla nefasta concezione della scuola come azienda e degli alunni come clienti utenti, la cui affluenza decreta il successo della stessa, additano i docenti come responsabili dell’"insuccesso" della loro azienda quando alunni-clienti, giudicati nelle valutazioni come insufficienti, chiedono i nulla osta per andare in scuole diplomifici con un conseguente calo di iscritti. L’altra componente sono dunque le famiglie che colmando di doni e di facili consumi i propri rampolli, riparando così alle loro difficoltà di educatori, reputano una punizione immeritata e iniqua la valutazione severa o l’imposizione di doveri ai loro "piccoli principi", così li difendono e li proteggono prelevandoli anticipatamente dalle classi per evitare loro le interrogazioni o li fanno trasferire altrove... I giovani rampolli dunque, intorno ai quali si combattono guerre corpo a corpo (come quella del preside picchiato a Bari) o dispute fatte con carte bollate e ricorsi al Tar, sapendo che i voti bassi sono una ingiustizia, sapendo che i genitori li sposteranno nei diplomifici, non trovano altro passatempo che praticare il bullismo, unico mezzo per affermare la loro bellezza o superiorità fisica all’interno delle aule. E intanto i governanti pensano a tagliare le cattedre, a dimensionare le classi e le scuole, con la sola logica del risparmio sulla spesa pubblica, mentre servirebbe una forte opera di rivalutazione dei principi su cui si fonda la scuola, per una vera e propria "campagna" di informazione dei successi che pure esistono nella scuola, e di difesa e di incremento della dignità del professore, per restituirgli quella serenità indispensabile per operare. Credo infatti che sia fortemente necessario che nella scuola si accresca la credibilità da parte dei giovani e la fiducia da parte degli adulti verso le competenze che ciascun operatore ha acquisito con l’amore e la passione che lo hanno portato a scegliere un lavoro ahimè gravoso ma dal quale poi non riesce ad andare via tanto facilmente!

COSTANZA DAMANTI (un’insegnante indignata)

(da www.lasicilia.it)

 

«L’educazione alla verità e la relazione educativa»

Da operatore scolastico, anche se nel primo settore della formazione sento il dovere di intervenire nel dibattito che si è instaurato tra i ragazzi del Liceo “Spedalieri”, (alcuni dei quali sono nostri ex alunni), i docenti ed il prof. Pietro Barcellona. Sia nella lettera- manifesto dei ragazzi, sia nella risposta dei docenti c’è tanta ansia di colmare il vuoto educativo. Nell’azione educativa non si può essere “neutrali” e la proclamata “laicità” non diventa segno di coerenza e di fedeltà agli impegni professionali. E’ infatti professore, professionista, colui che crede alle cose che fa e, quindi, se ci crede, ha il dovere di agire, testimoniare e insegnare in maniera coerente. In una frase-messaggio di 17 anni fa, (ancora oggi attuale) abbiamo scritto come sintesi del progetto educativo di una scuola media “statale” : “L’alunno cresce nella comunità, diventa uomo, apre i suoi occhi al vero, scopre la dimensione dell’Assoluto”. La scuola, infatti non può insegnare cose false, ecco perché ha ben detto il prof. Barcellona quando evidenza il dovere di esplicitare i valori , spiegando i percorsi attraverso i quali si è pervenuti alla loro conquista e spiegando che la verità non è oggetto della signoria di nessuno. La scuola, a cominciare dalla primaria aiuta e guida il bambino ad “aprire i suoi occhi al vero” ad apprendere cose nuove, ma utili e giuste, a conoscere fatti e personaggi che hanno trasmesso e testimoniato i valori della convivenza civile, divenendo così uomo e cittadino. Compito della scuola non è quello di trasmettere “il già pensato” da altri, ma di “insegnare a pensare” in maniera critica, responsabile e coerente. Gli apprendimenti, infatti, diventano tali quando producono delle modificazioni, relativamente stabili, nel modo di pensare, di sentire e di agire. Se tutto ciò non avviene non c’è vero apprendimento e quindi l’insegnamento non è stato efficace. L’appello dei ragazzi è forte e chiaro e sollecita un nuovo stile pedagogico, una reale presenza del docente educatore, che si prende cura di tutti e cerca di non perderne nessuno nel percorso, che guida, consiglia, richiama e rimprovera, che accompagna il processo di formazione di tutti e di ciascuno, che trova nuove forme di dialogo educativo e che costantemente sollecita una sempre insistente collaborazione tra la scuola e la famiglia (spesso assente o inesistente). La scuola catanese è ricca di tante professionalità e, lavorando insieme, si potranno dare sagge riposte di senso ai tanti problemi dei ragazzi.

GIUSEPPE ADERNÒ preside Istituto scolastico "G. Parini" Catania

(da www.lasicilia.it)

 

«Per combattere il bullismo, definiamo meglio il fenomeno e definiamo le responsabilità, anche istituzionali»

Da qualche tempo la nostra cronaca è funestata dal continuo ripetersi di azioni violente ed aggressive operate da giovani (spesso minorenni) contro altri coetanei . Tali azioni vengono usualmente ed impropriamente codificate col termine tecnico di "bullismo". In realtà la definizione che dà Olweus (a tutt’oggi il ricercatore più autorevole sull’argomento) recita che :"Uno studente è oggetto di azioni di bullismo, ovvero è prevaricato o vittimizzato, quando viene esposto, ripetutamente nel corso del tempo, alle azioni offensive messe in atto da parte di uno o di più compagni". Questo a nostro parere è un punto fondamentale che non può essere disatteso. Bisogna distinguere fra gli atti violenti, ripetuti, persecutori intrascolastici che vedono come vittima uno studente "capro espiatorio" delle viltà morali e della pochezza degli aggressori e le azioni violente messe in atto da bande composte da criminali, contro cui l’uso del termine "bullismo" è improprio tecnicamente e soprattutto tende, semanticamente, a depotenziarne il peso e gli effetti trasformando eventi di pieno interesse penale quasi in "monellerie" di ragazzi un poco turbolenti. Riteniamo necessario porre tale distinzione perché farlo ci indirizza sui percorsi di intervento, contestualizzando gli eventi e individuando gli interlocutori, che non possono essere aspecifici (la società, la scuola..) ma che sono persone ben precise con ruoli e responsabilità istituzionali ben caratterizzati. E, infatti, il vero problema resta il concetto di responsabilità ed il modo con cui esso viene declinato. Riportiamo due episodi di cui siamo venuti a conoscenza, per meglio chiarire il nostro pensiero. Domenica sera scorsa alcuni ragazzi ,vengono puntati da una banda di giovani criminali che cominciano a seguirli e che, infine, li aggrediscono colpendoli con vari ceffoni: i ragazzi chiamano le forze dell’ordine che li conducono presso di sé ma che non accettano la denuncia adducendo che "prima i ragazzi dovevano passare dall’ospedale a farsi refertare e poi tornare per stendere la denuncia". Ovviamente i ragazzi, stanchi (erano le tre del mattino) ed impauriti hanno "mollato" e a nulla sono valse le loro argomentazioni di voler comunque denunciare l’aggressione (che li aveva molto spaventati, determinando un danno sul piano psichico) sorvolando sugli schiaffi che , fortunatamente ,avevano prodotto pochi danni sul piano fisico. Ci chiediamo, e chiediamo, quale è stato il senso di responsabilità in questa occasione? Ancora: in una scuola superiore, alcuni alunni vessano costantemente alcuni compagni, ma sono cauti, esplicano le loro azioni nei momenti in cui sono presenti, come insegnanti, quelli meno autorevoli che, nonostante gli inviti dei colleghi a denunciare i fatti, si rifiutano adducendo varie motivazioni. Ci chiediamo, e chiediamo, quale messaggio educativo viene dato alle vittime, in primo luogo, ed ai persecutori? Come dicevamo prima, allora, il problema è il "far finta di niente" individuale ed in qualche misura istituzionale, questo "girar lo sguardo" che ha permesso il lento ed inarrestabile ingigantirsi del fenomeno con tutte le sue sfaccettature, scolastiche ed extrascolastiche ed in questo anche alcune scelte di titoli dei quotidiani ("Picchiato da bulli del Cibali", per esempio), tendono a ridurre la portata e la gravità dei fatti che sono a tutti gli effetti violenza e criminalità, più o meno organizzata. Vi è inoltre la tendenza a pensare che gli avvenimenti che ci stanno interessando siano "nuovi", quando invece sono stati finora ignorati in larga parte, e che siamo " i primi " ad avere tali problemi trascurando le importanti esperienze italiane ed internazionali al riguardo. Infine, andrebbe visto lo stretto legame fra questi episodi ed il vertiginoso e preoccupante aumento dei fenomeni di violenza contro le donne, causa di tassi di mortalità e di invalidità elevatissimi in tutto il mondo; contro tali fenomeni esistono, anche da noi, esperienze egregie ed avanzate come la Rete antiviolenza sostenuta dalla Provincia (grazie alla tenace caparbietà dell’assessore Ferro) cui hanno collaborato e collaborano enti del Terzo settore, la Asl 3, diversi Comuni. Forse, se vogliamo veramente combattere i fenomeni descritti, noi adulti (come singoli e come istituzioni) dovremmo prima e velocemente trovare un linguaggio comune che ci faccia agire come "genitori sociali" coerenti ed adeguati, rifuggendo da tendenze parolaie e collegando le vere operatività altrimenti vincono le spinte criminali, impulsive e destabilizzanti a livello individuale e sociale.

DR. GIANCARLO COSTANZA neuropsichiatria infantile, psicoterapeuta

DR.SSA GIUSI ORTOLEVA psicologa, psicoterapeuta

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