Introduzione di sistemi di verifica biometrica dell'identità e di video sorveglianzaper i dirigenti pubblici e per il personale pubblico. Richiesta di abrogazione
Data: Domenica, 12 maggio 2019 ore 09:00:00 CEST
Argomento: Comunicati


Al Presidente del Senato della Repubblica On. le Maria Elisabetta Alberti Casellati

Onorevole Presidente,
Ci rivolgiamo a Lei convinti che sia necessario non tralasciare alcuna occasione per motivare adeguatamente la nostra convinzione secondo la quale il Parlamento italiano compirebbe un gravissimo errore - sia sul piano strettamente giuridico, sia sotto l'aspetto dell'apprezzamento di tutto l'impiego pubblico in generale e in particolare della funzione dei dirigenti - se pervenisse alla definitiva approvazione delle disposizioni inerenti alla rilevazione biometrica delle presenze degli impiegati pubblici previste dall'articolo 2 del disegno di legge governativo A. Senato n. 920 -B, ora interza lettura al Senato della Repubblica. Come a Lei noto, tale articolo dispone l'introduzione nella generalità delle pubbliche amministrazioni (con l'eccezione dei dipendenti di cui all'articolo 3 del d.lgs n. 165/2001) di "sistemi di verifica biometrica dell'identità e di videosorveglianza degli accessi, in sostituzione dei diversi sistemi di rilevazione automatica".

Ci consenta, onorevole Presidente, di esporre con l'articolazione che meritano i motivi che rendono a nostro giudizio la disposizione in questione gravemente inopportuna, nonché perniciosa per la pubblica amministrazione nel suo complesso. Innanzitutto esponiamo per punti le questioni di rilevanza giuridica che da sole consiglierebbero l'espunzione della norma nella sua interezza:

1. la disposizione, nella sua nuda essenzialità, delinea una forma di controllo basata su un doppio ordine di strumenti: la verifica biometrica e la videosorveglianza degli accessi. C'è solo un altro luogo nel quale sono in funzione tali modalità di verifica personale: gli accessi aeroportuali, in virtù di chiare e necessitate esigenze di salvaguardia da azioni di terrorismo. L'introduzione di tali misure per il controllo del reato di falsa attestazione della presenza si evidenzia nella sua esagerata ed inutile sproporzione con il comportamento, pure odioso, già perseguito con altri mezzi dalla legge penale.

Non siamo soli ad affermare che l'articolo in esame violi il principio della "proporzionalità" previsto dall'articolo 52 del "trattato di Nizza", ma lo fa in primo luogo lo stesso Presidente dell'Autorità Garante per la protezione dei dati personali.
Nonostante l'apodittica "enunciazione di conformità" al principio della proporzionalità presente nell'articolo 2 del ddl in questione, meriterebbero la sua attenzione le affermazioni contenute nell'audizione della stessa Autorità alla Camera dei deputati, che non possiamo che sottoscrivere: "Nonostante l'inciso inerente il rispetto dei principi di proporzionalità, non eccedenza e gradualità, la norma deve ritenersi incompatibile con tali principi, laddove intenda - come parrebbe dato il tenore letterale - continuare a configurare la rilevazione biometrica - unitamente peraltro alle videoriprese - quale obbligatoria in ogni pubblica amministrazione. Infatti, non può ritenersi in alcun modo conforme al canone di proporzionalità l'ipotizzata introduzione sistematica, generalizzata e indifferenziata per tutte le pubbliche amministrazioni, di sistemi di rilevazione biometrica delle presenze, in ragione dei vincoli posti dall'ordinamento europeo per l'invasività di tali forme di verifica".
Ma vi è di più: come ricordato dal Garante, la Corte di Giustizia Europea si è già pronunciata sul merito di questa questione con una sentenza del 2014 nei confronti della cosiddetta "direttiva Frattini" dell'anno 2004. Tale sentenza contiene le seguenti stringenti argomentazioni, valide parimenti per l'articolo del disegno di legge in esame che riteniamo giusto riprodurre nella loro integralità: "La violazione del principio di proporzionalità deriva dall'avere la direttiva: 1) previsto le misure di conservazione dei dati come applicabili in via indifferenziata e generalizzata"all'insieme degli individui, dei mezzi di comunicazione elettronica e dei dati relativi al traffico, senza che venga operata alcuna differenziazione, limitazione o eccezione in ragione dell'obiettivo della lotta contro i reati gravi"; 2) omesso di prevedere alcun criterio oggettivo che limiti l ?accesso a tali dati per sole esigenze di accertamento di reati "sufficientemente gravi da giustificare una simile ingerenza". Sono queste argomentazioni stringenti, applicabili integralmente ai previsti sistemi di verifica biometrica e di sorveglianza degli accessi. Pertanto, la norma così congegnata è passibile di ricorso alla Corte di Giustizia europea con sicuro esito favorevole.

2. La disposizione in discussione si manifesta in palese contrasto con un principio generale sancito dallo Statuto dei Lavoratori: l'articolo 4 della legge n. 300/1970, infatti, limita l'impiego degli "impianti audiovisivi e di altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori" e testualmente recita che tale modalità "non si applica ........ agli strumenti di registrazione degli accessi e delle presenze". La legislazione nazionale si è incamminata da circa 25anni - pur in un percorso contrassegnato da ambiguità e contraddizioni - verso l'obiettivo dell'omologazione dello status lavorativo dei lavoratori pubblici e di quelli privati (sancito, come noto, dai principi generali presenti all'articolo 2 del decreto legislativo n. 165/2001): ebbene, la videosorveglianza degli accessi dei dipendenti pubblici è in stridente contrasto con tali principi di omologazione fra regime del lavoro dei privati e dei pubblici. Si aggiunge che le misure previste dallo Statuto dei Lavoratori furono stabilite per tutelare la dignità dei lavoratori stessi, che - era questa la ratio di quel provvedimento - sarebbe irreparabilmente compromessa da forme di controllo invasivo totalmente sproporzionate rispetto alla necessità di salvaguardare la regolarità degli accessi in servizio.

3. il livello di sproporzione fra comportamenti sanzionabili (indubbiamente odiosi) e previsioni di contrasto del legislatore risulta, infine, evidenziato dal fatto che già oggi la legislazione nazionale prevede forme di sanzione pesantissime per gli impiegati pubblici responsabili di contraffazione dei sistemi di controllo degli accessi: la recente normativa - vedasi il d. lgs. n. 116 dell'anno 2016 che ha introdotto modifiche all'articolo 55-quater del decreto legislativo 165 del 2001 - prevede già oggi la sospensione entro 48 ore e il conseguente licenziamento entro 30 giorni del dipendente responsabile di falsa attestazione della propria presenza e/o colto in flagrante a timbrare un cartellino di altri colleghi. Si tratta - aggiungiamo giustamente - di misure draconiane nei confronti di impiegati infedeli che non meritano alcuna giustificazione; tali misure sono già di per sé idonee a disincentivare fortemente tali comportamenti e ad evitare perniciose "diffusioni" degli stessi, peraltro escluse dalla stessa relazione al disegno di legge in esame che individua in 77 su tre milioni e 200mila impiegati pubblici (0,0024 per cento) i casi di violazione individuati.

4. la disposizione, infine, delinea - nel testo approvato dalla Camera dei deputati ora all'esame del Senato - un'incomprensibile disparità di trattamento fra i lavoratori pubblici, dal momento che sono esclusi i docenti e il personale educativo degli istituti e scuole di ogni ordine e grado(secondo noi correttamente - sia chiaro - e con previsione che dovrebbe essere ESTESA a tutti i dipendenti pubblici) dall'applicazione delle disposizioni contenute. Fatto ancora più incomprensibile è che vengono esclusi anche i dipendenti e dirigenti delle amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 3 del d. lgs. numero 165/2001 (Ministero dell'Interno, Ministero degli esteri, personale penitenziario). Risulta davvero incomprensibile la ratio di tali differenziazioni, che delineano una pubblica amministrazione ordinata a macchia di leopardo, dove viene esplicitamente esclusa una parte consistente del personale pubblico dall'applicazione della norma. Tutto l'articolo 2 del disegno di legge, in conclusione, risulta carente di qualunque idonea motivazione sia delle prescrizioni in esso contenute, che dell'ambito di attuazione nell'universo lavorativo del pubblico impiego e, pertanto, confutabile dal punto di vista della sua costituzionalità.

Ma il motivo che rende inaccettabile il contenuto dell'articolo 2 del più volte citato disegno di legge attiene a valori intrinseci della comunità nazionale italiana, che rischiano di essere cancellati dalla disposizione in questione: i pubblici impiegati vengono individuati in blocco - a dispetto della limitatezza relativa del fenomeno dei "furbetti" - come responsabili del malfunzionamento della pubblica amministrazione e, quindi, del malfunzionamento dell'intero sistema sociale ed economico che alla stessa fa riferimento. Più che un articolo di legge è un vero e proprio atto di accusa. Si giunge ad equiparare - nel significato sostanziale delle misure concrete previste - il trattamento dei dati personali dei pubblici dipendenti a quello dei terroristi dell'ISIS. La conclusione è francamente inaccettabile e, soprattutto, sposta l'attenzione dalle vere cause dell'inefficienza delle pubbliche amministrazioni italiane: iperproduzione legislativa, commistione e cogestione fra politica, sindacato e amministrazione, assenza di strumenti efficaci di vigilanza parlamentare, disordine ed anarchia nella distribuzione delle attribuzioni istituzionali ai vari soggetti pubblici, inefficacia della normativa sulla valutazione delle performance non solo individuali ma delle amministrazioni in quanto tali, precarizzazione dello status della dirigenza con conseguente vulnus al principio dell'imparzialità e dell'esclusivo servizio alla nazione previsto dagli articoli 97 e 98 della Costituzione. Il Governo attuale, invece di porre attenzione su questi nodi irrisolti, preferisce indirizzarla sulle infrazioni - odiose, si ripete - compiute da un'estrema minoranza di dipendenti infedeli.

L'oggettiva "stravaganza" della norma in esame si manifesta anche nel "trattamento" che la stessa opera - oltre che sulla generalità dei dipendenti pubblici - più specificamente nei confronti dei dirigenti, dipendenti pubblici caratterizzati da un rapporto di lavoro affatto diverso dal restante personale: per i dirigenti assurge a valore fondamentale, non tanto e non solo la presenza in servizio, quanto una serie di azioni - dentro e fuori la sede di lavoro - che si concretizzano nel perseguimento degli obiettivi assegnati. Simbolo di tale status particolare è proprio l'orario di lavoro che NON è previsto e regolamentato per i dirigenti pubblici, in virtù del principio secondo il quale il dirigente è sempre e comunque "a disposizione dell'amministrazione" senza limiti di orario e di festività. Si aggiunge, in tal senso, che, a differenza di altri paesi europei, il legislatore nazionale non ha ancora previsto alcun "diritto alla disconnessione". Non si tratta, quindi, di un privilegio dei dirigenti, ma di una dimensione lavorativa in base alla quale il ruolo e l'attività del dirigente, essendo di fatto sempre reperibile anche di notte o nel fine settimana, non è collegato a schemi predefiniti di presenza nella sede di lavoro, pur rimanendo assolutamente indiscusso l'obbligo attuale per il dirigente di assicurare la presenza in servizio in funzione delle "esigenze della struttura cui è preposto ed all'espletamento dell'incarico affidato alla sua responsabilità in relazione agli obiettivi e programmi da realizzare"; e rimane altresì fermo il principio consolidato in sentenze della Corte costituzionale (vedasi fra le altre n. 57 del 1997) che qualifica il "rilevante e gravoso onere aggiuntivo rispetto al restante personale dipendente e non, invece, un arbitrario privilegio, in considerazione dello specifico ruolo di responsabilità che tale posizione riveste nell'economia organizzativa e funzionale dell'amministrazione pubblica". Come autorevolmente affermato dall'ARAN,"spetta al dirigente l'organizzazione complessiva del proprio tempo di lavoro in modo da assicurare il completo soddisfacimento dei compiti affidati e degli obiettivi assegnati; non ha pertanto alcun significato per i dirigenti il riferimento alle 36 ore come orario di lavoro settimanale".

Il sistema invasivo sul controllo delle presenze assume, anche e soprattutto, una posizione di contraddittorietà con la prevalente legislazione esistente. Infatti, in linea con le impressionanti innovazioni tecnologiche in corso, il legislatore ha individuato all'articolo 18 della legge n. 81/2017 (applicabile anche al lavoro pubblico) nel "lavoro agile", detto anche "smart working", la nuova frontiera dei rapporti lavorativi, in cui le performance dei singoli vengono sganciate dal requisito della presenza nella sede di servizio. Citando testualmente tale articolo "Le disposizioni del presente capo, allo scopo di incrementare la competitività e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, promuovono il lavoro agile quale modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell'attività lavorativa. La prestazione lavorativa viene eseguita, in parte all'interno di locali aziendali e in parte all'esterno senza una postazione fissa, entro i soli limiti di durata massima dell'orario di lavoro giornaliero e settimanale, derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva". La direttiva del Ministro della Pubblica amministrazione del 14 giugno 2017 chiarisce anche che "nessuna categoria o tipologia contrattuale può essere esclusa in via preventiva" dall'applicazione dello smart working. Che relazione ci può essere fra la legislazione che tenta di regolare le forme future di organizzazione tecnologica del lavoro con misure che partono dall'assunto della presenza del lavoratore nella sede di servizio? Nessuna, signor Presidente! Ciò vale per la generalità dei lavoratori (pubblici e privati) e a maggior ragione, visto quanto ricordato più sopra, per i dirigenti pubblici. Non tenere conto di questa realtà - socio/economica/culturale prima ancora che legislativa - significa ricacciare l'amministrazione pubblica nel passato, non volerla accompagnare, nei fatti e nelle prescrizioni specifiche, nel difficile itinerario della gestione delle problematiche presenti e future.

Le considerazioni, che abbiamo fin qui sviluppato e che offriamo alla Sua equilibrata e prudente valutazione, ci spingono a pervenire ad una sola possibile conclusione: l'abrogazione della norma in oggetto, in un'ottica NON di difesa di presunti "privilegi corporativi", ma di principi di civiltà giuridica nel rispetto del lavoro di tre milioni ed oltre di dipendenti pubblici.

Nel ringraziarLa per l'attenzione prestata, Le porgiamo i più vivi e sinceri auguri di buon lavoro nello svolgimento della delicatissima responsabilità istituzionale a Lei affidata.

Giorgio Rembado - Presidente ANP





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