Abbattuto il MIUR sul numero chiuso all'Università. Un altro passo verso la riconquista del diritto allo studio
Data: Martedì, 05 settembre 2017 ore 07:30:00 CEST Argomento: Sindacati
Una battaglia etica e
politica, prima ancora che legale, quella contro il numero chiuso per
l'accesso all'università. Una battaglia che da alcuni anni gli studenti
conducono in maniera tenace e determinata, contro quello che
rappresenta, secondo me, uno dei tanti tasselli di involuzione
culturale e civile nel nostro Paese e non solo, che porta a casa una
grande vittoria con una sentenza del Tar contro la chiusura delle
facoltà umanistiche dell'Università Statale di Milano.
Sembrerà strano, a chi sa che mi occupo quasi esclusivamente di scuola
e precariato, l'entusiasmo con cui ho accolto questa notizia,
sicuramente non immediatamente riconducibile alle mie tematiche
abituali. Tuttavia, chi ha seguito Adida fin dai suoi esordi, ritroverà
che proprio nella forte analogia con la battaglia che ormai da sette
anni porto avanti, iniziata quando la riforma Gelmini introdusse un
nuovo sistema di formazione docenti, ormai superato della legge 107,
basato sul numero chiuso.
Non era nuovo, il numero chiuso, ai percorsi abilitanti, ma con quella
riforma si disconosceva per la prima volta il servizio prestato, quale
titolo per avere un riconoscimento professionale e trattava il
precariato storico, non certo autogeneratosi, alla stregua di aspiranti
docenti. Il diritto del lavoro, si scontrava con la normativa per la
formazione dei docenti e, di conseguenza con il successivo
reclutamento, disconoscendo sia il servizio reso alla società e allo
Stato, sia la definizione di una professionalità in base a una
normativa precedente, con un implicito valore retroattivo.
Così è iniziata la battaglia dei precari storici delle graduatorie
d'istituto, interminabile e non conclusa, fatta di continui cambi di
regole che hanno contraddetto tutto ciò che si è sempre fatto, a
partire dal riconoscimento professionale dei docenti precari. La
politica e lo stesso MIUR si rivolgono a noi con i termini
“professori”, “docenti”, anche quando non abilitati, perché questo è il
ruolo che svolgiamo da anni, insegnare nelle scuole statali. Ma il
numero chiuso e la mancanza di una corsia adeguata al riconoscimento
fecero da miccia, per un braccio di ferro tra precariato e governi,
ancora non concluso.
Proprio sul concetto di “numero chiuso”, quindi, mi vorrei soffermare,
per condividere alcune riflessioni che, partendo dalla questione dei
docenti, che conosco meglio, arrivino a quella più peculiare
dell'accesso ai corsi di laurea.
Quando si trattò di contrastare la legge Gelmini, la questione si
fondava sullo sbarramento in entrata a percorsi universitari
abilitanti, tanto per gli aspiranti docenti, quanto per i docenti con
numerosi anni di servizio alle spalle e i loro titoli, a tutti gli
effetti validi all'insegnamento nelle scuole di ogni ordine e grado. Al
di là dell'inadeguatezza di questa misura per i docenti di fatto, che
così si trovavano a retrocedere, la cosa sembrava a noi
comunque assurda, considerando che si trattava di chiudere
l'accesso alla formazione verso una professione da poter esercitare
ovunque, in Italia, come in Europa e nel pubblico come nel privato.
In un'epoca in cui si parla di libera circolazione, di formazione lungo
tutto l'arco della vita, di flessibilità, nulla è più rigido e blindato
come la formazione e l'accesso allo studio, negando e minando, nelle
sue fondamenta, il principio costituzionale della libertà,
dell'autodeterminazione, della possibilità di accedere ad una
determinata area di interesse non solo in gioventù ma durante tutto
l'arco della vita. Il principio del numero chiuso è questo, tradotto
nella società civile, la negazione di un diritto costituzionale e umano.
Ai paladini del numero chiuso, che in questi giorni si stanno
scatenando in sua difesa, quindi, propongo una riflessione, che
difficilmente accoglieranno, ma vale la pena di porgerla a chi,
accecato dei media, potrebbe cadere nella crociata ideologica contro i
provvedimenti della magistratura, in assenza di voci che, da più
angolazioni, ne sostengono invece l'inadeguatezza se non la brutalità.
Primo di tutti è dato oggettivo che la classe dirigente che ha
istituito il numero chiuso e che oggi lo conserva è figlia del libero
accesso allo studio: i “padri”, quindi, che impediscono ai propri figli
di scegliere liberamente, di cambiare se vogliono, di sognare e
aspirare ad una professione seguendo le proprie inclinazioni, i
propri obiettivi. Trincerati dietro ad una falsa volontà di
regolamentare l'accesso alle carriere, per non creare false
aspettative, coloro i quali hanno ideato questa misura hanno fallito in
due cose: non aver dato risposte in termini occupazionali ai propri
“figli”, aver creato delle diseguaglianze sociali talmente marcate e
nette da indurre a scegliere, nell'illusione di una scalata sociale,
alcune facoltà piuttosto che altre, vista l'inadeguatezza retributiva
di alcune professioni rispetto ad altre.
Invece di lavorare su un progetto sociale equo ed equilibrato, allora,
si sono concentrati su quei tasselli più facili da controllare,
gli accessi allo studio, colpendo i giovani nei loro slanci vitali.
Generazioni annichilite, quelle attuali, figlie di generazioni vissute
nella libertà di scelta che oggi negano a chi dovrebbe succedere loro.
Dietro a questo sistema, quello del numero chiuso, inoltre, i “padri”
hanno creato un mostruoso indotto, fatto di corsi, di tasse d'esame, di
libri e volumi divorati per superare meccanicamente test che a nulla
servono, se non a vendere preventivamente qualcosa, visto che si accede
ad un corso di laurea per imparare, a volte tutto da capo.
Chi può accedere a questi strumenti preparatori avrà più chances, chi
non potrà sarà la manovalanza a basso costo, in un Paese ultimo per
laureati. Se si consegue un titolo di studio alto, infatti, si
pretenderà una retribuzione elevata, senza qualifiche o istruzione,
invece, si è più ricattabili e meno valorizzati, dimenticando che ogni
anello del complesso sistema sociale regge l'intera struttura.
All'interno delle università, poi, il motivo degli accessi limitati è
sostenuto dalla promessa di una migliore gestione del servizio, minore
carico di lavoro, migliore qualità dei corsi... bufale! Dietro ci sono
tagli indiscriminati anche a danno delle università pubbliche, un
taglio di cattedre e insegnamenti o, quando sono stati mantenuti sulla
carta, questi ultimi affidati a docenti a contratto, pagati
miseramente. Chi detiene il potere all'interno delle università cerca
di mantenerlo, piegandosi a logiche politiche che mortificano le
università stesse, il loro valore culturale e sociale, oltre che
istituzionale.
Quindi, numero chiuso ovunque, dove la legge nazionale lo prevede e
dove no, per gli studenti, per i professionisti, per tutti,
ostinatamente e in modo pervicace! La logica non conta, non importa se
si tarpano le ali a generazioni o se si calpestano i diritti di
qualcuno, magari colleghi di altri ordini di istruzione, come i docenti
di scuola.
Ritornando al tema a me congeniale, infatti, non posso astenermi dal
segnalare il contrasto dei Rettori verso l'istituzione dei percorsi
abilitanti speciali (PAS), riservati a docenti con anni di servizio,
che mettevano in discussione il contingente dei potenziali accessi ai
percorsi ordinari, sventolando il concetto di merito. Chiedevamo di
accedere a corsi di formazione, non alla professione, professione che
esercitavamo da anni alle dipendenze dello Stato.
Nessuno che si accorgesse dell'assurdità delle argomentazioni a
sostegno della chiusura all'istituzione del PAS, nonostante l'evidente
assurdità di pretendere di “selezionare” docenti in servizio a pieno
titolo da anni.
La nostra vicenda, quindi, mise in luce l'inadeguatezza del numero
chiuso, sebbene spudoratamente e ostinatamente difeso.
Ciò che ha costituito per l'opinione pubblica, piegata da utente a
questa logica, è stata la cosiddetta “meritocrazia”.
Ma quale merito deve essere dimostrato per accedere ad un corso di
studi, se non quello stesso di voler studiare? Quale merito, inoltre,
da parte di docenti già in servizio alle dipendenze dello Stato. La
vicenda degli studenti e quella dei docenti precari italiani si sono
straordinariamente intrecciate dimostrando l'illogicità di misure di
controllo degli accessi alle università che, come per tutti i cicli di
istruzione, preferiscono contingentare gli accessi piuttosto che
investire nel sapere, nella cultura, nella diffusione dell'istruzione,
nel futuro stesso del Paese.
Credo che quelle di Milano siano tappe fondamentali per riequilibrare
un sistema che sta implodendo, caratterizzato da abbandono scolastico e
universitario e da ogni tentativo di difendere la logica del numero
chiuso da parte del mondo accademico, politico e amministrativo un
attacco alla libertà e ai diritti costituzionali. Troppe volte,
inoltre, la politica e l’esecutivo hanno messo in discussione il potere
giudiziario, soprattutto in ambito scolastico, non eseguendo le
Ordinanze dei tribunali e costringendo gli insegnanti a numerose altri
ricorsi per vedere eseguire i loro provvedimenti.
Non saranno certo le dichiarazioni mediatiche e gli appelli del MIUR ai
provvedimenti della magistratura a frenare la resistenza contro le
limitazioni. Il desiderio di affermazione personale e di
autoderminazione, nel caso degli studenti, la richiesta di
riconoscimento professionale, nel caso dei docenti, sono troppo più
forti di ogni cieca e ottusa politica!
Valeria Bruccola, Coordinatrice
Nazionale Adida
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