Saper scrivere è così importante?
Data: Mercoledì, 15 febbraio 2017 ore 09:00:00 CET Argomento: Rassegna stampa
Tra i colpevoli
della notevole inabilità alla scrittura di buona parte degli studenti
italiani ci sono anch’io.
Ho appena messo 18 al compito scritto di uno studente della laurea
magistrale in Lettere (quinto anno di università) che meritava invece
di essere bocciato perché, a parte conoscere maluccio il programma, ha
grosse difficoltà nello scrivere: mette male la punteggiatura, usa i
verbi sbagliati, confonde le preposizioni (scrive per esempio che «la
squadra ha l’intenzione a partecipare», anziché “di partecipare”) non
sa fare un riassunto, nel senso che invece di riassumere l’intero brano
assegnato sintetizzandone il contenuto lo riassume frase per frase:
«L’autore di questo brano dice che… Poi dice che… Poi dice che…», e
così via. Lo studente che io adesso promuovo potrebbe prima o poi
diventare un insegnante, e con un insegnante simile i suoi futuri
studenti certamente non impareranno a scrivere (ci si potrebbe
domandare: può questo aspirante insegnante imparare a scrivere nei
prossimi anni, tra il suo quinto anno di università e la sua eventuale,
speriamo scongiurabile, entrata in servizio? No, non può, non s’impara
a scrivere a ventitré anni). E allora perché l’ho promosso? Dato che si
discute, in questi giorni, della cattiva scrittura degli studenti, mi
pare che la risposta a questa domanda possa interessare tutti. Ma non
c’è una sola risposta, ce ne sono molte, o meglio c’è una risposta che
si complica, si sfrangia in tante risposte più piccole, una causa che
si può scomporre in concause.
Diciamo intanto che lo studente a cui ho dato 18 ha ripetuto l’esame
quattro volte. La quarta è andata meglio delle tre precedenti, nel
senso che lo studente non ha smesso di impegnarsi: ha letto, ha
studiato. Ma, quanto alla scrittura, non può fare più di così: avrebbe
dovuto imparare a scrivere decentemente molti anni fa, ma non ha
imparato, e adesso è tardi. Alla quarta volta l’ho promosso perché,
come mi ha ripetuto fino alla nausea, il mio è «il suo ultimo esame»,
la tesi è già pronta da tempo, ed è una tesi che non riguarda la mia
materia: lo studente si laureerà in storia contemporanea. Bocciarlo
ancora (e poi ancora, e ancora) avrebbe voluto dire impedirgli di
laurearsi, fargli buttare via gli studi di cinque anni, rovinargli
l’esistenza. Tra l’altro, lo studente non è affatto sciocco, e ha un
libretto più che dignitoso. Non sa scrivere in un italiano decente, ma
ha una media del 27-28, alcuni 30. Esami orali, voti in parte anche
meritati. Di fatto, il mio è uno dei non molti esami scritti che ci
siano a Lettere; i pochi altri sono test a crocette, o sono esami
scritti in cui il docente (legittimamente?) bada più al contenuto che
alla forma. Ma insomma, alla quarta volta – lo studente è civile, è
anche, ripeto, intelligente – non me la sono sentita di bocciarlo
ancora, e gli ho regalato un voto.
Quattro volte? Sì, perché l’università italiana è quel luogo felice in
cui gli studenti possono ripetere lo stesso esame virtualmente
all’infinito. Tre sessioni l’anno, uno o due appelli a sessione, più
eventuali sessioni straordinarie: i miei studenti possono, come si
dice, “tentare” il mio esame cinque o sei volte l’anno, finché non lo
passano (e infatti quattro non è il record: ci sono studenti che lo
hanno ripetuto sei, sette volte). In altre nazioni, chi viene bocciato
all’esame per due volte deve ripetere l’intero anno; in alcune, una
pluri-bocciatura comporta l’espulsione dall’università. Non in Italia.
In Italia, una volta entrati, si ha il diritto di ripetere gli esami
quante volte si vuole, così come si ha il diritto di non frequentare le
lezioni. È la libertà.
Una volta entrati, ho detto, e qui sta l’altro problema, perché la
porta dei dipartimenti di Lettere, a differenza di quella – poniamo –
delle facoltà di Medicina, è sempre aperta. Ci sono in alcuni atenei,
come mini-deterrenti, dei test d’ingresso, ma sono test che hanno
l’obiettivo di permettere allo studente di autovalutarsi, di capire se
quella è davvero la sua strada, più che di stabilire chi può o non può
frequentare i corsi. Di fatto, è normale leggere, nei bandi, che
«l’esito del test non preclude la successiva immatricolazione al Corso
di Laurea» (cito dal sito dell’Università di Bologna); e di fatto
accade spesso che a Lettere finiscano per iscriversi ragazzi e ragazze
che non hanno passato l’esame d’ammissione a corsi universitari o
para-universitari più selettivi ma di tutt’altra indole, come
Fisioterapia. Lettere è un ripiego, magari momentaneo, in attesa di
riprovare il test di Fisioterapia.
Perché questa generosità, questa politica di accoglienza erga omnes?
Per varie ragioni. La prima è che non si può mettere il numero chiuso a
tutti gli indirizzi di studio, altrimenti molti studenti non saprebbero
che fare, dopo le superiori. A differenza dei corsi di medicina o di
fisioterapia, i corsi di Lettere e Filosofia non hanno bisogno di
laboratori, perciò non esistono ragioni oggettive che impongano un
filtro agli iscritti: dove si formano venti latinisti – questa la ratio
(non molto razionale, in verità) – se ne possono formare quaranta. La
seconda è che gli studi umanistici sono spesso intesi come una sorta di
viatico all’emancipazione personale, non solo cioè un percorso
professionalizzante ma l’occasione per una crescita culturale, per
migliorare se stessi: negare questa chance a studenti magari non
manifestamente vocati alla carriera di intellettuali ma volenterosi,
zelanti, davvero capaci di trarre profitto da lezioni su Aristotele,
Shakespeare, Michelangelo, può apparire ingiusto, anche odioso. La
terza, la più importante, è che qualsiasi università ha tutto
l’interesse ad avere – nei limiti (assai elastici) imposti dalle sue
strutture, e dall’ampiezza del suo corpo docente – il maggior numero
possibile di studenti, un po’ perché gli studenti pagano le tasse e un
po’ (soprattutto) perché il ministero dell’Istruzione finanzia le
università in proporzione al numero dei loro iscritti. Pochi studenti
vogliono dire pochi soldi per aprire corsi di studio, assumere docenti,
reclutare giovani ricercatori, organizzare congressi eccetera.
Questa spiegabile politica delle “porte aperte” ha il suo prezzo: a
Lettere s’iscrivono molti studenti che non avrebbero bisogno di fare
l’università ma di fare o rifare un buon liceo, e che – tra le altre
cose – non sanno scrivere in italiano perché nessuno glielo ha mai
insegnato. Lo studente a cui ho dato 18 è uno dei tanti: nelle sue
condizioni, o peggio, si trova la maggior parte degli studenti che
s’iscrivono a Lettere. Bocciarli tutti? È quasi impossibile. (1) Perché
bocciare a ripetizione la metà o più dei candidati all’esame di
Letteratura italiana vorrebbe dire in pratica bloccare le carriere di
decine e decine di studenti, con ovvie ripercussioni sulla vita
dell’intero dipartimento. (2) Perché le università vengono premiate dal
Ministero anche in ragione della rapidità con cui gli studenti
concludono i loro studi, cioè arrivano alla tesi: vale a dire che le
università sono fortemente motivate a licenziare in fretta i loro
studenti, a non avere fuori-corso; e i docenti sono tacitamente
invitati ad aderire a questa policy, nel loro stesso interesse. (3)
Perché bocciare qualcuno perché non sa scrivere non è così facile.
Abituati a “badare al contenuto e non alla forma”, molti studenti non
riescono a capire perché io dia tanta importanza ai loro errori o alla
loro sciatteria nello scrivere. Se anche lo capiscono, se arrivano ad
ammettere che la forma è importante, possono non capire perché ciò che
scrivono non va bene, o possono obiettare che si tratta di errori
veniali, di pura distrazione, che non giustificano la bocciatura.
Offesi da questa ingiusta persecuzione, possono, a norma di
regolamento, rivolgersi al rettore o al direttore di dipartimento per
chiedere di fare l’esame (oralmente) con un altro docente della stessa
materia. Supereranno l’esame, si laureeranno; e alcuni andranno a
insegnare.
Tutta questa spiegazione per dire che una delle ragioni per cui gli
studenti non sanno scrivere (insieme alla disaffezione alla lettura, al
contagio del linguaggio affrettato degli sms e di Facebook, alla
prevalenza del visivo sullo scritto, eccetera) è che non sanno scrivere
molti dei laureati in Lettere che andranno a insegnare nelle scuole,
laureati che non potranno ovviamente insegnare ad altri ciò che loro
stessi non sanno fare. Questo accade perché, come ho cercato di
spiegare, tutti gli attori coinvolti (gli studenti, le famiglie, i
docenti universitari, l’amministrazione universitaria) hanno interesse
a far sì che le cose vadano in questo modo, ragion per cui non si vede
proprio come sia possibile uscire da questa situazione, salvo un
ripensamento complessivo della formazione scolastica e universitaria,
con enormi investimenti e progetti di medio-lungo periodo che ignorino
l’utilità immediata e le mode: niente che sia realistico aspettarsi
(l’idea che, come recita il manifesto steso dal «Gruppo di Firenze per
la scuola del merito e della responsabilità», la salvezza possa venire
da «una revisione delle indicazioni nazionali che dia grande rilievo
all’acquisizione delle competenze di base, fondamentali per tutti gli
ambiti disciplinari» mi pare molto ingenua).
Oppure no? La soluzione potrebbe arrivare, sta già arrivando forse, da
tutt’altra direzione, il nodo potrebbe essere tagliato anziché sciolto.
Provo a spiegarmi.
La competenza nella scrittura, il saper scrivere decentemente, declina
anche per una ragione molto semplice e concreta, una ragione che –
magari inconsciamente – è ben chiara agli studenti che hanno fretta di
laurearsi (e più ancora alle loro famiglie che li mantengono), e cioè
che saper scrivere decentemente, alla fine, non è così importante. Lo
era senz’altro nell’Epoca della Scarsità, quando coloro che avevano
accesso alla sfera pubblica erano pochi, e soprattutto quando il sapere
tecnico-scientifico era percepito come meno rilevante rispetto a quella
infarinatura umanistica che dava accesso alle professioni di prestigio
sia nel settore pubblico sia in quello privato, un’infarinatura della
quale il saper scrivere non bene, magari, ma “elegante” costituiva una
parte non secondaria (che poi l’elegante confliggesse spesso con il
bene, onde l’atrocissimo bellettrismo italiano, è un altro discorso).
Era un saper scrivere che implicava, prima ancora della cura nello
stile, la calligrafia (abolita come materia alle elementari nel 1985,
quando Disegno e scrittura diventano Educazione all’immagine) e la
consapevolezza di come andava strutturato un testo “ben fatto” (accapo,
rientri, maiuscole, corsivi, formule protocollari ed escatocollari,
eccetera). Non è invece molto importante, saper scrivere, nell’Epoca
dell’Abbondanza, quando ogni individuo ha infinite possibilità di
scrivere e di essere letto da un pubblico infinitamente più ampio di
quello sul quale potevano contare gli scrittori del passato. Dato che
lo scrivere (e anche lo scrivere per un pubblico) è diventato
un’attività ordinaria come parlare o come leggere, molti di coloro che
scrivono sono indifferenti alle regole della buona forma, o non le
hanno mai veramente imparate. Per esempio. Scrivere direttamente al
computer è una cosa tanto normale, per gli studenti di oggi, che far
loro osservare che sarebbe meglio scrivere prima su carta, e solo in un
secondo tempo passare alla “bella” sullo schermo, suona come una
bizzarria. Di fatto, è una raccomandazione che faccio spesso ai miei
studenti, ed è significativo che, come mi spiegano, nessun altro –
genitore o insegnante – gliel’abbia mai fatta prima. Si pensa
evidentemente che i “nativi digitali” siano così abituati al pc da
essere in grado di scrivere direttamente su schermo: ma basta leggere
quello che scrivono per capire che non è così. O meglio, basta leggere
quello che scrivono se chi legge è in grado di distinguere una frase
corretta da una frase scorretta, e una frase ben congegnata da una
frase sbilenca: una competenza che, per le ragioni che ho detto, manca
a molti insegnanti.
Ma non è che si scrive peggio perché si scrive di più, o più in fretta.
Si scrive peggio soprattutto perché l’infarinatura umanistica che era
tenuta in gran conto fino a qualche generazione fa è diventata
secondaria, a fronte di altre competenze, o a fronte di niente, ed è
per esempio perfettamente possibile entrare a far parte della “classe
dirigente” senza aver letto dei libri e senza saper scrivere in
italiano. Il deputato Alessandro Di Battista (laurea al DAMS di Roma
Tre), che aspira alla carica di Presidente del Consiglio, o perlomeno
di ministro, critica durante la trasmissione televisiva DiMartedì (La7,
24 gennaio 2017), «coloro che hanno magari paura che potremo svelare
alcune porcate reali e molto molto grandi che appunto inficiano lì,
sulla carne dei cittadini italiani e sui diritti di tutti noi
italiani». Evidentemente, nella sua formazione, Di Battista non ha
investito molto sull’italiano parlato e scritto. Gli si può dare torto,
considerando la carriera che ha fatto? E del resto: quale messaggio,
quale idea di formazione trapela dal progetto di Alternanza
Scuola-Lavoro, che sostituisce alcune decine di ore curricolari con
esperienze lavorative all’interno di aziende o uffici pubblici? Se
davvero fossimo convinti che studiare con serietà e continuità
discipline come l’italiano o la storia o la biologia o la matematica è
il modo migliore per crescere e per trovarsi un lavoro, accetteremmo
davvero di farci rosicchiare il tempo-scuola dalla gita d’istruzione,
dal Campus sulla Legalità, dalla Settimana della Cittadinanza, dalla
Giornata della Memoria, dallo stage in biblioteca? Càpita che la
devozione continui anche molto tempo dopo che il dio che si prega è
morto.
Mancando, per così dire, la domanda sociale del prodotto, non c’è
dunque neppure ragione di coltivarlo, ovvero non c’è ragione per non
accontentarsi di un prodotto meno curato, e insomma di testi brutti, ma
comunque comprensibili, anziché di testi ben scritti. Non coltivando il
prodotto, non si coltiva neppure la sensibilità idonea ad apprezzarlo,
ed ecco che non solo si fanno errori che passano inosservati tanto a
chi scrive quanto a chi legge (cinquantenario dell’alluvione di
Firenze, cartello commemorativo: gli “angeli del fango” salvarono il
patrimonio artistico della città «lavorando giorno e notte in
condizioni affatto favorevoli»), ma si generalizza anche il vizio
italianissimo della “eleganza”, della parola scelta là dove starebbe
meglio la parola comune (stazione di Firenze: «Discendere dal lato
opposto», anziché scendere), si adoperano a casaccio le preposizioni
(articolo del noto giornalista X: «Ho avuto come un soprassalto a
trovare… Una mattina mi telefonò a offrirmi un contratto… Una malattia
contro cui non c’è scampo»), si usano a sproposito le locuzioni
idiomatiche (pagina di un manuale scolastico: «Angelica cadde a gambe
levate»), e più in generale, senza che la sciatteria comporti veri e
propri errori, si scrive male, e si accettano testi scritti male, anche
là dove, data la sede, ci si aspetterebbe un po’ di cura.
Alla cattiva scrittura corrisponde un cattivo contenuto? Non è detto:
l’articolo del noto giornalista X che ho appena citato è mal scritto,
ma contiene osservazioni interessanti. Del resto, scrivere per il web
(il giornalista X scrive per il web) non è come scrivere un articolo
per un giornale di carta, e scrivere un articolo per un giornale di
carta non è come scrivere un libro: è comprensibile che l’attenzione e
la cura aumentino progressivamente, dal primo all’ultimo passaggio, a
mano a mano che aumentano il tempo d’esecuzione e l’ipotetica “durata”
del testo. È un fatto però che la gran parte dei testi che si scrivono
e si leggono oggi si scrivono e si leggono direttamente su uno schermo.
Il 18 gennaio 2017, sul quotidiano che riportava con grande evidenza
l’appello allarmato dei «600 professori» sugli studenti che non sanno
scrivere, ho letto questo titolo: «40 anni fa la morte di Re Cecconi,
l’eroe della Lazio ucciso perché confuso per un ladro». A parte il
misterioso epiteto di eroe (perché mai?), chi ha scritto il titolo non
sa, evidentemente, che si può dire “preso per un ladro”, ma non si può
dire “confuso per un ladro”. È il genere di errore che anni fa sarebbe
stato inconcepibile, sulle pagine di un grande giornale. Ma oggi, in
rete, i titoli cambiano ogni cinque minuti, e semplicemente non c’è
tempo per verificare tutto, e non è economico farlo: i lettori e gli
abbonati non diminuiscono per una preposizione sbagliata, dunque non
sono cose per le quali abbia senso darsi molta pena.
Su un altro più decisivo piano, la tendenza, anche nelle scuole, ad
affidarsi sempre più spesso all’ ebook o alla rete, abolendo o
marginalizzando i libri di testo, e obliterando così quella distinzione
tra, in breve, libro di carta autorevole e testi effimeri da consumarsi
su schermo (notizie, giochi, email, video), una distinzione che molti
si sono sforzati di conservare in questa primissima età del web, questa
tendenza non sembra poter avere se non un’influenza negativa sulla
qualità media dell’espressione scritta dei futuri adulti. Questo non
vuol dire che saper scrivere bene non possa restare, per alcuni, un
traguardo da raggiungere, e un requisito da parte di datori di lavoro
particolarmente esigenti; ma, parlando sempre di medie e non di picchi,
di scriventi e non di scrittori, sono del parere che in futuro
diventerà qualcosa di simile a una bella virtù privata, come saper
dipingere o cantare bene. Ma perché parlare di futuro? Per molti versi,
come mostrano gli esempi che ho citato, è già così. E il sole non ha
smesso di sorgere, direbbero gli ottimisti: senza avere tutti i torti.
Claudio Giunta
Il Sole 24 Ore
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