Pirandello, poeta della disarmonia
Data: Giovedì, 14 maggio 2015 ore 01:30:00 CEST
Argomento: Redazione


"Io penso che la vita è una molto triste buffoneria, poiché abbiamo in noi, senza poter sapere né come né perché né da chi, la necessità di ingannare di continuo noi stessi con la spontanea creazione di una realtà (una per ciascuno e non mai la stessa per tutti) la quale di tratto in tratto si scopre vana e illusoria.
Chi ha capito il giuoco, non riesce più a ingannarsi; ma chi non riesce più ad ingannarsi non può più prendere né gusto né piacere alla vita. Così è. La mia arte è piena di compassione amara per tutti quelli che si ingannano; ma questa compassione non può non essere seguita dalla feroce irrisione del destino, che condanna l'uomo all'inganno. Questa, in succinto, la ragione dell'amarezza della mia arte, e anche della mia vita". ( Lettera autobiografica, stesa da P. nel 1912 per fornire alcune notizie sulla propria vita).

Pirandello sentì sempre dentro di sé, quasi come consustanziale al proprio essere, la disarmonia; la poetica dell'umorismo, "la cui particolarità è veramente tutta nel tono, nelle variazioni capricciose del motivo sentimentale, nella riflessione che contrasta al sentimento, o meglio, in cui il sentimento si smorza", è già presente, prima ancora che Pirandello la teorizzi ,nelle sue poesie.

Certo, la fama di Pirandello è legata alla sua opera di novelliere, romanziere e drammaturgo più che ai versi di Mal giocondo, di Zampogna, e Fuori di chiave, tanto per citare solo le raccolte più significative.

Ma credo che al Nostro non dispiaccia ricordarlo in primis come poeta, se è vero che alla poesia egli volle affidare i suoi esordi letterari, i suoi sogni e le illusioni giovanili, le sue ire, le sue ansie, i suoi bizzarri umori, le sue malinconie e le sue battaglie contro gli uomini e le "lor picciole cose" - come direbbe Carducci -, la sua amara allegria, il suo umorismo acre e dissacratorio. E se con la poesia l'amorosa corrispondenza non poté durare più a lungo, la colpa non fu certo di Pirandello, ma del suo tempo "scientifico" e "positivo", così poco incline alla ideale armonia del canto; la colpa fu delle dure necessità della vita che, ben presto, spogliata di ogni illusorio velo, prosaica e nuda si mostrò a Pirandello, e dissonante tanto, da non potere più essere assorbita totalmente per sola magia di sillabe e di suoni. Del resto, una cosa è accertata: che la poesia non solo fu il suo primo amore, e mai del tutto dimenticato, ma addirittura il figlio Stefano testimonia che ancora negli ultimi anni di vita suo padre, Luigi, pensava ad una riedizione antologica delle proprie liriche migliori; e avrebbe voluto "ritornare là donde era partito giovinetto, e concludere come aveva cominciato: da poeta".

In realtà, l'universo poetico di Pirandello si offre come un vasto semenzaio, un serbatoio di temi e di spunti formali, da cui sempre, poi, lo scrittore attingerà per fare un'operazione cosciente e volontaria di riattivazione di complesse catene di segni, reinserendole in testi di volta in volta diversi, ricontestualizzandole. E' questo - come è stato giustamente sottolineato - il cosiddetto "fenomeno d'eco" della autocitazione che attraversa tutta l'opera pirandelliana, stringendo relazioni intertestuali non solo fra scritti d'epoca notevolmente diversa, ma anche fra testi appartenenti a generi assolutamente distinti e fortemente divaricati.

Mal giocondo, finanche nel titolo, nella figura retorica dell'ossimoro, riflette il disagio e il disorientamento e la dissonanza del tempo che fu di Pirandello.

Scrive il Nostro in una lettera del 1924: "Il mio primo libro fu una raccolta di versi, Mal giocondo....Lo noto, perché han voluto dire che il mio umorismo è provenuto dal mio soggiorno in Germania (1889; e non è vero: in quella prima raccolta di versi più della metà sono del più schietto umorismo, e allora io non sapevo neppure che cosa fosse l'umorismo..."

In Zampogna (1901) e, soprattutto, poi, in Fuori di chiave(1912), l'io problematico, e disarmonico, fa la sua comparsa per attuare un progetto radicalmente nuovo di poesia, pienamente novecentesco, se è vero quello che scrive S. Ramat "essere la poesia novecentesca un'ipotesi di poesia come mondo prioritario, aurorale, che dovrà conquistarsi una vitalità attraverso la coscienza della propria crisi perpetua, dunque attraverso la stessa coscienza critica che intanto impone si riparta da zero".

In queste due raccolte di versi, si può dire, parafrasando Montale, che Pirandello abbia "torto il collo alla eloquenza della nostra vecchia lingua aulica, magari a rischio di una contro eloquenza". In Zampogna c'è già un tentativo di "sliricamento" che si muove nella prospettiva di un senso novecentesco della poesia, di un senso cioè consapevolmente critico, umoristico, disarmonico di guardare le cose, che non consente più facili e pacifiche comunioni con la Natura. La minuta osservazione della realtà, preludiano in Zampogna ai toni propri della poesia crepuscolare, dove è forte il compiacimento della rinuncia al lusso (verbale) dannunziano, nonché la distanza dalla vibratilità" del sentire "fanciullo" del Pascoli.
Pirandello si muove in direzione della "dissolennizzazione" della poesia, verso la colloquialità ironica e scherzosa alla Palazzeschi!

Per non dire che la sua 'inquietudine esistenziale" ci richiama a quella di Svevo, per esempio!

In Preludio: orchestrale, poesia d'apertura della raccolta Fuori di chiave, al suono del "violin trillante" faceva già da contro canto "il rauco ammonimento" del contrabbasso. Il "frigido fiato dell'orchestra" sembra definitivamente orma ribadire l'estraneità del poeta alla disposizione lirica.
In Comiato, lirica conclusiva della medesima raccolta, l'autoironia sul proprio passato di poeta, che ha" svenduto le sue nuvole", diviene definitivo proposito di silenzio, programma di cantare in persona d'altri, dopo la estrema consunzione dell'io lirico:
...
Io che mi sono senza cuor ridotto,
d'ora innanzi, ti giuro, starò muto;
questo, ti giuro, è l'ultimo saluto..

E' quel "silenzio di cosa" di Serafino Gubbio operatore, quel silenzio che prelude ormai al passaggio quasi obbligato al teatro; obbligato nella misura in cui la "densa sostanza di pensiero e sentimento", che sono alla base della concezione tragico-umoristica di Pirandello, non poteva più essere espressa attraverso il vincolo della versificazione.

Nuccio Palumbo
antonino11palumbo@gmail.com





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