Robert
Costanza (noto economista statunitense) nel suo ultimo studio
pubblicato su Ecological Economics si afferma che «mentre il prodotto
interno lordo (Pil) mondiale è più che triplicato dal 1950, il
benessere economico, così come stimato dal Genuine Progress Indicator
(Gpi), è in realtà diminuito dal 1978». Ritiene che l’orologio del
progresso si sia fermato?
«Ciò significa che dal 1978 non stiamo compiendo “veri e propri”
progressi a livello globale, benché alcuni Paesi si stiano comportando
meglio di altri. Il PIL non è mai stato concepito come un’unità di
misura del progresso – esso infatti quantifica solo l’attività
economica – che può includere fattori di cui non sentiamo
necessariamente il bisogno in quantità maggiore, come ad esempio
criminalità, inquinamento e disgregazione delle famiglie.
Sfortunatamente, abbiamo dimenticato il fatto che il PIL è un valore
molto limitato e noi lo utilizziamo erroneamente per calcolare il
progresso in generale. Il GPI rimodella il PIL prendendo in
considerazione distribuzione del reddito, aggiungendo il valore della
famiglia e del volontariato e sottraendo i costi ambientali e sociali.
A questo punto notiamo come dal 1978 non vi sia sostanzialmente alcun
guadagno netto o un vero e proprio progresso globale. Occorre
sottolineare che il GPI non è un perfetto indicatore di benessere
economico o di concetti più ampi legati al benessere sostenibile
dell’umanità. C’è ancora molto lavoro da fare in questo settore.
Tuttavia, tali modifiche sono ragionevoli e i risultati sono
convincenti. Si ottiene ciò che si misura, e noi stiamo perseguendo
l’obiettivo sbagliato cercando di massimizzare il PIL. Dobbiamo
spostarci rapidamente verso margini più ampi di progresso se vogliamo
raggiungere un benessere sostenibile e tornare sulla strada di un
autentico progresso».
Nell’articolo
si sottolinea inoltre che «il Gpi/pro capite ha raggiunto il picco nel
1978, ovvero circa nello stesso periodo in cui l’impronta ecologica
globale ha superato la biocapacità globale». È possibile inferire
qualcosa da questa simultaneità?
«Probabilmente si tratta solamente di una coincidenza, tuttavia da
quando il GPI sottrae i costi ambientali che crescono costantemente di
pari passi con l’impronta ecologica, non ci sorprende che entrambi i
valori abbiano evidenziato questa tendenza. Essi infatti indicano il
1978 come il punto a partire dal quale i costi generali hanno
cominciato a superare i benefici e noi abbiamo iniziato a sfruttare
intensivamente il nostro capitale naturale, piuttosto che vivere di
interessi. Ci troviamo in un periodo che Herman Daly ha definito come
“crescita antieconomica” – in cui l’economia è in crescita, ma non si
tratta più di una crescita “economica”, dal momento che non stiamo
compiendo progressi reali».
Una delle
osservazioni più interessanti prodotte dallo studio è che «globalmente,
il Gpi/procapite (e dunque una stima del benessere, ndr) non aumenta
oltre un Pil/procapite di circa 7mila dollari l’anno», un livello
economico che potrebbe essere già ampiamente raggiunto con un’equa
distribuzione del Pil globale. Ma un italiano come potrebbe essere
felice con un equivalente di circa 425€ al mese?
«Il punto non è che tutti dovrebbero avere esattamente lo stesso
reddito, ma che il reddito potrebbe essere distribuito in un modo molto
più equo rispetto al presente e tutto ciò sarebbe non solo sostenibile,
ma anche più desiderabile dal punto di vista della qualità della vita e
del benessere. Lo studio di Richard Wilkinson e Kate Pickett pubblicato
su “The Spirit Level” ha dimostrato una forte correlazione tra le
disparità di reddito e numerosi problemi di natura sociali. I Paesi
scandinavi e il Giappone fanno registrare la disparità di reddito più
bassa, minori problemi sociali e la più alta qualità della vita. Non
abbiamo più bisogno della crescita del PIL per migliorare il benessere
in molti Paesi – potremmo stare meglio con meno ricchezza purché
distribuita più equamente, nonché con un minore impatto sull’ambiente.
Altri paesi invece hanno bisogno di crescita, ma di natura diversa,
ossia una crescita che si concentri su equità, investimento nel
capitale naturale e benessere. Abbiamo bisogno di un nuovo paradigma di
sviluppo e perciò abbiamo costituito un’Alleanza globale per la
Sostenibilità e la Prosperità (ASAP) per riunire e sostenere tutti i
vari gruppi di lavoro che tendono a questo obiettivo
(www.asap4all.org)».
La crisi
economica ha acuito il problema della povertà nei paesi occidentali,
con acquisti di beni e servizi già in calo. Come pensa reagirebbero i
cittadini di fronte a una proposta politica che comporti la riduzione
delle loro entrate economiche?
«Molte nuove ricerche nell’ambito della “scienza della felicità”,
“psicologia positiva” ed “economia comportamentale” mostrano come la
percezione di benessere delle persone non sia così dipendente dal
proprio reddito economico, una volta superato la soglia della
sufficienza. Inoltre, il benessere è determinato non tanto dai consumi
assoluti, quanto dai consumi rispetto ai propri pari, oltre a una vasta
gamma di fattori non strettamente legati al consumo, tra cui
interazioni con la famiglia, gli amici e la comunità (capitale
sociale), sicurezza, partecipazione al processo decisionale, tempo
libero, affetto, realizzazione, ecc. Una diminuzione del reddito senza
altri cambiamenti sarebbe sicuramente essere interpretata come una
perdita e perciò ostacolata. Diversamente, una riduzione del reddito
associata a un forte aumento di benessere derivante da altre fonti
sarebbe accettabile, e persino auspicabile, nel caso in cui questi
cambiamenti siano collegati e articolati in modo evidente. Gli italiani
sono rinomati per l’amore che nutrono per “la dolce vita”, perciò
riescono a comprendere i compromessi derivanti da ritmi serrati di
lavoro finalizzati ad aumentare il proprio reddito a discapito delle
altre cose belle della vita. Dobbiamo sfruttare ciò che stiamo
imparando sulla psicologia de la dolce vita per ideare un mondo
migliore e facilitarne la realizzazione».
Nonostante
tutto, virare il modello socioeconomico mondiale verso un obiettivo di
stato stazionario sembra infatti ancora l’unica prospettiva sensata
verso un futuro sostenibile di benessere. Mantiene ancora la speranza
di vedere l’umanità avvicinarvisi?
«Io sono ottimista, ma dobbiamo riconoscere che ci troviamo
letteralmente “dipendenti” dall’attuale modello socio-economico. Non
stupisce quindi che la transizione verso un’economia e una società
sostenibile e desiderabile sarà lenta e difficile. Proprio come quando
si rompe una dipendenza individuale, saranno necessari una terapia
adeguata e un forte desiderio di cambiare. Come prima cosa, noi
possiamo instillare quel desiderio mostrando come il nostro percorso
attuale non sia sostenibile, ma soprattutto sottolineando l’esistenza
di soluzioni migliori. Dobbiamo creare una visione condivisa di un
sistema economia-società-natura sostenibile e desiderabile. Molti
gruppi e individui in tutto il mondo stanno lavorando a questo progetto
(vedi il citato www.asap4all.org), e confido che riusciremo a
raggiungere un punto di non ritorno, rompendo così la nostra dipendenza
prima che sia troppo tardi».
Crede quindi
che i progressi compiuti negli ultimi anni dall’economia
comportamentale possano essere un valido sostegno per realizzare un
percorso sociale che porti ad un’economia di stato stazionario?
«Sì, insieme ai progressi nel campo della psicologia positiva e delle
altre discipline citate in precedenza. Questa ricerca conferma che le
persone non si comportano come individui avari, atomistici e
competitivi, così come ipotizzato dal modello economico tradizionale.
Essa mette in luce piuttosto la complessità del comportamento umano,
sottolineando come la specie umana sia intrinsecamente sociale e
cooperativa. Le persone reali sono generalmente più felici quando danno
qualcosa agli altri e si aiutano a vicenda rispetto a quando ricevono.
La ricerca inoltre indica che i cambiamenti di cui abbiamo bisogno per
realizzare un futuro sostenibile e desiderabile non rappresentano un
sacrificio e non sono contrari alla “natura umana”. Il sacrificio vero
consiste nel rifiuto di questi cambiamenti, ancor più considerando che
il futuro sostenibile e desiderabile che stiamo descrivendo è molto più
compatibile con la natura umana rispetto al modello attuale».
Greenreport