1961-2011: un’occasione per ricordare Aldo Capitini
Data: Giovedì, 22 luglio 2010 ore 18:46:09 CEST
Argomento: Rassegna stampa


Fino al 1968, anno della prematura scomparsa (era nato a Perugia il 23 dicembre 1899), Capitini non si stancò di insistere sulla prefigurazione nonviolenta dei fini da parte dei mezzi, sulla necessità di un’autentica partecipazione di tutti alla vita pubblica (omnicrazia), sul concorso dei cosiddetti improduttivi, degli assenti, dei morti alla produzione di realtà (compresenza), sulla religione intesa come apertura e non come irrigidito e asfittico sistema confessionale (suoi libri, come “Religione aperta” del 1955, “Discuto la religione di Pio XII” del 1957, “Battezzati non credenti” del 1961, vennero messi all’indice dalla Chiesa). Nel 1937 diede vita, insieme a Guido Calogero, al Movimento liberalsocialista. Fu dopo averlo ascoltato in un convegno a Ferrara che Pietro Pinna divenne nel 1948 il primo obiettore di coscienza italiano del dopoguerra scontando una serie di condanne e carcerazioni fino al definitivo congedo per una presunta “nevrosi cardiaca”. Nel 1952, anticipando nettamente argomenti di riflessione oggi molto dibattuti, Capitini organizzò il convegno “La nonviolenza riguardo al mondo animale e vegetale”, nel corso del quale si costituì la Società Vegetariana Italiana. Aldo Capitini è stato un pensatore nient’affatto chiuso in un’eburnea stanzetta ma attivo suscitatore di coscienze. Proprio per questo fu scomodo soprattutto a sinistra. Chi ha potuto leggere il fitto scambio epistolare di lui con Walter Binni, Danilo Dolci, Guido Calogero, sa quanto, negli anni Sessanta, fosse amareggiato per l’estromissione, decisa ovviamente in ambiti politici, dall’Università per stranieri di Perugia o per la mancata diffusione, da parte della casa editrice Feltrinelli che lo aveva pubblicato, del suo libro “Le tecniche della nonviolenza”. Gli fu attribuito, è vero, il premio straordinario “Viareggio” nel 1967 per l’intenso libro “La compresenza dei morti e dei viventi”, edito da Il Saggiatore, ma il cronista Rai si guardò bene dall’intervistarlo. Capitini pagò, dunque, le conseguenze di quella che Marco Pannella efficacemente definisce “la peste italiana”, vale a dire lo stravolgimento delle regole democratiche attuato e pervicacemente perpetrato dai partiti all’indomani della promulgazione della carta costituzionale. Il suo nome è stato sì tirato in ballo recentemente in occasione di qualche edizione della marcia Perugia-Assisi ma indegnamente e indecorosamente. Lo spirito della marcia capitiniana del 1961, sia ribadito con estrema chiarezza, non ha nulla a che fare con quello delle marce istituzionalizzate, burocratizzate, unilateralmente concepite susseguitesi da almeno un decennio. Basti solo ricordare a qualche smemorato, più o meno finto, che nel 1967 si rifiutò con nettezza di sottoscrivere un appello fazioso di Lucio Lombardo Radice a favore degli stati arabi e contro lo stato di Israele. La sua nonviolenza, giustamente al centro dell’ultimo numero (il diciottesimo, per l’esattezza) della rivista “Diritto e libertà” diretta da Mariano Giustino, non va affatto equivocata con lo pseudopacifismo antiamericano tanto caro, nel periodo della guerra fredda, al totalitarismo moscovita e, ai giorni nostri, a coloro che, con il loro atteggiamento, continuano a tollerare le varie satrapie sparse nel mondo. Ecco perché la ricorrenza del 2011 può e deve costituire l’occasione per restituire alla sua figura la considerazione che merita. Da www.l'opinione.it redatto dalla redazione





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