DESIDERIO E IRRAZIONALITA':L'IMPOSSIBILITA' DI SPIEGARE LE NOSTRE PASSIONI
Data: Domenica, 14 settembre 2008 ore 10:59:45 CEST
Argomento: Rassegna stampa


Desiderio ed Irrazionalità: l’impossibilità di spiegare la nostre passioni

di Jocelyn Benoist

Archivi Husserl di Parigi

 

Se consideriamo i desideri che costituiscono probabilmente il paradigma stesso del desiderio, ossia i nostri desideri sessuali, è abbastanza chiaro che è molto difficile trovare qualsiasi “ragione” ad essi.

È difficile trovare una ragione di essi, considerati nella loro particolarità, nel proprio “contenuto”. È chiaro che ciascuno ha i propri gusti in materia di scelta o di oggetto o di che cosa ci si aspetta dall’oggetto – per quanto quella possa, certe volte, parere paradossale alla cosiddetta gente comune. Ora, quando si dà qualche “ragione” di amare, è molto improbabile trovarci alcuna “razionalità”. La prova ne è che non ha molto senso discutere i desideri altrui. Quando, ne Le bourgeois gentilhomme di Molière [1] , il servo di commedia Covielle obietta al suo padrone Cléonte, che cerca ragioni di non più amare:

 

        “[La sua fidanzata] ha una bocca grande

Cléonte risponde :

        “Sì, ma quella bocca ha delle grazie che non si vedono alle altre bocche”

 

e si capisce che è appunto quella suddetta anormalmente grande bocca a piacergli, o piuttosto che ogni singola cosa che appartiene all’amata gli piace, perché appartiene all’amata, e anche quando lui finge di cercare ragioni di non amarla più. Una passione non è fondata.

Come Cléonte, faremmo tanta fatica a spiegare le nostre passioni. Non è sicuro per niente che ci sia qualcosa da spiegare.

Inoltre, se i nostri desideri più essenziali non possono essere detti ben motivati nei loro contenuti, se non in un modo tautologico – questi oggetti sono motivi di desideri perché li desideriamo – più essenzialmente, quei desideri non possono essere detti motivati in quanto desideri.

Al di là della questione di sapere se siamo giustificati nel desiderare tale o tale oggetto per farne tale o tale cosa, resta l’ingiustificabilità – l’assenza di ragione, di motivo – del desiderio stesso.

Perché desideriamo? Al fatto del desiderio – al di là della particolarità di tale o tale desiderio – non sembra che ci sia nessuna ragione. Perché dovremmo desiderare o meno? Perché la nostra esistenza è soggetta alla catena del desiderio? Si sa come certi filosofi hanno, in tale senso, riflettuto sull’assurdità (nel senso dell’assenza di ragione) del desiderio. Il desiderio, fondamentalmente, è Ungrund.

Certo, al desiderio si possono probabilmente trovare delle cause. Magari, desideriamo perché questa necessità è iscritta nella nostra fisiologia, anche se questo non sembra darci altro che dei bisogni, secondo la distinzione psicoanalitica fra bisogno e desiderio. Oppure, psicoanaliticamente, desideriamo perché abbiamo sempre già perso qualcosa – ad esempio, il seno maternale – e cerchiamo, in un modo o un altro, di colmare questa perdita.

Comunque questo genere di spiegazione dà al desiderio delle cause – anche molto fondamentali, nei confronti dell’esistenza umana – ma in nessun caso alcuna ragione. Non c’è nessun motivo, per il desiderio, che funzioni come un senso, o qualcosa d’analogo ad un senso.

Perciò, il desiderio è “irrazionale”: cioè non ha nessuna “ragione”, non appartiene per niente all’ambito della ragione. Così è un puro fatto della nostra natura – reines Faktum – che rinvia alla fatticità della nostra esistenza.

Il problema allora è il seguente: anche la respirazione è un fatto della nostra natura e dunque sembra, nello stesso modo, essere “irrazionale”; tuttavia, non la diremmo “irrazionale” in tale modo.

Perché, fra i fatti della nostra natura, diciamo il desiderio particolarmente “irrazionale”?

Questa definizione ha qualche senso soltanto se si incrociano, per così dire, e se si ostacolano, le ragioni della ragione, cioè se la ragione, in un modo o un altro, è (conflittualmente) coinvolta nel desiderio. Se parliamo d’irrazionalità, ciò avviene perché la ragione viene (o può venire), in qualche modo, contrastata.

Il campo di questa conflittualità è quello dell’esercizio abituale e originario (anteriore all’ambito teorico) della ragione, vale a dire l’azione.

Il principio di razionalità, nel campo pratico, che è anche il suo campo primordiale, è quello della giustificazione o almeno motivazione delle proprie azioni [2] . Deve esserci qualche rapporto di senso fra l’azione e il motivo che se ne dà.

Ora, il desiderio, in quanto uno dei moventi più potenti della nostra azione, sembra introdurre una componente d’irrazionalità (vale a dire: d’ingiustificabilità) in quell’azione. Il desiderio compare spesso non soltanto come indifferente alle nostre ragioni (alle ragioni che possiamo dare all’azione), come puro materiale per esse, ma come tale da entrare in conflitto con quelle.

Ad esempio – argomento classico di tragedia, che ha dato materia a tanta elaborazione letteraria [3] – posso conoscere una donna come cattivissima e perversa, che civetta con me e cerca soltanto di farmi soffrire, posso vedere tante ragioni di non amarla, e, soltanto tali ragioni, e ciononostante desiderarla. Questa consapevolezza non ha mai impedito a nessuno di desiderare, anzi di desiderare in modo tale da perderne ogni ragione – vale a dire da non tenere più alcun conto di nessuna ragione, anche per il resto della propria vita.

È questa conflittualità a farci parlare d’“irrazionalità”. Si solleva un problema inserendo il desiderio nell’ordine generale delle ragioni dell’azione.

Francesco Saverio Trincia si è curato di questo senso preciso dell’irrazionalità nel suo saggio conclusivo del volume Desiderio e filosofia. [4] Ha, per così fare, mobilitato il riferimento ai cosiddetti “paradossi dell’irrazionalità” del filosofo americano Donald Davidson. [5]

La questione che Trincia pone, è di sapere se una tale irrazionalità sia da interpretare nel senso di un conflitto fra differenti e, nello stesso tempo, competenti ma incompatibili razionalità, vale a dire come una qualche divisione nel campo della razionalità stessa.

Tutto sommato, sembra naturale che le nostre ragioni finiscano tutte in un certo genere d’irrazionalità, nel senso di assenza di ulteriore fondamento. [6] Non c’è nessuna propria “ragione” se desidero quest’oggetto – voglio dire: nessun’altra ragione che il mio desiderio di esso – ma quel desiderio costituisce, nel proprio ambito, una ragione, una delle mie ragioni costitutive dell’azione. È sicuramente possibile che questa ragione entri in conflitto con altre ragioni, ma, allora, il problema dell’eventuale “irrazionalità” si riduce a quello di una scarsa, incorretta integrazione o compensazione delle mie diverse ragioni. Non do a questo desiderio il peso che esso dovrebbe avere nell’ordine delle mie ragioni, io non sono capace di averne una valutazione razionale, confrontandolo, ad esempio, a quanto so dell’oggetto del mio desiderio e a ciò che farei normalmente (indipendentemente da questo desiderio) nei confronti di questo genere d’oggetto.

La scarsa o imperfetta integrazione delle ragioni sembra indicare, in noi stessi, qualcosa come una molteplicità di soggetti ed è quest’ipotesi di un “io molteplice” (multiple Self) che Trincia, a ragione, discute e critica come insufficiente (per interpretare la possibile “irrazionalità” del desiderio).

Ciò che mi sembra tuttavia interessante nella spiegazione in termini di differenti serie di ragioni competenti, che si incrociano ma non fanno – interamente – sistema (non si compensano), è il fatto che, in questo caso, una ragione (dal punto di vista di una delle serie coinvolte) può intervenire nella vita mentale come una semplice causa – voglio dire senza più fare la propria parte di ragione. È una ragione dal punto di vista di una serie, ma non lo è più dal punto di vista dell’altra – prevalente – serie, perché l’integrazione non si è – o si è male – realizzata. In questo caso, nella serie dominante di ragioni (quella che dà il suo senso attuale alla nostra azione, o di cui almeno vorremmo che essa desse il suo senso attuale alla nostra azione), la ragione che appartiene in realtà ad un’altra serie, sotterranea, o si potrebbe dire recessiva, non è più altro che una pura causa parassitaria nell’ordine delle ragioni attuali, diviene perciò un fatto specifico d’irrazionalità.

Quest’idea di una ragione che perde il proprio statuto di ragione e funziona come una pura causa, mi sembra molto interessante e importante: è probabile che non ci sia nessun senso della cosiddetta “irrazionalità” del desiderio, né dell’irrazionalità in generale, che si possa immaginare senza qualche riferimento ad una tale irruzione di un fattore puramente causale nell’ordine stesso delle ragioni. L’irrazionalità è quel divenire pura causa (“causa nuda”) di una ragione, che, in un certo senso rimane ragione, ma funziona allora come ragione “distaccata” – per così dire disattivata in quanto ragione.

L’appartenenza ad un’altra serie di ragioni, non attualmente prevalenti in quanto ragioni, non mi sembra però sufficiente per rendere conto del modo particolare in cui qualche ragione si può manifestare come pura causa (e non più come ragione, vale a dire come ragione attualmente giustificante che fa la propria parte di ragione) nel processo del cosiddetto “desiderio irrazionale”. Da questo punto di vista, condivido l’opinione di Trincia.

Per spiegarci in parole povere, prendiamo l’esempio dell’ossessivo dato da Freud, e commentato da Davidson e Trincia: è la storia di una persona che toglie un ramo di un viottolo in un giardino pubblico, per paura che qualcuno si ferisca, poi torna al parco e rimette il ramo al suo posto iniziale, per paura che il nuovo posto in cui lui l’aveva messo (sul ciglio del viottolo) risulti ancora più pericoloso.

Davidson scopre l’irrazionalità nell’apparente contraddizione fra ambedue le valutazioni della situazione. L’azione del soggetto sembra incoerente: ciò che appare irrazionale, in effetti, è tornare al parco dopo aver deciso in un certo senso, per cambiare ciò che si è fatto.

Ci sembra però che qualcosa manchi nell’analisi di Davidson: ciò che ci mostra irrazionale in quest’esitazione del soggetto è precisamente l’importanza che la questione assume per lui, e che è tale da fargli cambiare idea. Perché qualcosa che non è in sé  importante, importa tanto al soggetto, e genera questo imbarazzo evidente? Così si formula il problema.

La psicoanalisi ha fornito una risposta, che consiste nell’addurre un’altra serie di ragioni, ma una serie cui è fondamentale che essa sia nascosta, repressa, “rimossa” come tale: se il togliere o meno del ramo è così importante per me perché “esso avrebbe potuto ferire qualcuno”, ciò si verifica perché io avrei voglia che esso ferisca qualcuno, ma questa voglia non è confessabile, anche a me stesso.

In questo senso, la psicoanalisi spiega bene qualche genere d’irrazionalità sulla base dell’intervento, nelle serie delle nostre ragioni, di altre ragioni non integrabili alle serie ufficiali, e che, come tali, non possono funzionare in quelle serie altrimenti che come pure cause – vale a dire che esse non compaiono più come “ragioni”. È però importante che esse siano, ad un altro livello, delle ragioni, in modo tale che il nostro comportamento abbia ben un senso, ma non quello che crediamo. È il semplice conflitto di quel senso nascosto e del senso “ufficiale”, conscio, che produce l’effetto d’irrazionalità.

Davidson ha dunque ben proposto un’epistemologia adatta alla psicoanalisi, tranne che per un dettaglio, che non è evidentemente irrilevante: il senso inconscio di una delle serie, senso che, nella spiegazione data dal filosofo americano, mi pare, rimanga interamente da definire come tale.

Ci pare, dunque, che sussista una difficoltà (collegata sicuramente alla natura dell’“inconscio”) che impedisce di adottare completamente un tale modello “davidsoniano” per quanto riguarda la cosiddetta “irrazionalità” del desiderio, che il filosofo americano non affronta come tale.

Ad esempio, il desiderio segreto che posso avere di uccidere costituisce una ragione rimossa, nascosta anche a me stesso, che spiega l’irrazionalità apparente  e che, in questo senso, non è tale fino in fondo, poiché c’è pur sempre una ragione del mio comportamento pubblico. C’è tuttavia qualcosa di particolare in quella ragione: essa è, in un certo senso, inaccettabile, e, nella sua inaccettabilità, irrazionale, nel senso che non c’è niente capace di giustificarla, quindi avremmo voglia di contestarla e di chiederne delle ragioni. Più profondamente, questo desiderio è probabilmente desiderio dell’inaccettabile come tale – non è semplicemente, come tanti altri, un desiderio che “non ha nessuna ragione”. Ha, in realtà, in un certo senso, a che fare con la ragione stessa – è desiderio della trasgressione di ogni ragione, e, in questo senso, ha ben a che fare con la ragione, ne è il lato mostruoso. È probabile che ci sia qualcosa del genere in fondo a tutti i nostri desideri, nel loro limite: essi mirano a diventare illimitati. Ciò che spiega che, in un rovesciamento soltanto apparente del desiderio, possiamo usarlo così da far male a noi stessi – ciò che Freud ha chiamato: pulsione di morte. Dietro tutte le ragioni ritroviamo l’attrazione, fondamentale, dell’assenza di ragione.

Nella sua prefazione alla traduzione francese dei Paradossi dell’irrazionalità [7] , Pascal Engel prende ad esempio “le tre grasse dame di Antibes” di Somerset Maugham, che, come tutti, vogliono dimagrire e, allo stesso tempo, risultano incapaci di resistere all’attrazione dei dolciumi, al punto da ammalarsi. Engel ne propone una lettura davidsoniana, in termini di conflitto di ragioni. Mi pare però che manchi ancora una volta qualcosa a questa lettura: non è semplicemente il piacere che porta a mangiare sempre di più, e che travolge le ragioni di una dieta sana . Si può anche cercare di farsi distruggere dalla tavola, come da tante altre cose. C’è sempre qualcosa come la morte – e, più essenzialmente, l’attrazione della morte – in fondo a tutti i nostri eccessi. Le nostre passioni ci distruggono; ma amiamo le nostre passioni: esse non ci distruggono perché le amiamo, ma le amiamo (anche) perché ci distruggono, o, almeno, al limite, possono farlo. Nel desiderio c’è sempre questo senso del limite e dell’“impossibile possibilità” – la possibilità nella quale niente è più possibile, l’annullamento di ogni possibilità. In questo senso, l’eccesso non è un accidente del desiderio.

Le cosiddette ragioni ultime del desiderio, delle quali la psicoanalisi si interessa, non costituiscono dunque semplicemente un raddoppiamento dell’ordine delle ragioni, qualcosa come un semplice ordine “complementare” di ragioni. Esse sono piuttosto ciò che si potrebbe chiamare “le ragioni dell’altro” (in quanto ragioni contrapposte all’idea di ragione stessa).

Non accade semplicemente che il desiderio mescoli certe ragioni con altre, ma che metta sempre in un certo senso le ragioni stesse alla prova della possibilità di qualche pura, “irrazionale” causalità, non semplicemente come esteriore, ma come sfida interna rivolta ad esse. Questa è l’irrazionalità del desiderio, contro la quale la ragione edifica tante barriere intrinsecamente fragili, ma necessarie – poiché quest’irrazionalità abita nel più profondo della ragione stessa, in quanto ragione umana. Nell’assurdità dei nostri desideri profondi, non si mostra nient’altro che l’assenza di ragione, e il carattere ingiustificabile ai propri occhi, della nostra ragione.







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