Una stagione
culturale assai fortunata è quella che vede la presenza
simultanea a Catanzaro e dintorni di un nutrito gruppo di
filosofi di straordinario valore. Per una strana coincidenza
cronologica nello stesso anno (1834) nascono Francesco Acri a Catanzaro
e Francesco Fiorentino a Sambiase (oggi appartenente al comune di
Lamezia Terme), i due amici che poi si sarebbero
scontrati polemicamente; e subito dopo Felice Tocco
(1845) e Alfonso Asturaro (1854), i due illustri docenti universitari,
rispettivamente a Firenze ed a Genova, e due grandi teorici ed
epistemologi. Basterebbe consultare un semplice dizionario di filosofia
per avere un'idea dell'importanza di tutti questi uomini nella scuola e
nella cultura del nostro Paese. Ma la disattenzione è abbastanza
diffusa, oggi, pure se qua e là per l'Italia, nelle città in cui
esercitano la loro attività e finiscono la loro vita esistono
iscrizioni a loro dedicate e notevoli targhe commemorative. Come
per l'Acri, sepolto nella Certosa di Bologna, Chiostro VII, Portico
est, nella cui lapide, dettata dal famoso letterato Giuseppe Albini
dell'Università di Bologna, è incisa la seguente epigrafe che trascrivo
integralmente per correggere e integrare le tante citazioni parziali e
inesatte: "Francesco Acri, nato il 19 marzo 1834 in Catanzaro, morto il
21 novembre 1913 in Bologna, dal 1871 professore all'Università di
Storia della Filosofia, nobile cuore e alto ingegno, padre tra i
figlioli e i nipoti suoi, padre tra gli scolari, speculatore di verità,
seguace di bontà, amico di bellezza, filosofo e artista, italiano
d'animo e di lingua, devoto a Platone a Tommaso a Dante, adoratore di
Cristo, dalla fede a cui gli parve facile conciliare la scienza in cui
riposò l'intelletto e l'affetto abbia letificato in perpetuo lo spirito
immortale".
Francesco Acri è una figura singolare di uomo e di pensatore che non
passa inosservata in una città laica e positivista come Bologna nella
seconda metà dell'Ottocento, e lui dichiaratamente cristiano
viene apprezzato e stimato per il coraggio dimostrato nella difesa
della tradizione religiosa,della filosofia spiritualistica e del
purismo della lingua italiana. Quando l'Italia ai primi del Novecento
comincia a sentire l'insoddisfazione per la cultura materialistica e
vetero-positivistica, e sente il bisogno di valori più solidi,
allora riscopre il suo Acri rimasto a lungo nell'oscurità e lo onora
alla sua scomparsa con le parole commosse del professore Albini: "Gli
facemmo lieta festa tra i fiori del maggio, ed ecco Egli cade con le
foglie d'autunno. Cade in Lui l'ultimo di quei grandi vecchi che un
giorno,da poco ricomposta a unità e libertà la patria, eran venuti a
dar nome e lume alla scuola bolognese di Filosofia e di Lettere;
l'ultimo in cui taluno di noi poteva ancora abbracciare un maestro
[...]
Certo è gran pena che sia oscurato per sempre quel pensiero che come
cristallo terso rifletteva il pensiero umano per i secoli,e quella
parola sia muta ch'egli aveva educata a essere pittrice dell'idea,
rivelatrice del sentimento, tesoriera della tradizione italiana
schietta e gentile"(da Archivio Storico Università di Bologna, foglio
287). E queste non sono vuote e retoriche parole di circostanza
,ma forti sentimenti di gratitudine e veraci passioni dell'anima, e
sincere emozioni nei confronti di un Maestro e di un Pensatore che, se
non dispone di straripante sapere storiografico e di vastissima cultura
filosofica, presenta tuttavia una forza di penetrazione teoretica tale
da porlo in posizione di superiorità rispetto al suo compaesano
Francesco Fiorentino e ad altri studiosi italiani. E viene rispettato e
amato dai suoi illustri scolari Renato Serra e Manara Valgimigli per le
sue altissime qualità morali, intellettuali, pedagogiche e didattiche.
Ma non bisogna insistere troppo sulla sua inadeguata quantità di sapere
storiografico, poiché i suoi due anni di perfezionamento a
Berlino (1861-62 e 1862-63) presso l'antihegeliano Trendelenburg,
l'insigne studioso di Platone e di Kant, l'irriducibile avversario
della dialettica hegeliana, non passano invano sul terreno delle
varie acquisizioni storiografiche e metodologiche e lo mettono
nella condizione di affrontare con maggiore competenza tutta la storia
del pensiero filosofico, antico e moderno, e tutte le questioni
storiografiche ad esso collegate.
L'Acri, è vero, scrive poco, ma di quel poco egli ha una cura profonda,
perché lo vive dentro di sé e lo alimenta a lungo nella sua anima prima
di farlo uscire allo scoperto. Anche le traduzioni dei Dialoghi di
Platone, prima di vedere la luce, impiegano molto tempo, che è un tempo
di necessaria e approfondita meditazione, assimilazione, elaborazione
ed espressione formale. Il motivo di tanta fatica, anche nelle
traduzioni, si spiega con il fatto che la scrittura non è per lui un
gioco di società, ma lo svolgimento di pensieri che diano dei contenuti
significativi e che impegnino tutto il proprio spirito ed il proprio
senso estetico. D'altra parte pensieri poco significativi si esprimono
raramente con precisione e puntualità, e si aggirano lungamente a vuoto
intorno alla sostanza dei ragionamenti perché non li colgono con
chiarezza. Quanto più lunga è la discussione tanto più povero il
suo significato! Per contro, un pensiero profondo non ha bisogno
di tante tergiversazioni dietro molte chiacchiere. Un maestro ed un
pensatore si rivelano,perciò,nella scarsità della parola. L'Acri è in
questo senso un grandissimo Maestro. Egli scrive poco e quel poco è un
merito,dice Giovanni Gentile: "Questo è certo un segno della serietà di
spirito dell'Acri,il quale dalla sua filosofia è condotto alla
persuasione che il giro della scienza umana è molto breve, e si
conferma sempre più in questa persuasione, e vi tien fede
coraggiosamente" (G. Gentile, Le
origini della filosofia
contemporanea in Italia. I
Platonici, I, Sansoni, Firenze 1957,
p.399). Nessuna meraviglia, quindi, se anche la traduzione di Platone
subisce un rallentamento e l'Acri non riesca a rendere la
traduzione ed il commento di più di dodici dialoghi, che lo impegnano
in profondità. Ma egli va avanti, sia pure lentamente, per ricreare
"una delle più immortali cose create, i dialoghi di Platone; e mi ci
fui messo dentro con amore, e feci, e disfeci, e rifeci" (F. Acri,
Prefazione a Platone, Dialoghi, quarta ed., Carlo
Tarantola Editore,
Piacenza 1926, p.49).
Gli scritti di Francesco Acri hanno per lo più un carattere
occasionale e, raccolti, costituiscono i suoi volumi, che contengono
riflessioni con un ritmo molto simile alla prosa poetica leopardiana
dei Pensieri o delle Operette morali: "Mia sorella avea
nome Maria,fu
la mia cara compagna della prima età; e insieme andavamo a spasso e
contemplavamo il paese bello, e prendevamo diletto dei dì chiari e
sereni [...] E nei dì quieti d'autunno, quando fatta era già la sera,
quella cotale malinconia venendo,sola,con un figlioletto in
collo,passeggiava per lo verone, guardando le nubi che le passavano
davanti, e i lontani lumi, e la silente campagna. Non andò poi molto
tempo, e non fu più veduta in su quel verone; e quel fanciullo lo avea
in braccio estrania donna. Morì essendo ancora assai giovane. Io non
fui presente, e non le dissi: Sorella mia,tu parti a Dio; ma
quando fui andato, trovai ch'ella era già passata, ed era bella,
come bianco fiore, a vedere" (F. Acri, Amore,
Dolore, Fede, Bologna
1908, p.1). Il volume continua con storie di questo tipo. Racconta, per
esempio, di una madre che perde l'uno dopo l'altro i suoi cinque figli
ed è sommersa dal dolore: "Quando le altre donne ne vanno fuori con i
loro figlioli, a festa, ella, vestita di oscuro vestimento e con il
volto aggravato di pianto,entra in una secreta stanza della sua casa,
dove serba le immagini dei figlioli morti e ciocche dei loro capelli, e
li guarda, baciali, chiamali per nome [...] ma non rispondono quelli.
Abbiate misericordia di lei, o Dio" (ivi,p.13). Così per la morte del
suo collega Gandino: "Lui esaminando i suoi scolari (io stavagli
accanto) prese un cotale stupore alle dita; e spiegava le carte a
stento. Finito l'esame, quando fu per levarsi su, barcollò"(ivi, p.135).
Nelle stesse pagine, e con lo stesso metodo della narrazione, l'Acri
spiega la sua opposizione agli hegeliani, in modo teoreticamente
semplice ma efficace. Apparentemente non sono concetti di alta
filosofia, e sembrano colorite ricognizioni di cronaca: "E le
contenzioni, parlo di Catanzaro, eran zuffe tra maestri e maestri, e
tra scolari e scolari; nelle scuole e nelle botteghe di caffè e per le
vie della città e nelle selve di castagni fuor la città; quelle zuffe
che or si fa tra le sette politiche, quelle si faceva allora tra le
sette filosofiche, ma più belle, più vive, più giovanili [...] E perché
era battaglia? Per la opposizione dei principii, e la opposizione dei
conseguenti". Il senso filosofico della narrazione viene svelato
gradualmente ed emerge lentamente nel corso del racconto di umane
esperienze. Si tratta di un modo nuovo di fare filosofia attraverso la
letteratura, come avverrà poi con Sartre e con molta prosa poetica
esistenzialista. Si tratta più precisamente di una dissoluzione della
filosofia nella letteratura, con un tono religioso profondo e sofferto
perché esperito personalmente e documentato con la propria
testimonianza in modo intensamente partecipato. Non è questo uno
svilimento della filosofia, ma un altro modo di interpretarla e di
scriverla: "La filosofia come la religione dell'Acri erano cose serie;
non esercizi professorali né esibizioni pseudo-razionali, ma umane
esperienze di dubbio e di fede, e colloqui evocatori d'umanità [...]
Alla
scuola di Socrate e di Platone l'Acri vedeva chiaro, e si rendeva ben
conto di quelle che sono le possibilità e le chiusure della filosofia,
e di quel che significa la fede" (E. Garin, Cronache di filosofia
italiana, I, Laterza, Bari 1975, p. 80).
Verso il 1867 l'Acri comincia a scrivere un Abbozzo di una teoria delle
idee che pubblica nel 1870 a Palermo, dove ancora insegna, e che
ripubblica nel 1907 a Bologna con il titolo Videmus in aenigmate;
e questa è l'unica sua opera scritta secondo la tradizione
speculativa, con la quale si propone di affrontare il problema
platonico delle idee e del loro rapporto, cioè quel problema che nel
linguaggio teoretico vien chiamato della dialettica. E lo risolve
ponendo il principio che le idee "molteplici" non esistono fuori della
loro relazione, e questa relazione è sostenuta dalla loro totalità. Per
lui,che rimane antihegeliano nel senso dell'affermazione di un
dualismo di pensiero e realtà, le idee esistono platonicamente in sé e
per sé, e sono reali, ed esiste l'attività del pensiero che le
pensa, e vi è tra le due sfere una reciprocità di azione e relazione.
Egli non può accettare la dialettica di Hegel, che ridurrebbe il
rapporto delle idee alla riflessione del pensiero con se stesso nel suo
interno svolgimento. La dialettica hegeliana sarebbe illusionistica
perché non farebbe vedere la realtà com'è, ma solo quella che viene
pensata. E noi vediamo invece in
aenigmate, non conosciamo chiaramente
la realtà, che non è creata da noi stessi, né tanto meno possiamo
conoscere Dio con assoluta certezza concettuale, ma solo
intuitivamente, nebulosamente ed imperfettamente.
Ha ragione Eugenio Garin quando dice che "alla scuola di Socrate e
Platone Acri vedeva chiaro", giacché là egli attinge la sua
speculazione filosofica e raggiunge la sua meta ontologica., e si
rende conto di quelle che sono le possibilità e le chiusure della
ragione, e della potenza della fede. Ritengo infatti che il pensatore
di Catanzaro trovi nell'opera platonica non solo la possibilità di
esercitare le sue capacità di traduttore, quando costruisce un
monumento imperituro alla scrittura artistica, ma anche di far
prevalere le sue forze ermeneutiche e speculative con una densa e
profonda rivisitazione del più elevato ed emancipato pensiero greco e
con una sua declinazione in senso spiritualistico-cristiano. Che è il
motivo vero per il quale egli intraprende la traduzione dei
Dialoghi e continua senza
interruzione a svolgere la fatica: "E
perché mi venne in mente di prender questa fatica, e perché l'ho presa,
smettendo, ripigliando e seguitando poi per un pezzo?" (F. Acri,
Prefazione a Platone, Dialoghi, cit., p. 48). E la sua
risposta è che
Platone assume un "abito di sequestramento", di "misticità" e
"d'ironia", "che ho in me" (ivi).Queste le ragioni che lo inducono a
cominciare il lavoro di "volgarizzamento" ed a portarlo a termine, sia
pure nei limiti stabiliti dalla sua prospettiva filosofica, nella quale
il Fedone, dedicato al figlio
Umberto nel 1884, fornisce il senso primo
e ultimo dell'esistenza umana: "Mio caro figliuolo, ho volgarizzato per
te il Fedone, dove si ragiona della vita futura; acciocché, quando
sarai giovine, e necessitato a usare a questa o quella università e a
udire maestri che, copertamente o palesemente, insegnano l'anima morta
col corpo; paragonando tu cotesti pagani nuovi con quelli grandi e
antichi, ti prenda non sdegno della loro disonestà, ma sì noia della
lor piccolezza" (F. Acri, in Platone, Dialoghi,
cit., p.127).
Di fronte al problema cruciale della vita e della morte, il piccolo
contrasto del 1875-76 con il famoso compaesano Francesco
Fiorentino assume un significato irrilevante, e tuttavia l'Acri lo
affronta con serietà ed ironia, come tutte le altre incombenze della
sua esistenza. Il contrasto tra i due, che sono vecchi compagni
di classe e di studi, scoppia per un banale incidente di percorso
intellettuale. Il Fiorentino, invitato da una rivista tedesca a dare
una rappresentazione panoramica del movimento filosofico italiano,
mette in primo piano Bertrando Spaventa e gli hegeliani di Napoli e
colloca in posizione subordinata Vito Fornari, il maestro dell'Acri, e
tutti gli altri spiritualisti. Di qui l'indignazione dell'Acri, che nel
dibattito dimostra di essere l'unico studioso davvero capace di
contrastare con buoni argomenti la scuola hegeliana di Spaventa ed il
positivismo invecchiato di Ardigò e dei suoi epigoni. E pubblica una
serie di articoli polemici che sono raccolti in due volumi
titolati Dialettica turbata e Dialettica serena. Non è cosa facile
in
epoca di materialismo trionfante dirne male e contrastarlo
filosoficamente,come fa con molto coraggio il nostro Acri, che si
impegna in aspre battaglie giornalistiche a difesa dell'intelligenza
critica e dei grandi valori dell'umanità, per i quali è disposto a
parlare e scrivere Contro la filosofia,
se questa si fa portatrice di
vuota sofistica e di materialismo volgare: "Piuttosto niente che
cotesta filosofia positiva laica, perocché ella annoia, attrista, mette
inquietudini, dubbi in coloro che la odono, e fa coloro che la ricevono
insopportabile la vita e sconfortata la morte". Per questo motivo
l'Acri si innamora di Platone, traducendolo in modo poetico e facendone
innamorare molte generazioni di studiosi, di lettori, e
Garin, studioso di formazione laica, non può fare a meno di
indicare la misura austera del suo platonismo e del suo cristianesimo e
la presenza nella storia della filosofia italiana di una voce imponente
ed importante.
Il Garin avrebbe potuto aggiungere tranquillamente che per l'Acri
l'esistenza umana si pone in conseguenza dell'Essere e che dall'Essere
dipende la vita, mentre i motivi antropologici e psicologici
vengono assorbiti dalla presenza "superiore" con una secca
dichiarazione di fede antipositivistica. Vi sono soltanto creature che
derivano dal Creatore, che sancisce il primato assoluto dell'Essere
sull'idea, sui fatti e sul mondo storico. Evidentemente si introduce
così un condizionamento ontologico della libertà e della soggettività
che fa tremare gli esistenti alienati.
prof. Salvatore Ragonesi
salvatoreragonesi@hotmail.com