Dopo giorni
passati a strologare sui contenuti del dialogo Renzi-Draghi a Città
della Pieve, ci ha pensato il presidente della Bce a dare qualche
indizio in più: «La Bce – ha detto nel suo intervento a Jackson Hole –
non può sostituirsi ai governi che devono fare le riforme». E la
«riforma decisamente prioritaria è quella del mercato del lavoro».
Non è dato sapere come il tema sia stato affrontato nel dettaglio
nell'incontro con Renzi, ma questo è il Draghi-pensiero. Ed è difficile
non condividerlo se si guarda alle differenti performance
sull'occupazione nei vari Paesi europei interessati dalla crisi. Con
gli Stati che hanno introdotto per tempo una maggiore flessibilità nel
proprio mercato del lavoro che fanno registrare la risposta migliore in
termini di tassi di disoccupazione.
Eppure è proprio sul lavoro che si registrano i ritardi maggiori del
riformismo di Renzi. Impostata a gennaio, in piene vacanze natalizie e
con al Governo ancora Enrico Letta, la delega sul Jobs act è ancora
lontana dal via libera parlamentare. Doveva essere approvata a luglio
dal Senato, poi la maggioranza ha deciso di farla slittare. Si
riprenderà a settembre, ma le divisioni nella maggioranza sull'articolo
18 (e non solo) rendono più che concreto il rischio di un ulteriore
rinvio. Si tratta, tra l'altro, di un disegno di legge delega, che
rinvia di fatto gran parte della riforma ai successivi decreti
delegati. E qui la lista d'attesa è lunga, come dimostra
l'aggiornamento della periodica inchiesta di Rating 24 sui
provvedimenti attuativi. Nuovi ritardi possono dunque assommarsi ai
vecchi, lasciando il surreale dibattito agostano sull'articolo 18 come
l'ennesima espressione dello sterile riformismo parolaio di cui si
alimenta la parte peggiore della politica italiana.
Il Jobs act è stato ed è l'atto originario del rifomismo renziano. E il
pressing delle imprese ha portato all'importante primo risultato della
revisione per decreto della legge Fornero sui contratti a termine. Ma
poi le priorità della maggioranza sono inopinatamente diventate altre.
Alla ripresa dei lavori parlamentari è bene che i fari tornino ad
accendersi sulla riforma delle riforme. Non perché lo dice Draghi. Ma
perché lo dicono i numeri dei Paesi che hanno riformato il loro mercato
del lavoro.
I numeri, certamente, della Germania del pacchetto Hartz che -
attraverso i mini-lavori, le politiche attive, la flessibilità degli
orari e la moderazione salariale - ha conosciuto il più basso tasso di
disoccupazione dalla riunificazione con il 5,5% nel 2012. Ma anche gli
esempi, ancor più significativi, di alcuni dei Paesi che più hanno
risentito della crisi, come l'Irlanda e la Spagna.
Dublino, dopo aver molto sofferto sul piano occupazionale la prima fase
della crisi, quella legata ai crack finanziari, ha risposto molto
meglio nella seconda (debiti sovrani) grazie all'approvazione di un
pacchetto di riforme del lavoro sotto il programma Ue-Fmi a partire dal
novembre 2010. Madrid, invece, con il suo rigido dualismo del mercato
del lavoro, ha duramente sofferto fino alla riforma del 2012, che ha
segnato un'inversione di tendenza e una riduzione dei disoccupati da 5
a 4,4 milioni.
I numeri certamente non dicono tutto. E si può discutere della qualità
dei posti di lavoro creati. Ma intanto quei numeri dicono con certezza
che chi ha riformato il proprio mercato del lavoro, rendendolo più
flessibile e adattabile ai cambiamenti di questi ultimi anni, ha
riportato i risultati migliori sul fronte occupazionale. Sarebbe un
paradosso che Renzi e la sua maggioranza non ne tenessero conto con una
decisa spinta riformista in questo senso.
Del lavoro fa parte anche la questione scuola. L'occupazione in Europa
tornerà a crescere solo se, come ha detto Draghi a Jackson Hole,
aumenterà «the skill intensity of the workforce». Più formazione,
dunque, più education. Renzi ha indicato proprio la riforma della
scuola come una sua grande priorità per il Consiglio dei ministri del
29 agosto: «Presenteremo - ha detto - una riforma complessiva che
intende andare in direzione dei ragazzi, delle famiglie e del personale
docente». Speriamo che vada soprattutto nella direzione degli studenti
e della loro capacità/possibilità di trovare/crearsi un lavoro. La
verifica sarà facile: se si darà finalmente all'insegnamento della
lingua inglese lo spazio che merita, sarà una buona riforma. Altrimenti
no. Tenere sui banchi di scuola i nostri ragazzi per 13 anni e non
garantirgli uno strumento oggi indispensabile per costruirsi un
percorso lavorativo è un delitto. Soprattutto per una sinistra che
vuole fare dell'eguaglianza delle opportunità la sua bandiera.
La conoscenza o meno delle lingue è il primo fattore di diseguaglianza,
perché si acquisisce proprio nella prima fase della competizione
sociale. Se si darà a tutti, non solo ai figli dei ricchi, la
possibilità di comunicare in inglese alla fine del percorso scolastico
si sarà fatta la più utile riforma della scuola che si possa fare. E
forse anche un piccolo pezzo di riforma del lavoro. A volte il
riformismo è più semplice di quello che si possa pensare. Sindacati
permettendo, ovviamente.
Fabrizio Forquet
Ilsole24ore.com