E' morto Piero
Sammataro. Era un grande attore e un uomo, avrebbe detto Sciascia, "di tenace concetto". Formatosi alla
“compagnia dei giovani” di Valli-Albani-De Lullo, era approdato al
Piccolo di Strehler e infine al Teatro Stabile di Catania.
Un abbraccio fraterno alla compagna Carmelita Celi, giornalista e
saggista. E qui di seguito, un ricordo: le parole che gli dedicai
quando festeggiammo i suoi cinquant’anni di carriera, e che torno a
dedicargli.
Piero al suo arrivo a Catania mi colpì certo per la sua bravura, ma
anche per via di più segrete e profonde rispondenze. Non ricordo bene
in che occasione siano scattate, forse era quel Servo di scena in cui
giganteggiava alla pari di Turi Ferro, ricordo solo che conoscerlo
significò per me riconoscerlo, identificarlo con un archetipo che
dominava il mio immaginario, le mie predilezioni, le mie frequentazioni
letterarie e cinematografiche.
Parentesi necessaria – e confessione forse inopportuna in un contesto
di operatori teatrali: amo il cinema forse più del teatro, perché il
cinema non delude mai, si può godere d’un capolavoro e ci si può
dilettare della più ovvia serialità, si può apprezzare Bergman ma pure
Casablanca o un western. Il teatro o ti esalta o ti delude, non tollera
il mero diletto o peggio la gastronomia commerciale.
Ma questo è solo il mio punto di vista. Lo invoco per dire che in Piero
riconobbi il mio eroe di cinefilo: il Philip Marlowe o il Rick Blaine
di Humphrey Bogart, l’uomo solo e scontroso, in guerra col mondo,
impersonato da Jean Gabin nei film di Marcel Carné, lo scettico viveur
di Louis Jouvet, il malinconico sorriso di Montgomery Clift…
Do un taglio agli esempi rubati al cinema, che a un eccellente attore
di teatro potrebbero apparire irriguardosi, ma che a me servono a
ricostruire la genesi di un’opera nella quale molto mi sono speso ed
esposto, tanto da averne quasi rimosso il ricordo a forza di routine
universitaria, almeno fin quando questo gradito invito mi ha
sollecitato a rievocarla.
Parlo di Casa La Gloria, quella pièce messa in scena nel ’92 dal Teatro
Stabile di Catania per la regia di Lamberto Puggelli (anche lui
recentemente scomparso) e che oggi, ripensandola, posso ben dire
ispirata da Piero, dall’idea che la sua maestrìa di signore della scena
teatrale potesse dare spessore di sentimenti e d’idee a quell’amato
archetipo bogartiano, nonché dalla disponibilità e dalla passione d’una
grande amica e grande attrice come Mariella Lo Giudice, che stasera
purtroppo non è con noi a festeggiare Piero.
Casa La Gloria era, nella mia fantasticheria drammaturgica, una casa di
riposo di vecchi scrittori e artisti siciliani, dove lo splendore e le
miserie della nostra grande tradizione culturale s’incancreniva in
bolsa enfasi, sordidi rancori, screzi cruenti. E appunto su un omicidio
avvenuto in quella casa l’ispettore Valenti, cioè un Piero Sammataro in
trench spiegazzato e dal volto segnato da lividi e carezze, era
chiamato ad indagare. Ricordi, Piero? Entravi in scena replicando alla
compiaciuta retorica dello scrittore Sinagra (“La villa degli
incanti!”), e lui, flemmatico e smagato: “Quelli, lasciamoli da parte.
Non lavoro al lunapark. Gli inganni, semmai: se ne può parlare. Me
n’intendo un po’; e mi danno da vivere”. E ne usciva sconfitto,
dichiarando morta l’innocenza. Forse è veramente morta l’innocenza.
Tranne nell’attore che sa darle voce.
prof. Antonio Di Grado