Raramente la
scuola italiana si occupa dei tanti bambini che nel nostro paese sono a
rischio di allontanamento dalle famiglie d’origine e di quelli
“segnalati dall’autorità giudiziaria”; l’istruzione pubblica tende,
molto spesso, ad ignorare questa spinosa questione, o, nel migliore dei
casi, a delegare la “soluzione” ad altri. E sono solamente le strutture
e gli istituti assistenziali privati ad occuparsi di questa fascia di
minori e delle loro famiglie.
Credo, invece, che sia necessario il pieno coinvolgimento delle
istituzioni pubbliche, della scuola innanzitutto, in grado di poter
prospettare delle risposte serie e risolutive, in sinergia con le forze
sociali e del volontariato. Una nuova idea di istruzione pubblica che
possa affrontare in maniera efficace il dramma dei molti “minori a
rischio”.
Anche perché, ne sono convinto, gli istituti non sono in grado di dare
risposte adeguate ai bisogni fondamentali del minore. Possono
“appagare” il loro bisogno di protezione, di nutrimento, di avere un
ambiente igienicamente adeguato che lo protegga dalle malattie. Ma
l’istituto non è in grado di dare risposte esaustive al bisogno
primario di un soggetto in età evolutiva: realizzare, in modo compiuto,
il regolare processo di identificazione personale e di socializzazione.
Nell’anonimo ambiente dell’istituto, infatti, non potranno facilmente
realizzarsi rapporti affettivi strutturanti e identitari. Nella
necessaria standardizzazione della vita della struttura, che deve
essere fortemente organizzata, non vi sarà sufficiente spazio per una
educazione alla libera creatività e alla capacità critica; nella
conoscenza solo di persone adulte, aventi ruoli professionali ben
definiti, mancherà al ragazzo la reale ed edificante esperienza di un
dialogo interpersonale; nella inevitabile monotonia di una vita
scandita di regole predeterminate, mancheranno stimoli a coltivare
interessi essenziali per una adeguata crescita. Oltre alle gravi
conseguenze sul piano individuale, che da soli meritano grande
considerazione, occorre mettere in evidenza i danni sociali che
derivano il ricorso all’istituto. Innanzitutto, il grave rischio di
deresponsabilizzare i parenti e la comunità di appartenenza. Il bisogno
assistenziale sorge all’interno della comunità e da esso va preso in
carico. L’inserimento in istituto contribuisce a dissolvere ogni
atteggiamento solidaristico. Nemmeno il volontariato, cui ricorrono in
alcuni casi gli istituti, sembra in grado di uscire da una logica di
beneficenza né di incidere seriamente nei processi di emarginazione che
si compiono in istituto. Inoltre, la permanenza negli istituti
comporta, molto spesso, che questi piccoli “cittadini” verranno
abbandonati e dimenticati. E poi, più si mandano i bambini in istituto,
più ne vengono mandati! Senza dimenticare che la logica del “ricovero”
comporta un continuo aumento delle spese per i già magri bilanci degli
Enti Locali. Infine, occorre ricordare che il ricovero è solamente un
intervento tampone, non innesca, cioè, alcun processo che in
prospettiva possa far diminuire le
richieste. Come uscire allora
dall’istituzionalizzazione a convitto e a semiconvitto? L’auspicio è
che si attivino degli strumenti adeguati per superare la logica
dell’istituto, peraltro, prevista dalla legislazione italiana. Ma per
avviare seriamente questo processo è necessario, innanzitutto, saper
“ascoltare” i minori e le loro famiglie. Chiudere gli istituti in modo
repentino e lasciare i bambini in balia di se stessi, in mezzo alle
strade delle nostre città, non si configura come una soluzione ottimale.
È necessario, innanzitutto, attivare iniziative conoscitive che possono
verificare la reale entità del fenomeno nelle sue diverse
caratterizzazioni. È importante progettare dei percorsi che prevedono
il rispetto dei diritti del minore e che non rispondono solo alle
esigenze ed alle logiche economiche. La predisposizione di reti di
aiuto, dal sostegno economico alla famiglia di origine, alle varie
strutture di day care. Nel contempo vanno rafforzate le soluzioni, se
necessarie, di un allontanamento temporaneo del minore dal proprio
contesto: affidamento diurno e temporaneo ad una famiglia o ad una
comunità di tipo familiare. Ma la vera risposta all’alternativa
all’istituto dei bambini “difficili”, provenienti da famiglie
multiproblematiche, secondo me, sta interamente nella piena
integrazione scolastica e sociale, nella prospettiva pedagogica di un
sistema formativo integrato, che superi le “ghettizzazioni”
dell’istituto e del tempo prolungato, “tipo semiconvitto”. Ma la scuola
pubblica deve essere in grado di attuare dei moduli educativi
“flessibili”, tanto in direzione verticali che orizzontale. In
direzione verticale, il sistema scolastico (materna, elementare, media
e superiore), deve saper “creare” una reale continuità attraverso
alcune cerniere metodologiche comuni: il modo di rapportarsi al
territorio, le forme di partecipazione-gestione, le dinamiche di
socializzazione (le classi “aperte”), i moduli di programmazione, le
aree disciplinari. In direzione orizzontale, il sistema scolastico
dovrà istituire con l’ambiente esterno una relazione di
“complementarietà” e di “interdipendenza” delle reciproche risorse
educative, tale da garantire alla comunità servizi e beni educativi e
culturali in forma permanente tutto l’anno.
Angelo
Battiato (inviato speciale a Brescia)
angelo.battiato@istruzione.it