EDITORIALE del 8 Marzo 2004
La liberté e l’égalité di Letizia Moratti
La Moratti non è la Falcucci, però riceve il trattamento standard: in Italia goliardia e politica garantiscono a ogni ministro della pubblica istruzione la trasformazione in una hate-figure, da disprezzare pubblicamente durante la stagione autunno-inverno del movimento, in quanto affossatore della scuola pubblica italiana, che invece andrebbe salvata perché come è noto tutto il mondo ce l’invidia. Al netto della demagogia (per informazioni sugli slogan più fasulli rivolgersi agli uffici della Cgil), la Moratti e chi le si oppone hanno invece entrambi un merito storico: quello di aver acceso finalmente una discussione pubblica sulla scuola. Prima o poi doveva accadere. Il grande compromesso all’italiana, che aveva consentito di far convivere dentro lo scheletro di una scuola originariamente gentiliana ma sostanzialmente concordataria, fascismo e liberalismo, clericalismo e stato etico, hegelismo e comunismo, e da ultimo perfino sessantottismo e ingraismo, ha ridotto le prestazioni dei nostri studenti a livelli che non reggono più alcuna competizione internazionale. Anche per la scuola, come per il debito pubblico e la corruzione politica, la caduta del muro di Berlino ha dunque suonato la campana.
Ci siamo arrivati tardi, ma la scelta è ristretta a due modelli: quello francese, in cui lo stato eroga l’istruzione, trasmette il sapere repubblicano da una generazione all’altra, centralizza e uniforma perfino l’architettura degli edifici scolastici, e – dunque – proibisce velo, croci e kippà; e quello anglosassone, nel quale lo stato fornisce strumenti e fissa regole a progetti pedagogici in concorrenza tra di loro, laici e confessionali, statali e non statali (il caso limite è Berkeley e Stanford, un’università pubblica e una privata a poche miglia l’una dall’altra che competono fino all’ultimo professore e all’ultima pubblicazione). La riforma Berlinguer sceglieva il primo modello, aggiornandolo ai tempi; la riforma Moratti sceglie il secondo. E, per quanto il dibattito su quale modello sia migliore è del tutto legittimo (meglio di un liceo francese non c’è nulla, meglio di un college americano nemmeno), anche noi preferiamo il secondo.
L’inclinazione della sinistra classica per il sistema statalista non ha però solo motivazioni ideologiche, o di difesa corporativa del vasto ceto scolastico (che pure c’è: siamo il paese col maggior numero di insegnanti e di bidelli per studente, senza apparenti benefici). Dietro si agita qualcosa di più complesso e nobile: un’idea dell’uguaglianza, contro la quale la polemica deve farsi accorta e rispettosa. Tale idea postula che più è uniforme l’istruzione impartita, più le differenze di classe e familiari degli studenti si ridurranno, annullando così il gap iniziale tra chi nasce con la camicia e chi no. Questa idea ha un difetto pratico: tende a impedire l’emergere delle eccellenze. Ma soprattutto non sembra essere la soluzione più funzionale e moderna al problema dell’uguaglianza.
In una società senza tv, senza internet, senza cd e dvd, in una società dove c’era ancora la fame in Puglia e la malaria nel Lazio, la scuola poteva assolvere a una funzione di riequilibrio sociale e culturale, un po’ come la leva. Ma oggi i nostri figli frequentano classi dove tutti i compagni hanno più o meno gli stessi stili di vita, lo stesso reddito, indossano le stesse scarpe e cantano le stesse canzoni (in inglese). Fornire a questi ragazzi uniformi un insegnamento uniforme, radicalizza l’unica diseguaglianza che ancora c’è tra loro: quella innata del talento, dell’indole, dell’attitudine. La scuola italiana non la cura, né se ne cura. Talenti e percorsi individuali o sono coltivati per fortuna (un buon maestro), o per censo (estati all’estero), o finiscono persi. Oggi sarebbe più egualitario dare a ogni studente italiano un istitutore privato che dare a tutti lo stesso insegnante pubblico. Il problema della sinistra moderna è capire che, più di un secolo dopo la sua nascita, la via all’uguaglianza passa attraverso la libertà. Esiste, sì, una cosa chiamata società; ma è fatta di individui. Più differenza oggi è più uguaglianza.
Lette così, certe polemiche sul tempo pieno assumono un’altra luce: che male c’è se diventa più un doposcuola facoltativo che un prolungamento dell’orario scolastico, fatto di scelte della famiglia e del ragazzo? In prospettiva, una scuola siffatta avrebbe bisogno di meno piante organiche, e questo spiega la resistenza sindacale. Potrebbe risultare troppo debole nel fronteggiare i rischi del multiculturalismo. Potrebbe chiedere alle famiglie più di quando esse siano disposte a dare. Potrebbe anche non funzionare. Però di questo si tratta. Se la Moratti ci mette tutti di fronte a temi di questa portata, vuol dire che è un buon ministro.