Il dialetto non è più un delitto
di Giuseppe Antonelli
Da sempre – ed è ovvio – le posizioni assunte dagli scrittori in fatto di lingua sono legate a percezioni soggettive più che a riflessioni su dati obiettivi. Sugli aspetti sociali della questione linguistica prevale di solito una visione di natura letteraria ed estetica. Anche in tempi non troppo lontani da noi, fu questo il limite – e al tempo stesso la forza – dell’allarme lanciato da Pasolini contro quello che gli sembrava l’implacabile affermarsi di un freddo italiano tecnocratico. Un grido di dolore in cui la nostalgia per il mondo rurale si confondeva con la reazione a una narrativa italiana post-neorealista sempre più distante dal dialetto e sempre più indirizzata verso l’italiano medio (secondo una tendenza che si sarebbe invertita solo di recente).
Oggi la situazione sociolinguistica è sensibilmente cambiata: il dialetto propriamente detto è notevolmente regredito, sia sotto il profilo qualitativo (sempre più abbondanti infiltrazioni di italianismi) sia sotto quello quantitativo (circa il 44% della popolazione dichiara di parlare soltanto o prevalentemente italiano in famiglia, quasi il 73% di parlare abitualmente italiano con gli estranei; dati ISTAT 2000), e la lingua della conversazione coincide grosso modo con l’italiano regionale, prodotto dall’incontro fra l’italiano standard e i vari dialetti (in una miscela di proporzioni diverse a seconda del livello sociale dei parlanti e delle situazioni comunicative). La diffusione dell’italofonia sta però portando verso un recupero dei dialetti in funzione espressiva: non più marca d’inferiorità socioculturale, ma segnale di familiarità, affettività, ironia nell’uso di persone che dominano bene la norma dell’italiano. Nella stessa indagine ISTAT, quasi un terzo degli italiani (poco meno del 33%) dichiarava di esprimersi sia in italiano sia in dialetto parlando in famiglia o tra amici: nel 1995 erano rispettivamente il 28 e il 32%; nel 1988 addirittura il 25 e il 27%. «Un motto di molti parlanti nell’Italia alle soglie del terzo Millennio sembra essere “ora che sappiamo parlare italiano, possiamo anche (ri)parlare dialetto”» (Gaetano Berruto).
Questa neodialettalità – strettamente legata ad altre varietà linguistiche che esulano dallo standard, come ad esempio i linguaggi giovanili – è stata usata negli anni Novanta in funzione antagonista quale alternativa alla lingua nazionale intesa come lingua del potere. Un’esperienza che, dispiegatasi appieno in àmbito musicale (i piemontesi Mau Mau, i pugliesi Sud sound system, i napoletani Almamegretta), ha interessato anche la letteratura. Per la generazione di narratori a cui appartengono l’abruzzese Silvia Ballestra, il romano Marco Lanzòl, il veneziano Marco Franzoso, il dialetto ha il sapore della novità. Il suo impiego nella lingua autoriale rappresenta ai loro occhi una conquista, che consente di rompere i tabù linguistici imposti dalla scuola e di dare un’anima all’asettico italiano degli adulti. È una sorta di dialetto per dispetto, al quale si attribuisce una forte vitalità e una valenza trasgressiva.
Al polo opposto ci sono invece gli scrittori che considerano il dialetto come qualcosa di passato o come un residuo del passato. Ad accomunare questi usi veterodialettali è l’idea di una funzione documentaria della lingua narrativa. Questa si realizza nel primo caso in un recupero folkloristico del dialetto (ad esempio l’antico lombardo della Pariani, fitto di proverbi e filastrocche); nel secondo in una dialettalità avvertita ancora come una mancanza, associata ad ambienti e personaggi degradati (un dialetto per difetto) e circoscritta in massima parte fra le virgolette del dialogo (caso limite: Lara Cardella, che in Volevo i pantaloni traduceva a piè di pagina tutte le battute dialettali). Proprio questo mantenersi del dialetto estraneo e distante dalla lingua della narrazione, questo presentarsi a macchie, denuncia la sua matrice attardata e quasi ottocentesca (evidente – per fare un nome più nuovo – nella scrittura naïf del napoletano Massimo Cacciapuoti). Più adeguata a dar voce al presente appare una lingua che contamini anche la diegesi con forme ibride, nelle quali il regionalismo o il dialettismo si mescolino all’italiano popolare e agli stereotipi dei massmedia, dando vita a risultati linguisticamente “sporchi” come quelli del migliore Aldo Nove.
Altra soluzione è quella di chi, ponendosi al di fuori della vexatissima quaestio della verisimiglianza, costruisce una particolare atmosfera linguistica nella quale il dialetto – imitato, evocato o ricreato – diventa la voce di un mondo a parte, quello del racconto. Si può parlare di dialetto per idioletto nel caso in cui la lingua a base regionale o dialettale diventi l’unica in cui è scritto il romanzo, come l’emiliano nelle prove narrative di Francesco Guccini. Ma anche nel caso in cui il dialetto sia adottato come ingrediente di un personale (e più marcatamente artificiale) impasto linguistico.
Anche quando viene considerato un caro estinto, infatti, il dialetto può continuare ad agire come importante lievito linguistico e stilistico. A differenza del Museo d’ombre in cui Gesualdo Bufalino racchiude i suoi reperti di archeologia dialettale (nel resto della sua opera i sicilianismi sono pochi e isolati da corsivi, virgolette, glosse), il “museo della memoria” di Vincenzo Consolo – come lui stesso lo ha definito in un’intervista – è un attivo laboratorio, nel quale il siciliano (vecchio e nuovo) è messo a reagire con molte altre componenti linguistiche, in una complessa ricerca espressiva. Bufalino più vicino a Pirandello, dunque, e Consolo più simile a D’Arrigo: rimanendo all’interno della blasonata linea dei narratori siciliani, non si può non menzionare il bestseller Andrea Camilleri. Anche nella sua scrittura il dialetto è strumento dell’inventio, ma – secondo una movenza tradizionale e marginalizzante – è virato verso effetti ludici. Un gioco che si fa particolarmente scoperto nel Birraio di Preston, in cui al siciliano si aggiungono le macchiette del romanesco, del fiorentino, del lombardo e del piemontese. È un ritorno alla comicità del bozzetto regionale, alla caratterizzazione locale come molla del riso: è il dialetto per diletto
*Giuseppe Antonelli, docente di Linguistica italiana all’Università degli studi di Cassino, è uno dei quattro autori della mostra La dolce lingua. L'italiano nella storia, nell'arte, nella musica, curata da Luca Serianni. Si è occupato della lingua dei romanzi di Pietro Chiari e Antonio Piazza, degli aspetti linguistici della commedia italiana del Cinquecento, della lingua di Aurelio Bertola viaggiatore, della sintassi della lingua nella narrativa italiana del secondo Novecento. Con il saggio Tipologia linguistica del genere epistolare nel primo Ottocento. Sondaggi sulle lettere familiari di mittenti cólti (Roma, Edizioni dell'Ateneo), ha vinto l’edizione 2005 del prestigioso premio Moretti (sezione Giovani studiosi). Nel 2003 ha partecipato al premio Strega con il suo primo romanzo Trenità. Ovvero elogio dei tempi morti (Pequod).