Una riflessione sulla religiosità del grande autore fiorentino: «Coi miei versi penso d’avere alimentato il senso della speranza, contro la letteratura negativa» Luzi: io ottimista, cioè poeta cristiano
Nei confronti del religioso come dimensione dell’anima, io ho avutoevidentemente delle modificazioni continue, fermo restando che lareligiosità è secondo me un attributo che uno riceve dalla nascita,anche se poi non lo manifesta pienamente; e un altro forse non riceve.
Questa premessa mi sembra un po’ brutale, ma la disposizioneall’interpretazione dell’esistente e dell’assente in una circoscrittaverità o al contrario in una verità infinita, dipende da unavocazione, da un attributo che è proprio dell’anima. In questo sensonon credo nell’acquisizione, ma credo al riconoscimento: uno èreligioso oppure non lo è, può diventarlo solo perché riconoscequalcosa che prima aveva ignorato ma che subiaceva alla sua vitamentale.
Questo naturalmente se si parla di religiosità e non dicontenuto dogmatico della religione; solo in questa accezione ilreligioso si può considerare una misura che viene con la nascita. Mirendo conto che è un discorso un po’ atroce, non so se è proprioquesto il discorso della grazia (in fondo può essere anche unadisgrazia invece che una grazia), ma rimane il fatto che per alcuniil reale è ragion prima e sufficiente, il senso della vita loritrovano nell’immanenza, nella presenza delle cose, nel loro rapportodi causa-effetto, per cui esse servono e poi non servono più, esistonoe non esistono più, e questo è tutto. Mentre altri non riescono acollocare il senso delle cose nelle cose stesse, il senso degliavvenimenti negli avvenimenti medesimi, non hanno questa dimensioneche io chiamo areligiosa.(Da Avvenire) a cura di M.Allo
Non esiste un poeta di così lungo corso e sempre in ascolto come è Luzi il cui itinerario poetico (oltre sessantacinque anni) non ha mai comportato una pigra amministrazione delle proprie ricchezze, ma si è sempre prodigalmente speso, e tuttora si spende, in diverse avventure dell'immaginazione con un esito di molteplicità che non ha eguali nel nostro secolo. Diversamente da altri importanti poeti della sua generazione come Bertolucci, Caproni e Sereni, Luzi è stato pressoché‚ subito riconosciuto: la sua era un'«immagine esemplare» (secondo una famosa definizione di Bo) già nel 1940 -"Avvento notturno" segnava allora il culmine dell'ermetismo-, quando il poeta non ancora ventiseienne viveva in quella capitale della letteratura italiana che era la Firenze degli anni Trenta, la città allora di Montale, Gadda, Palazzeschi, Vittorini, Gatto, Landolfi, Bilenchi, Pratolini e altri. Il precoce riconoscimento comportò anche un'etichetta -Luzi poeta ermetico, anzi il poeta ermetico per antonomasia- che, mai respinta dal poeta fedele alla propria giovinezza, si è sempre più mostrata limitante e inadeguata via via che Luzi andava pubblicando nuovi volumi, anche se sopravvive pigramente nella vulgata scolastica, dove a poesie come "Avorio" tocca in sorte la documentazione, anch'essa esemplare, di un'esperienza estrema e acrobatica dell'analogismo simbolista italiano. L'accantonamento sbrigativo dell'ermetismo nel dopoguerra accreditò altrettanto presto l'immagine di un Luzi epigono di una stagione scaduta, senza tener conto di quanto il poeta andava nel frattempo elaborando; ciò ha comportato una sottovalutazione analoga e opposta a quella di Caproni, questi confinato in un'inaccettabile minorità, l'altro chiuso in una notorietà che si credeva non più produttiva. Così negli anni Cinquanta i neorealisti e negli anni Sessanta i novissimi valutavano la poesia di Luzi come il fondo di una pagina da voltare, secondo la perfida espressione di Sanguineti, mentre al contrario l'elaborazione della poetica dell'autore fiorentino andava preparando una svolta radicale, tale da restituirlo -in barba ai suoi troppo impazienti obliteratori- come uno dei principali interlocutori dei più giovani poeti dagli anni Settanta ad oggi. A ripensare questa lunghissima parabola, che vede Luzi dialogare all'inizio con Montale e Betocchi e in tempi recenti con Viviani e De Angelis, si rimane sorpresi da una vivacità creativa sempre risorgente, fedele a un suo codice, ma continuamente mobile nelle sue realizzazioni e tale da costituire davvero un gran viaggio di immaginazione e conoscenza, promesso d'altronde fin dall'avvio della sua ricerca espressiva.
[...]
E' stato Giovanni Giudici, una ventina d'anni fa, a rimarcare la «coerenza» di Luzi che «proprio liberandosi della sua cultura e con essa in continuo antagonismo, è riuscito a conquistare una rara pienezza». E' un'affermazione che rende sinteticamente l'esito del vasto procedere dell'opera luziana: la fedeltà ad alcuni elementi primi (evidenti già in "La barca") si intreccia a un continuo e vasto rinnovamento, che vede quel principio metamorfico, suo tema prediletto, sistematicamente presente nella dinamica dei testi; ne deriva un procedere molto teso per continuità e discontinuità, una dinamica nella quale possiamo inoltre osservare il singolare fenomeno di una poesia che, caratterizzata da una sua prima identità negli anni ermetici di "Avvento notturno", con una nozione molto precisa di "cultura", successivamente tende ad allontanarsene, come osserva Giudici, per ritrovare il "discorso naturale". La vastità dell'opera luziana fa sì che egli sia un poeta plurimo come pochi e che sia emblematico di stagioni tra loro diverse: il primo Luzi (fino agli anni Cinquanta) è significativo rappresentante di una lirica esistenziale (soprattutto con Sereni, suo prediletto interlocutore in poesia) di derivazione ben più montaliana di quanto l'appariscente orfismo di alcune sue punte ermetiche faccia supporre. Egli risalta in tale ambito per la tensione etica alla non disperazione (pur se intimamente attraversata), al superamento del «male di vivere» per «il giusto della vita», in virtù di una consonanza cristiana (ma anche leopardiana) dell'essere «ciascuno e tutti insieme» a vivere. Proprio qui si apre la svolta: il punto di vista non è più tra l'io e la realtà, non c'è più giudizio (o pregiudizio): l'io come tutti e tutto è nel flusso, è attraversato dalla vita, come è attraversato dalla parola: il poeta assume per sé‚ il ruolo umile e superbo di scriba, in un rinnovamento degli istituti del dire poetico e delle prospettive fondamentale per il tardo Novecento, affine, per quanto diversissimo, all'altro prediletto compagno di poesia, Giorgio Caproni. E' la stagione poetica che, dopo la svolta di "Nel magma", inizia a pieno regime con "Su fondamenti invisibili" e fa la grandezza del Luzi di tardo Novecento, poeta della «pienezza» (per tornare all'espressione di Giudici), rispetto alla spettralità di Caproni. E va riconosciuto il coraggio di una poesia che, per quanto allarmata dal nefando della storia, dice un raro (o forse unico) "sì" a una vita naturale, che per altri sembra una chiave perduta, nonostante sussistano pur sempre i segnali di essa.
Se negli anni giovanili la poesia di Luzi, sigla di una convulsa interiorità, si costituiva momentaneo e precario blocco formale, successivamente i testi si configurano come progressivi e aperti, perché‚ orientati verso la nascita intesa come «non un luogo, non un tempo determinato, ma il sorgivo stesso, l'aperto» (Cacciari), mentre «la parola, sulla pagina, si muove pià rapida, forse più inquieta» chiamata a seguire «i percorsi, gli scatti, il respiro del pensiero» (Raboni). Luzi, per quanto nei modi così diversificati che abbiamo descritto, è sempre stato un poeta dell'estremismo; può sembrare paradossale dire questo di un poeta da sempre bersagliato dagli avanguardismi, ma esistono diversi tipi di estremismo, anche laddove può aver vigore la tradizione e la misura (e d'altronde Manzoni non era, a suo modo, un estremista, in letteratura?). L'estremismo nasce dal fatto che per Luzi la parola della poesia, come ogni parola umana e ogni segno, non può che misurarsi con un'altra parola, cioè la Rivelazione: laddove Caproni sconta la propria «ateologia», Luzi non dubita della «travolgente nascita»; il dubbio è invece sulle possibilità umane di ricezione del messaggio, da cui l'ardua difficoltà di tale captazione. A questa meta mira il perenne statuto di viaggio (diversamente centrale anche in Caproni) della sua poesia da "La barca" a "Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini" e oltre, nelle poesie in elaborazione.
Questo viaggio implica una tensione particolare del testo che si può agevolmente definire come vocazione al sublime, motore del dinamismo e del taglio linguistico di tipo "alto": inizialmente la difficoltà di Luzi era trovare la via al sublime dentro il "bello", che tanto ha sostanziato il suo primo tempo, mentre poi è risultato più agevole trovare l'"alto" incastonato nel "basso" delle sue scelte prosastico-poematiche. Anche la vocazione al sublime è un tratto raro, proprio per la sua diversificata costanza, rispetto alla scissione di tempo tragico e comico in Montale, ma è scelta condivisa nel tardo Novecento, a suo modo, sempre dal fraterno Caproni. Ma il sublime di Caproni si alimenta, come ha notato Surdich, di una dislocazione metaforica di un codice quanto mai standardizzato (la «segnaletica stradale» cara al poeta livornese), mentre il sublime di Luzi vive di una multipla tradizione letteraria, riportata dal suo epilogo a una nuova sorgente. E questa esperienza rinnovata di sublime non è certo stata senza significato per i poeti più giovani come Viviani e De Angelis.
Ma a chi somiglia Luzi? Alla fine di questo periplo risalta il fatto che un poeta nato da una genealogia tanto "novecentesca" alla svolta di secolo appaia così lontano da quella. Ma chi somiglia a Luzi? Chi è vicino al suo intreccio di naturalità e poesia-pensiero? Francamente, non sovvengono molti nomi. Uno, però, si impone sempre di più, quello di un musicista, di Olivier Messiaen, che nelle sue libere modalità partecipa della comune convinzione di essere testimoni transitori di un qualcosa che continuamente avviene. E al lettore che gusterà le "Frasi nella luce nascente" non resta che consigliare di accompagnarle con l'ascolto degli "Éclairs sur l'Au-Delà"...
Premesso questo, io credo, in fondo, di essere religioso, non ho mai ritenuto che la ragione del mondo fosse il mondo stesso, la ragione del presente fosse il presente di per sé, ma il suo transito, il suo passaggio da un prima a un dopo, cioè il finito non mi ha mai soddisfatto e l’ho sempre visto come speculare e paradossale polarità, antitetica e però corrispondente dell’infinito.
Questa dimensione non mi è mai venuta meno, ha però assunto vari aspetti, dal simbolismo istintivo dei primi anni alla consapevolezza tematica, che poi è diventata un tema a sé, un tema in quanto tale. Potrei dire che ho sempre considerato il religioso come un habitus mentale. (...) Devo dire che io non sono mai stato particolarmente devoto, neanche allora, e neanche mia madre, a cui dovevo questa trasmissione, era quella che si diceva una donna di chiesa, ma aveva certe virtù che oggi mancano, aveva una sua pratica della carità. È un aspetto, questo, di cui – oggi che il cattolicesimo è divenuto agonistico – non si è più parlato; ci saranno state altre cose di cui parlare, ma questa, la carità, è troppo importante per dimenticarla, rappresenta il fondamento, la teoria stessa del cristianesimo. In seguito io mi sono sempre più allontanato dalla religione rituale, dalla Chiesa, regnante e officiante, e per molto tempo il religioso rituale mi è quasi sembrato inconciliabile con un vero senso di ricerca interiore, e sebbene non abbia mai abbandonato certe fonti del cristianesimo, le ho vissute allo stato di dibattito, di messa a punto, di caccia interminabile e mai soddisfatta della vita interiore. Diventò allora prevalente l’adesione morale e intellettuale alla linea agostiniana, a tutta la grande tradizione, che da Pascal e Racine arriva con Mauriac ai giorni no- stri, ed io a questa avevo attinto molto nel senso speculativo, ma anche contestativo.
Il mio confronto continuo, questo rapporto che non raggiunge mai una stabilità, nasce, per molta parte, da lì e, pur nella sua evoluzione, il religioso ha sempre rappresentato per me il fondamento sia dell’esprimersi (cioè dell’usare la parola) sia del rapporto fra la parola e l’evento. Ho sempre visto le rispondenze, le implicazioni religiose, e particolarmente cristiane, che il linguaggio poteva assumere anche quando mi sono impegnato apparentemente in cose altre dal religioso, come, al tempo dell’ermetismo, nel rinnovamento del linguaggio. E poi il simbolismo. Il simbolismo che poi a sua volta mi riportava ad un nuovo afflusso di religiosità. Non si può vedere il mondo come simbolo senza il presupposto del religioso. (...) Tuttavia, anche nelle mie adesioni agli aspetti più intensi di un cattolicesimo agostiniano, non mi lasciava un senso di dolore e di angustia, soprattutto quando entravo col pensiero nell’aspetto problematico della giustificazione. La conflittualità tra lo spirito e il mondo, presente nella tradizione agostiniana, – e di cui mi sono alimentato e in cui mi sono anche riconosciuto – non riuscivo pienamente a condividerla. Mi sono sentito aiutato dalla lettura di Pascal, di Racine, da quella tradizione analitica dell’esame di coscienza, ma ho sempre anche avvertito una personale insoddisfazione. Ho sentito che esiste all’interno di questo una specie di deiezione predicata che io non ho mai avuto, ed è riemersa allora tutta questa consensualità tra creatura e mondo che sentivo doveva ricostituirsi.
(...) Esiste nella poesia italiana, anche in quella recente, una specie di blocco che ha portato a privilegiare il senso di delusione e di negatività. Penso di avere piuttosto alimentato il senso non dico della speranza, ma dell’eventualità, della possibilità che le cose «accadano»: le cose non sono tutte accadute. Ho praticato una strada aperta, anche se non sicura, che mi permetteva di superare quelle angustie, e in questo senso l’incontro con le opere di Teilhard de Chardin è stato confortante: mi sono ritrovato nella disposizione teilhardiana ad associare il destino dell’anima individuale alle sorti del mondo, all’evoluzione o alla creazione progressiva del mondo.
Ma mentre andavo avanti per conto mio su queste riflessioni anche il pensiero cattolico stava camminando, superando le stesse angustie che avvertivo io; ne ha fatta di strada la teologia, affermandosi nella novità dei suoi ripensamenti, fino al Vaticano II ove appare evidente una riconciliazione, quasi uno sposalizio, tra uomo e storia. In questa stagione in cui il religioso ha fatto questa conversione teologica verso l’uomo, e in questo sentimento di un destino generale alla salvezza totale, confesso che ho sentito colmarsi quella specie di distanza che mi separava dall’istituzione.
(...) Ricordo che una volta è venuto da me don Barsotti, che ancora non conoscevo. Aveva sentito nelle mie poesie i valori primari del religioso che a lui interessavano moltissimo. Si parlò di Montale – che ufficialmente è stato un laico, ma ad una attenta lettura si scopre che se c’è poeta la cui poesia non avrebbe significato senza il religioso questi è proprio Montale. Nella sua poesia persino il topo d’avorio, persino il feticcio, sono chiamati a risolvere un inconoscibile, un dato che la razionalità non risolverebbe. Dunque anche in lui il religioso implicito mi pare molto più esteso che quello esplicito: va aggiunto però che negli ultimi libri si invocano, si attendono, «angeli» e apparizioni salvifiche.
Il mondo moderno è molto più ricco di religioso implicito – vorrei dire orfico – di quanto lo sia di religioso confessato e confessionale. Tutta la percezione del vivente poggia per noi – voglio dire per chi è religioso (o semplicemente per chi è moderno?) – su fondamenti che sono invisibili, e che tuttavia sono certezza. Il non veduto è assai più vasto e più profondo del pur sterminato visibile, secondo la nostra stessa esperienza; e lì avvertiamo e cerchiamo i nostri fondamenti.
«Non sono mai stato molto devoto, neanche mia madre era una donna di chiesa, ma aveva virtù che ora mancano. Oggi la fede è agonistica e della carità non si parla più»