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Umanistiche: IL SIGNIFICATO DEL DOLORE NELLE RELIGIONI MONOTEISTE

Rassegna stampa

Intelligenza e tecnica: per un nuovo accordo epocale

di Gian Franco Lami

Il significato del dolore nelle religioni monoteiste

Il pensatore di origine ebraica sottolinea che, tra le principali tematiche dell’antichità, si ritrovano quelle relative al significato da dare al dolore, e alla possibilità di combatterlo. In tal senso, occorre anzitutto domandarsi se è lecito lenire il dolore, curarlo, o meglio, se abbiamo il diritto di procurarne la eliminazione.

Nella cultura dell’Ebreo, ove non è traccia di obbligo alla sofferenza, si risponde che del dolore – qualunque forma esso prenda – è meglio fare a meno. Chiaramente, tale risposta influisce sulle scelte da compiersi in campo medico e nel campo di quella ricerca, che tanta suscettibilità ha sollevato ultimamente tra i princìpi dell’etica. Questo avviene sempre, quando si toccano i nervi scoperti dell’umanità, con particolare riguardo, per i nostri tempi, alla “procreazione assistita” (e alla “conta” degli embrioni), alle pratiche terapeutiche del dolore (mediante l’uso di medicamenti anestetici) e al prolungamento “accanito” della vita (fino all’alimentazione indotta). In quest’ultimo caso, non si vuole dire che la vita non sia riconosciuta come bene supremo, ma solo che non può rientrare tra gli obblighi dei medici prolungare artificialmente (e oltre misura) la vita del paziente, così, riducendola alla dimensione forzosamente “meccanica”.

Ma, si badi bene!, parlare dell’eutanasia, come di un’ipotesi praticabile, non significa rifiutare d’un colpo ogni artificiosità della sopravvivenza, solo perché il dolore può diventare uno sgradito, ma inevitabile accessorio, collaterale al prolungamento della vita: significa invece ritenere primaria e prevalente la sedazione del dolore, data l’incompatibilità tra dignità del paziente e accanimento terapeutico. Certo, poiché il confine tra sedazione e accanimento non è sempre evidente, c’è il rischio di demandarne la definizione a qualche fattore esterno alla competenza medica, per esempio, al potere legislativo, o giudiziario. In questo caso, le ripercussioni politiche e sociali sono facilmente immaginabili.

Nel mondo ebraico, che a differenza di quello islamico manca di una autorità centrale, cui affidare tali decisioni, convivono al riguardo diverse opinioni, tutte non vincolanti. Comunque, mantenere un individuo in stato “vegetativo” (ammesso che se ne possa parlare in questi termini), somministrandogli alimenti liquidi e solidi, non può dirsi un accanimento, bensì un’ invasività, non traumatica – e tanto meno dolorosa. Naturalmente, permane il discorso sulla generica battaglia al dolore. Anche in questo caso, perciò, si deve distinguere tra uno stato realmente vegetativo, in cui ogni sensibilità è assente (!), e altre circostanze di sopravvivenza clinica, in cui prevalga l’aspetto doloroso sulla probabilità di guarigione.

Tutto ciò influisce sulla disciplina di quello che si definisce, con termine colloquiale, come “testamento biologico”, ove una persona in piena coscienza decide per quando non sarà più cosciente. Tale testamento è ammesso dalla cultura americana, ma non da quella italiana, timorosa dell’eutanasia e dei molti modi in cui essa può celarsi. Invece, l’ebraismo nega al singolo la possibilità di esprimere una volontà contraria alle regole: gli consente solo di chiedere un’interruzione delle cure, ma lo induce ad affidarsi, in qualche modo, al parere di esperti, tramite una delega, anch’essa ben regolamentata. Resta poi da superare l’ultimo ostacolo, quello della coscienza del medico, o di chi altro venga destinato alla pratica interruttiva. Ma questo è un altro discorso.

Secondo il mio punto di vista, una visione così determinata si colloca pienamente nella tradizione occidentale, in quanto conforme a certi valori “naturali”, quindi irrinunciabili: 1) La conservazione della specie (umana), e perciò, il contrasto di qualsiasi politica omicida, o suicida, o abortiva; 2) La ricerca della felicità, quindi, la cura e la sedazione del dolore, pur nella coraggiosa sopportazione delle sofferenze. Vi si colgono le difficoltà della coscienza collettiva a prendere confidenza con taluni esperimenti, coi tentativi di mettere mano – tramite la scienza e la tecnica – a soluzioni che si sradicano dalla natura di tutti gli esseri viventi. Tali tentativi – come quello di “decidere” a forza di sentenze i casi di cui si parla – mostrano i limiti del “sacro”, che circonda la società umana e ancora suscita il sentimento di ripugnanza per il gesto “empio”. Deciderà dunque il Giudice? o il Medico? E chi tornerà a vestire l’abito del boja? di chi materialmente varcherà la soglia dell’orrido per dare la morte, facendo cessare, per esempio, la “pervasività” alimentare?

Il Musulmano guarda al tema del dolore alla luce sia dei precetti islamici, sia della propria esperienza conoscitiva. Egli lo definisce come gli suggerisce la scienza medica: “esperienza spiacevole sensitiva e psichica”; e tenta di opporre al “male” la ricerca, a fini curativi, delle sue cause, siano esse occasionali oppure croniche. Questo significa che il costume islamico, pur senza distogliere l’attenzione dagli esiti dolorosi della malattia, meritevoli di essere combattuti ed espiantati nelle loro manifestazioni, ha più a mente le loro cause, contro cui tende a dirigere lo sforzo, non solo scientifico, ma spirituale. Il primo obiettivo non esclude il secondo, e viceversa. Resta la considerazione di una doppia via, che potremmo chiamare “tradizionale” e “convenzionale”: la prima, risultante dalla ricerca delle fonti prime del benessere, quindi, coincidente nel tentativo di cancellarne le deviazioni, come malattie dell’anima; la seconda, risultante dalla diagnosi dei sintomi (ultimi), quindi, consistente nelle formule terapeutiche di “pronto intervento”. Dunque, tutti i dolori devono ricevere un trattamento adeguato, per ridurre la sofferenza del paziente. E ciò pure nel caso dei malati terminali, i cui eventuali squilibri richiedono appositi rimedi di carattere psicologico. Del resto, la cultura islamica non considera affatto il male come qualcosa cui rassegnarsi, ma, poiché l’uomo non è riducibile alla mera dimensione corporale, afferma che la cura debba applicarsi anzitutto sul piano spirituale. Per superare il male occorre una ricerca interiore (una “pazienza”), cui si collega la condotta, improntata alla fermezza, che contraddistingue l’uomo timorato di dio.

Tale uomo, dunque, è chiamato ad affrontare il dolore, sia con l’arma della “preghiera”, per ottenere la misericordia divina, sia con l’arma della solidarietà altrui nei confronti dei sofferenti, nella diffusa convinzione che chiunque salvi un membro della specie umana salva con ciò l’intera umanità. Il problema della “salvezza” sembra perciò ricondursi nel filone unico dell’azione, che “salva” dal dolore, dal male fisico, il quale non è mai disgiunto dal male spirituale. Il rimedio non può dunque risolversi nell’intervento episodico ed esterno. Così come non può surrogarsi al libero convincimento del paziente. Ma, soprattutto, nulla potrà essere fatto, senza che il risultato venga distratto dalla via che salva-in-dio.

Secondo il mio modo d’intendere, nell’Islam, sacrificare una vita, senza persuasione e intimo convincimento è peccato, poiché è peccato farlo, senza essere sinceramente convinti di servire Dio. Qui, consiste l’ostacolo più ostinato a una facile amministrazione dell’eutanasia. Per questo, la tradizione islamica insegna che si deve sopportare il dolore, senza desiderare una morte alternativa, ché la decisione spetta a Dio. E questo vale per tutti, anche per i nemici peggiori.

Robotica e bionica: un’apertura ideale alla tecno-etica

Nel quadro di un’amministrazione della vita, che potrebbe essere provocatoriamente riassunto nella parola d’ordine “nessuno tocchi Abele!”, non è affatto necessario puntualizzare come la pensa un generico “cristiano”, o un ancora più generico “uomo occidentale”. Bisogna piuttosto chiedersi, in coscienza, come la pensiamo noi. Voglio dire, non tanto, “come la pensiamo”, quanto, come agiremmo, nel caso in cui fossimo messi di fronte alla necessità di decidere per altri, o per noi stessi, in occasioni di emergenza – destinate a divenire nel tempo non più così sporadiche, dal momento che la tecnica è intervenuta in nostro ajuto.

Il cardiochirurgo Barnard è morto da poco, ma il suo nome era già dimenticato. La scienza dei trapianti ha fatto passi giganteschi, pur inseguendo progetti diversi, come quello dell’impiego di organi umani, o animali; come quello dell’impiego di cellule staminali, per la ricostituzione di strutture (anche) organiche lese, o difettose; come quello dell’intelligenza artificiale, che dalle applicazioni industriali sta spostandosi alla realizzazione di interventi di microchirurgia, all’assistenza dei disabili, e ancora più in là, nel sussidio di patologie temporanee e non.

Questi sentieri progettuali fanno nascere problemi di ordine morale, etico, religioso, quindi si ripercuotono nel campo delle diverse deontologie, sul piano sociale, sul piano politico. Non è possibile non avvertirne la presenza problematica nel quotidiano, e la nostra sensibilità, la nostra ragione e i nostri sentimenti ne sono scossi e turbati, senza che si riesca a veder chiaro nella ridda delle soluzioni, a ciascuna delle quali non è facile negare almeno una parte di assenso. E dico “assenso”, perché parlare di un nostro consenso a opere dell’ingegno così complesse e ricche d’implicazioni richiederebbe, da parte di chiunque, una conoscenza delle cose, delle circostanze, in cui tali opere dell’ingegno si realizzano (e delle circostanze, che le stesse opere contribuiscono a realizzare), di cui in effetti siamo all’oscuro – chi per un verso, chi per l’altro. O forse non è così? Forse riteniamo di poter dire indifferentemente la nostra opinione, in senso autorevole, nei diversi settori che la scienza sta esplorando, con risultati straordinari?

Ora, per evitare di farla più difficile di quello che è, mi limiterei a osservare la situazione della robotica e della bionica, applicate all’uomo, onde cercare di mettere allo scoperto qualche punto interrogativo sugli effetti di queste stesse applicazioni.

Non intendo dirigere il mio ragionamento sul versante dei dispositivi che consentono di localizzare, o d’identificare l’individuo in lontananza, grazie al loro impianto stabile o meccanico nel corpo della persona. Mi sembra, tuttavia, ovvio che, anche in merito a questo genere di risoluzioni ci sarebbe da discutere, specialmente in risposta polemica alle tante chiacchiere che si fanno sulla “privacy”, sui consensi al “trattamento dei dati personali”, e così via.

Mi preme invece partire da quei dispositivi, che forniscono stimolo o inibizione, in maniera automatica, direttamente alle zone cerebrali, da cui si sono scoperti originare taluni eventi patologici: si pensi alla possibilità di ridurre talune manifestazioni del Parkinson, ma lo stesso vale per certe malattie croniche, come il diabete o l’epilessia.

Se, fin qui, l’impiego tecnologico, più o meno apprezzabile, ci risulta tuttavia comprensibile, pensiamo per un momento a quale tipo di complicazioni può dare luogo, per esempio, la individuazione di responsabilità personali, in presenza di concorrente “azione” robotica (nel mondo del lavoro), o bionica (nel caso d’impianto di protesi artificiali che sono in grado di potenziare la funzionalità dell’ospite impiantato).

Tutto ha inizio con la cibernetica, che da più di cinquant’anni studia i metodi automatici di apprendimento e i sistemi capaci di organizzarsi e riprodursi artificialmente. Si è passati perciò dalla utilizzazione dell’informatica al fine della costruzione di macchine calcolatrici, alla costruzione di robots umanoidi (da utilizzarsi come modelli umani). Tale rapporto, sempre più stretto, tra macchina e uomo, impone una riflessione sul confine tra “natura” e “artificio”, tra naturalità e artificiosità, del pensare e dell’agire.

Può sembrare evidente che la “tecnologia” segni oggi la dimensione di un rinnovato universo, cui l’altrettanto rinnovato cittadino-Mondo sta adeguando la sua dimensione culturale, fino a ipotizzare un piano evolutivo di perfetta convivenza, ovvero, di adattamento reciproco della rinnovata teoria e della vecchia pratica, nei rispettivi ruoli di penetrazione e di resistenza. La cosa sta in realtà accadendo, già ai nostri giorni, senza grandi meraviglie né sofferenze: l’intelligenza artificiale, del resto, abbisogna di poco, solo di un complesso di dati che copra la serie di comportamenti umani, cui attingere per farle sviluppare ragionamenti correnti. Eppure le cose non stanno propriamente così, e molti dei progetti iniziali sono stati abbandonati proprio per un difetto d’impostazione, troppo semplicistica, troppo approssimata. In effetti, l’idea originaria di mettere in campo un doppione meccanico dell’uomo presenta grande dose d’ingenuità, accanto alle difficoltà di realizzazione. In ogni caso, si sarebbe sempre trattato di simulare percorsi umani già sperimentati, e mai di dare “vita” a processi mentali autonomi.

La robotica è in grado di attivare intelligenze che “comprendono” immagini visive, o linguaggi umani, è in grado di “percepire” movimenti e “comunicare” in maniera reattiva, elaborando notizie ed emettendo responsi (diagnosi). Ma la funzione robotica è sempre prodotto elaborato dall’ingegno dell’uomo, pur essendo altra dall’uomo, di questi costituendo sempre una risultanza, senza poterne mai eguagliare la perfezione negli aspetti intimamente collaborativi tra spiritualità e corporalità.

La bionica è invece attuazione di un processo integrato, ove l’intelligenza artificiale si esprime in funzionalità specifiche, dov’esse (specifiche funzionalità) non sono più nell’uomo, o ci sono a un livello ridotto.

La robotica non si presenta mai come “invasiva”, la bionica lo è sempre (o quasi): farebbe eccezione il caso di elettrodi non impiantati (c.d. elettrodi di superficie), cui è demandato di registrare segnali EEG (provenienti da elettroencefalogramma), per movimentare un robot o una tastiera virtuale di scrittura, a distanza.

Sono, questi, soltanto alcuni dei casi d’interazione uomo/macchina. Ma, ancor prima dei successi della robotica e della bionica, si era imposto il problema etico di tale uso, che la tecnologia rende quotidianamente più visibile, nelle sue più diverse applicazioni. La tecno-etica tratta di questo. Essa compendia il soggetto umano e lo strumento tecnico in una rinnovata teleologia, in una nuova prospettiva progettuale dei fini mondani, per altro già abbondantemente confluita nella mentalità acquisita dall’umanità intera. Il problema è tuttavia antichissimo, e affonda le sue radici nella filosofia socratico-platonico-aristotelica, ove techne veniva bilanciata, nel proprio apporto all’intelligenza dell’uomo, con altre virtù (prudenza, sapienza, ricerca scientifica e intuito intellettivo), che si facevano carico di regolarne gli eccessi sperimentali, in qualche modo.

Questo significa che va configurandosi l’opportunità di “programmare” i prodotti dell’intelligenza artificiale, con una sorta di “freno inibitore” incorporato? con una garanzia comportamentale, applicata in serie?

Un codice etico adattato alla tecnologia potrebbe (forse) intendersi per la robotica. Ma, come lo si potrebbe intendere, relativamente alla bionica? È sufficiente l’indicazione primaria, per altro già presente nelle attuali realizzazioni, di un “miglioramento delle condizioni di vita” umane, a frenarne le deviazioni?

È evidente che, come c’insegna l’esperienza automobilistica, per ogni modello costruito “in serie”, diversi modelli vengono costruiti “fuori serie”. E fin qui, si potrebbe trovare una giustificazione, come suggerisce il mercato delle automobili, dovendo ogni fabbricante fare conto sulla disponibilità economica personale dell’acquirente, sul diverso potere d’acquisto di ciascuno. La legge della domanda e dell’offerta non può essere compressa oltre un certo standard. Ma, come non ammettere che la differenza incolmabile andrà a disporsi al livello dell’accaparramento di tali soluzioni artificiali, e creerà l’incolmabile distacco tra il semplice fruitore del beneficio tecnologico, e chi saprà farsi padrone della tecnica, predisposto – direi – naturalmente a costituire un nuovo potentato, con altri appartenenti alla sua stessa classe: la classe tecnocratica?

I problemi, a ben vedere, sono molti e dislocati su piani diversi.Non credo sia possibile tacere, in conclusione di questo breve intervento, e solo a mo’ d’esempio, sulla redistribuzione delle responsabilità, almeno in parte nuove, che provengono dall’impiego delle “intelligenze artificiali”. Nel campo interattivo, di macchine e uomini, come si distribuiscono meriti e colpe derivanti dai risultati dell’operato congiunto?

Si aprono difficoltà senza fine. Si pensi soltanto ai problemi connessi all’impiego di certi macchinari, con riferimento alle normative di sicurezza sui luoghi di lavoro (D. lgsl. 626/1994). Chi è in grado di controllare il corretto funzionamento di certa robotica? chi risponde del grado di conoscenze predisposte e presenti nella sua “intelligenza”? e chi controlla il livello di accortezza dei “controllori”?

Analogo, è il discorso, che può essere fatto nel campo della bionica.

L’applicazione delle protesi artificiali, finalizzate all’acquisizione di funzionalità non appartenenti al soggetto impiantato, quando – a quale limite applicativo – si considereranno non più pertinenti alla funzione surrogata?

Non ci obbligherà forse l’adozione di tale tecnica innovativa a rivedere il senso stesso, che ha saputo definire finora la persona umana, con le più ovvie ripercussioni non già e non tanto nel settore medico, biologico, giuridico, o scientifico, in genere, ma bensì in quello della morale, più o meno condivisa, quindi delle c.d. religioni, che possono costituire il punto di massima estensione del “senso comune”?

La conclusione, alla quale il nostro discorso vuole approdare, mette in evidenza le incongrue risposte alle innumerevoli e importanti questioni incontrate nella generica panoramica offerta alla coscienza individuale. Che la nostra consapevolezza sia inesistente, o minimamente pronta ad affrontare decisioni di tanta gravità, può essere preoccupante, ma non è scandaloso. Le preoccupazioni certamente aumentano, quando ci rendiamo conto che medici, biologi, giuristi, sacerdoti, trattano temi del tipo qui accennato, facendo conto sulle sole logiche di cui la loro rispettiva scienza li munisce, senza avvertire la necessità di cautelarsi nei riguardi delle “scienze” altrui. E a questo punto, il nostro messaggio non può che ispirarsi a rispetto e cautela, ma deve insistere sulla misura, che un giusto comportamento raggiunge se non crea sconcerto e disapprovazione nella gente comune.









Postato il Mercoledì, 28 gennaio 2009 ore 00:05:00 CET di Salvina Torrisi
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