Gli studenti hanno
diritto a consumare a scuola un pasto portato da casa. Il principio di
diritto è stato affermato ieri dai giudici del Tribunale di Torino che,
con una ordinanza, hanno respinto, giudicandolo infondato, un reclamo
presentato dal ministero dell’Istruzione.
La storia
La vicenda prende spunto da un’azione giudiziaria di una cinquantina di
famiglie di alunni della scuola primaria iscritti al “tempo pieno” che,
protestando contro l’aumento del costo dei pasti e sulla qualità del
cibo, hanno chiesto di poter scegliere, per i propri ragazzi, tra il
servizio di refezione offerto dal comune e la consumazione, a scuola,
durante l’orario del pranzo, di alimenti (per lo più panini) preparati
a casa.
La sentenza
Sulla questione si erano già pronunciati a giugno i giudici torinesi,
dando ragione alle famiglie ricorrenti. Le decisioni sono state
“appellate” dal Miur, e ieri è arrivata la prima pronuncia di merito,
che ha confermato la decisione iniziale ribadendo che il diritto allo
studio, tutelato dalla Costituzione, obbligatorio e gratuito nel
livello di istruzione inferiore per almeno otto anni, non possa essere
negato nè subordinato all’adesione a un servizio a pagamento, come
quello di refezione (motivazioni, quindi, che aprirebbero la strada a
chiunque lo desideri di poter rifiutare il servizio mensa).
Le reazioni
L’ordinanza di ieri ha invitato poi la scuola a stabilire regole di
convivenza visto l’utilizzo dello stesso refettorio che accoglie,
durante la pausa pranzo, ragazzi che utilizzano il servizio di
refezione e quelli che consumano il “pasto domestico”. Dal Miur hanno
annunciato ricorso in Cassazione; e il dg dell’Usr Piemonte, Fabrizio
Manca, ha reso noto che la settimana prossima (probabilmente il 20
settembre) ci sarà un incontro con comune, Regione e presidi per
ragionare sulle modalità di esecuzione dell’ordinanza: «Da parte mia –
ha spiegato il dg dell’Usr Piemonte – le priorità sono due: la
sicurezza dei bambini ed evitare che per il personale scolastico si
crei un aggravio di responsabilità».
Claudio Tucci
Il Sole 24 Ore