Si era
nell'aprile del millenovecentosettanta. Avevo lasciato a Trento per
qualche giorno i miei amici di via San Bernardino ed i miei allievi
dell'ITI Buonarroti per recarmi a Padova. Un paio di mesi dopo essermi
laureato, avendo saputo che sarei andato da lì a non molto ad insegnare
a Trento, avevo indirizzato la mia domanda per sostenere gli esami di
concorso (allora era praticamente tale) per conseguire l'abilitazione
all'insegnamento di FSPP (filosofia, storia, pedagogia, psicologia) al
Provveditore agli studi di Padova. Arrivato nel pomeriggio del giorno
prima dell'esame scritto trovai subito una pensione al centro, non
molto distante dall'Istituto femminile sede dell'esame (allora le
scuole tecnico-professionali andavano per sesso). La mia prima ovvia
preoccupazione fu quella di provare il percorso dalla pensione alla
scuola, per non avere sorprese l'indomani sui tempi di percorrenza
necessari per essere presente prima delle ore otto nella sede d'esame.
Il percorso era agevole, anche se bisognava percorrere tre o quattro
brevi tratti di strade diverse.
Grande fu però il mio disappunto all'alba dell'indomani nel constatare
che una fitta nebbia, nonostante o forse proprio per il clima
primaverile, invadeva la città, rendendo inutile così la passeggiata
del giorno prima. Arrivai comunque al "femminile" Istituto, dove una
folla urlante di avvocati (scoprii da lì a poco la loro professione) e
di neolaureati come me si accalcava davanti ai cancelli chiusi.
All'apertura di quelli si scatenò una corsa piuttosto convulsa verso
varie direzioni all'interno della scuola, finché ci ritrovammo tutti in
un grande salone a contenderci inspiegabilmente le sedie che stavano
davanti a dei tavolinetti. Dopo parecchi minuti di attesa, finalmente
vennero distribuite della grandi buste con dentro dei fogli bianchi e
delle altre buste più piccole con dentro dei cartoncini che avrebbero
assicurato l'assoluto anonimato del compito che ci accingevamo a
svolgere.
Un signore molto sussiegoso, inviato dal Provveditore, ci impose
silenzio e ci lesse delle asserzioni a carattere filosofico alcune,
storico e pedagogico altre, che avremmo dovuto sviluppare (scegliendone
una) in un testo adeguatamente lungo sul quale essere giudicati. Ma il
silenzio imposto durò poco, anzi pochissimo, perché si levò alto un
vocio convulso del quale dopo un poco riuscii a cogliere il contenuto.
Era più o meno questo: "noi siamo già degli insegnanti, molti di noi
avvocati, con lunga esperienza professionale e didattica, non
accettiamo che alcuno ci dia lezioni di cultura e preparazione
scolastica, ma visto che per continuare a lavorare ci richiedete un
titolo di abilitazione, lo vogliamo tutti e subito, grazie alla nostra
esperienza lavorativa a seguito della laurea conseguita".
Il signore che parlava a nome del Provveditore, dopo avere
disperatamente ottenuto di nuovo un poco di silenzio, spiegò con un
certo affanno e (mi è sembrato) una certa timidezza se non paura che
quanto veniva richiesto non era assolutamente possibile. Cosa per me
ovvia, visto che ancora non era operante per la scuola quello che poco
dopo divenne l'ope legis. La controproposta della massa fu molto
confusa, ma dopo essersi rapidamente formato un piccolo comitato
rivoluzionario guidato da uno che assunse la funzione di leader, la
richiesta fu più precisa: visto che un compito va comunque fatto
aboliamo l'anonimato della prova e presentiamo un elaborato unico.
A seguito di un ulteriore diniego del funzionario la folla divenne
piuttosto minacciosa al punto da indurre il suddetto funzionario,
presto affiancato da altre poche persone ad intavolare una trattativa.
Si rintracciò un telefono a gettoni e da lì sia il funzionario che il
rappresentante dei candidati (termine a quel punto piuttosto
improrprio) parlarono con il Provveditore agli studi. Questi declinò
ogni responsabilità e li rimandò al Ministero che di fatto qualcuno
riuscì a contattare telefonicamente. Ma dal Ministero negarono la loro
competenza e rimandarono la palla al Provveditore locale. Nel frattempo
era trascorsa buona parte della mattinata, mentre io in un angolo
cercavo di prendere in considerazione i temi proposti, senza potere
svolgerne alcuno in quel caos. Nel contempo sbirciando fuori dalle
finestre mi resi conto che sotto in strada si stavano raccogliendo
parecchie forze di polizia, il che mi creò subito una certa
preoccupazione (conoscevo già dai fatti di Trento, in quei giorni,
l'efficienza rude della polizia padovana).
Per farla breve ed evitare di sforzare la mia labile mente con ricordi
così lontani, le lunghe trattative si conclusero verso mezzogiorno con
la decisione (unilaterale) di formare dei gruppi di studio che
avrebbero sviluppato i vari temi proposti. Pur cogliendo molto bene i
rischi della evidente unilateralità della soluzione, mi offersi,
contattando in qualche modo il leader, di sviluppare il tema che mi era
più familiare, l'unico di cui ricordo qualcosa, che riguardava la
filosofia della scienza ai suoi albori, con qualche riferimento
implicito a Wittgenstein, Carnap, Morris e altri, argomenti che avevo
ben approfondito nell'ultimo periodo universitario. Ma anche
quell'improprio e precario accordo fu mandato a monte dalla folla
vociante che tornò alla posizione iniziale della abilitazione per
tutti, senza se e senza ma, come si direbbe oggi, comunque ope legis
come si sarebbe detto da lì a poco.
Mentre la confusione più assoluta regnava nel salone, i funzionari
aumentavano di numero, fuori sulla strada si accalcavano poliziotti,
parenti dei candidati vocianti e qualche giornalista, mi accorsi che
qualcuno furtivamente sgattoiolava fuori dalla grande sala. Trovandomi
ancora in mano tutto l'occorrente per scrivere qualcosa sul tema
proposto, mi allontanai anch'io alla ricerca di un angolo tranquillo.
Fu così che essendomi accorto che si era formata una specie di ronda
per impedire che qualcuno svolgesse il compito, mentre qualche altro
(sicuramente funzionario) cercava di favorire il rimpiattino dei pochi,
mi ritrovai in uno sgabuzzino pieno di scope ed altri arnesi di
pulizia, fortunatamente fornito di luce elettrica, dove vicino ad una
suorina che lì mi aveva preceduto, svolsi il mio compito appoggiandomi
alla meno peggio sulle gambe piegate mentre sedevo non ricordo più su
cosa.
Finito rapidamente di scrivere sei sette pagine di protocollo sul tema
della filosofia della scienza (il mio standard abituale), consegnai
l'occorrente ad uno dei funzionari che si faceva presente nei luoghi di
noi fuggiaschi ed uscii fuori dall'Istituto, stanco ed affamato, quando
era già il crepuscolo. Fuori mi accolse una piccola folla di persone in
evidente stato di apprensione per quanto succedeva dentro. Avendoli
rassicurati che non era successo nulla di grave e che le liti erano
esclusivamente verbali, attraversai il gruppo di parenti e di
poliziotti indenne, glissando la stampa e tornai rapidamente alla mia
pensione e da lì, dopo un breve pasto, a Trento.
Seppi tempo dopo, da una comunicazione scritta piuttosto formale, che
la commissione d'esame era stata sostituita e che ad una certa data
avrei potuto sostenere il colloquio e tenere la mia lezione davanti
alla nuova commissione.
Fu quello che feci, dopo avere ovviamente letto il saggio scritto dal
nuovo presidente di commissione (un certo Laurenti) sulla filosofia
antica.
Quando dopo l'esame mi recai al bar vicino per un caffé ritrovai i
commissari, che mi erano sembrati tanto austeri e alquanto sospettosi,
mentre si rifocillavano. Salutai garbatamente ed una gentile signora
del gruppo mi si accostò seccata dicendomi: ma lei non ci ha nenache
ringraziato perché le abbiamo dato il massimo". Mi scusai dicendo che
non sapevo nemmeno che il voto che mi avevano assegnato era quello
massimo consentito. Così risalutai e me ne tornai a casa da abilitato.
Ciò non impedì che continuassi per un altro anno ad insegnare lettere
nei tecnici da supplente, dopo avere rifiutato l'incarico per
insegnarle alla scuola media.
Roberto Laudani
robertolaudani@simail.it