"Chi
crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà
condannato". Perché Marco attribuisce a Gesù la pretesa che gli si
debba credere, pena la dannazione? Un uomo che esercita il suo
discernimento, fa onore a Dio per il dono che Dio gli ha fatto
creandolo "a propria immagine", cioè provvisto di ragione. Se
quest'uomo non si ritiene convinto dagli argomenti che i teologi
chiamano di credibilità e di "credendità", neanche a Dio può essere
permesso di condannarlo. Forse perché consapevole di questa difficoltà,
S. Tommaso afferma che l'adesione alla fede scaturisce da un atto di
volontà. Ma in questo "volontarismo" tomistico va vista una implicita
ammissione di insufficienza degli argomenti razionali.
Se questi
fossero davvero cogenti, non avrebbe alcun senso invocare un atto di
volontà; nessuno ha mai deciso di credere al teorema di Pitagora con un
atto di volontà. Dunque, perché il non-ancora-credente possa credere,
occorre che egli decida di voler credere. Deve volere credere. Deve
riuscire cioé in un'impresa che è di sovraumana difficoltà, se gli
apostoli poterono dubitare perfino mentre assistevano alla ascensione
del Risorto. Il credente dirà che l'adesione alla fede è meritoria
proprio perché impegna la volontà, mentre non darebbe luogo a "meriti"
se gli argomenti cui si è accennato sopra dovessero portare di
necessità a credere, ma il non-credente vedrà solo contorcimenti
logico-psicologici nel salto volontaristico che fa di un uomo che
dubita un uomo che crede.
Ma al tempo di Gesù sarebbe stato possibile
sottoporre il concetto di "fede" a una analisi come quella che qui
stiamo tentando ? Certamente no, come dimostra il fatto che una tale
analisi non è stata fatta. Perché non è stata fatta, se è così
elementare ? Non è stata fatta perché questa analisi è figlia della
razionalità di matrice greca, in nome della quale il dubbio è stato
scoperto - in Grecia e non in Palestina - come indispensabile
propulsore di ogni ricerca. Questa razionalità spinse Socrate a
chiedersi cosa fosse il bene, il bello, il giusto e a scoprire
l'ignoranza propria e di tutti.
Questa razionalità spinse Talete a
postulare l'esistenza di un elemento unificatore, dal quale tutta la
realtà avesse avuto origine, e a tentarne l'identificazione rinunciando
alle comode scorciatoie offerte dalla religione e dal mito. Questa
razionalità spinse Senofane a irridere alle divinità tradizionali, e
Euclide a costruire tutto l'edificio della Geometria a partire da
pochissimi assiomi, a mezzo di inattacabili argomenti logici; perfino
un enunciato affatto intuitivo come "In ogni triangolo, ogni lato è
minore della somma degli altri due" viene dimostrato da Euclide con il
rigore che usa per ogni altro teorema. Noi europei affondiamo le nostre
radici nella Grecia, siamo figli della Grecia molto piu' che della
Palestina. Niente delle specificità dello spirito greco così brevemente
delineate è presente nello spirito ebraico. I vasi d'argento offerti da
Salomone al tempio erano larghi un braccio e avevano un giro di tre
braccia.
Arrovellarsi a determinare le cifre decimali del numero pi
greco o investigarne la natura (razionale ? irrazionale ?) è cosa alla
quale nessun ebreo, in epoca biblica, si è mai dedicato. Se vogliamo
sperare di comprendere come viveva la sua fede un pio ebreo di duemila
anni fa, dobbiamo spogliarci di un abito mentale che ci siamo fatti a
partire da Talete, che abbiamo arricchito con la sapienza giuridica dei
romani e che si e' ulteriormente espresso con il metodo sperimentale di
Galileo, il razionalismo di Cartesio, l'empirismo di Locke,
l'Illuminismo di Voltaire, d'Alembert e Montesqieu, e il criticismo
kantiano.
Tutta la nostra storia - ciò che Bertrand Russell chiama "la saggezza
dell'Occidente" - ha portato la nostra spiritualità a divergere da
quella ebraica (c'è stata la Scolastica, ma il tentativo di
cristianizzare Aristotetele ha generato solo un ibrido indigeribile).
Cosa è dunque il "credere" nell'ambito della spiritualità ebraica? Non
è certamente il risultato di una elaborazione intellettuale ma è
piuttosto una dichiarazione di fedeltà. La superficialità con la quale
Matteo estrapola da Isaia (7,14) la celebre "profezia" della nascita
dell'Emmanuel da una vergine (anche prescindendo dall'errata
interpretazione del termine ebraico reso come "vergine") dimostra la
poca considerazione nella quale l'argomentare logico era tenuto presso
la comunità ebraica. Solo chi crede già puo' leggere nei tanti versetti
che Matteo cita dalla Torah, dai Salmi e dai Profeti delle "profezie"
riferibili a Gesù.
Che poi Pascal ponga le profezie dell'Antico
Testamento tra gli argomenti che supportano la credibilità del
cristianesimo dimostra solo quanto Pascal fosse contraddittorio.
Dunque, al tempo di Gesù la fede non è intesa come adesione a una
"verità" a cui giungere attraverso una disamina delle ragioni pro e
contro, ma come adesione a un programma e - ancora di più - come
fedeltà a un uomo; d'altro canto, il non-credere non e' considerato
l'esito legittimo di una legittima ponderazione degli argomenti ma è
equiparato a un tracotante, blasfemo rifiuto opposto alla divinità.
Una societa culturalmente primitiva, qual è quella ebraica del primo
secolo, non riuscendo infatti a concepire la possibilita' di
determinarsi in ossequio alla sola propria coscienza, vede due sole
posizioni che l'uomo puo' assumere riguardo a Dio: o con Dio o contro
Dio. La durezza del Vangelo riguardo a chi non crede si comprende
quindi alla luce dell'equiparazione di chi non crede a chi e' contro
Dio.
Se qualcosa di corretto c'è in questo tentativo di capire cosa si
intendesse per "fede" al tempo di Gesù, la conclusione è che questo
concetto di fede non può essere fatto proprio dall'uomo contemporaneo.
Secoli di travaglio hanno fatto emergere la dignità della terza
posizione, quella di chi non trova argomenti decisivi per credere.
Bultmann ha cercato di rendere accettabile la fede all'uomo moderno
depurando le Scritture di tutto ciò che va attribuito allo spirito del
tempo in cui furono composte e enucleandone il "kèrigma". E' la
"demitizzazione".
La minaccia di dannazione che Dio rivolge a chi non crede appartiene a
quel repertorio di sovrastrutture mitologiche con le quali gli uomini
hanno rivestito e talora hanno obliterato l'immagine di Dio.
Come le braccia e le gambe che la Scrittura attribuisce a Dio, anche le
minacce a chi non crede vanno espunte dunque dall'immagine adulta di
Dio che gli uomini del nostro secolo hanno pieno diritto di cercare -
ed eventualmente di rifiutare - con piena e serena libertà di
coscienza.
Maurizio Ternullo