Non sono uomo di
tanta o di molta fede. E'una fede, quella mia, che ho vissuto per
molto tempo tra allontanamento e improvvisi e brevi ritorni, tra
ricerca individuale e fastidio per le pratiche, i riti religiosi e i
tanti dogmi, la cui accettazione è stata spesso accompagnata da
dubbi e perplessità. Se si potesse dire, una fede eccentrica, non
dogmatica, poco ecclesiale.
Il distacco dalle pratiche religiose è incominciato a
maturare nel momento in cui è esploso il bisogno di
libertà, di crescita e di autonomia e credo che lo stesso sia capitato
a molti altri giovani educati e cresciuti in una famiglia
praticante. Erano gli anni dell'adolescenza in cui si perde o non ha
più alcun valore l'orizzonte di verità, entro cui si era creduto
di regolare la vita, per il sovraccarico di vincoli, di regole,
di divieti, di intimidazioni morali, di rinunce di cui non si
riesce ad un certo punto a capire il senso.
E' stata la fase della vita in cui ho sperimentato e
vissuto un forte contrasto tra precedenti convinzioni,
precedenti comportamenti e spinta a crearsi un proprio e convincente
decalogo morale. E per il bisogno di libertà, che non sembrava più
tutelato e difeso, si sono allentati i rapporti, sono scomparse
progressivamente le frequentazioni religiose.
Non è stato per me un sereno viaggio in un nuovo mare aperto; della
religione in cui ero stato cresciuto ed educato ho conservato sempre un
grande rispetto e talvolta ho sentito una labile nostagia; la
rispettavo in quelli che la praticavano con tiepidezza, la rispettavo
in chi la praticava con zelo e generosità. Tra questi i miei familiari,
la cui vita è stata intemerata e profondamente ispirata dalle
convinzioni religiose. Benvoluti nel quartiere, dove esercitavano un
piccolo commercio, per amabilità, serietà, correttezza, disponibilità
all'aiuto, rispetto delle persone.
A me, anche quando ho riempito le giornate con una travolgente passione
politica, è rimasto sempre un desiderio, sottile e inconfessato,
di trascendenza, di spiritualità. Sono stato, forse anche per questo,
marginale e diverso nei mondi che ho praticato, oltre che per una
congenita attitudine a stare sempre in partibus infidelium ovunque mi
sia trovato.
L'esperienza politica diede ulteriori motivazioni al distacco dalla
religione; nel fuoco delle lotte sociali e politiche per me era
evidente l'uso strumentale che politici e anche uomini di chiesa (non
tutti per la verità) facevano dell'appartenenza religiosa; alle ragioni
teoriche e psicologiche si aggiungevano così quelle
pratiche e queste finivano per prevalere.
Anche quella stagione finì e finì in modo traumatico; sentii dentro di
me il vuoto, la perdita di senso e di orientamento, aggravati dal fatto
che molte persone, ritenute amiche e sodali si allontanavano. Oltre la
militanza politica non c'era altro, anche se ho creduto che
qualcosa ci dovesse essere tra le persone che avevano condiviso gomito
a gomito un tratto della propria vita.
Dell'attività politica, che aveva orientato le scelte quotidiane,
restava la passione, l'inclinazione, la forma mentis; per me,
però, non c'erano più le condizioni per intraprendere
un nuovo percorso. Sono rimasto alla finestra. Molto ho conservato
della lunga e intensa esperienza pubblica: il senso delle istituzioni,
la percezione sociale degli accadimenti, l'immedesimazione con gli
assetati di giustizia e di libertà; il primato del bene pubblico sugli
interessi individuali.
Mi è rimasto attaccato alla pelle il forte senso morale che mi guidava
nei miei comportamenti e nelle mie scelte. Ho deciso di
restare da apolide nella parte sociale in cui la sorte mi
aveva collocato; una parte che non ho mai abbandonato, anche se non ne
ho accettato più le proposte politiche, che pretendevano e pretendono
di rappresentarla e di guidarla.
Per rimettermi dallo stordimento ripresi i rapporti con gli amici di un
tempo, quei pochi che erano ancora in giro. Tra questi uno era
diventato sacerdote. E così con moltissima discrezione, in punta di
piedi e con la paura di nuovi fallimenti ricominciai a pensare la
vita sub specie religionis. La famiglia, che mi ero formato nel
frattempo, e l'impegno a scuola nel difficile lavoro di direzione
scolastica hanno dato alla vita il contenuto che si era perso.
Credo che il mondo senza Dio sia incomprensibile e ingovernabile,
ma che lo sia anche se se ne sta Solo nell'alto dei cieli. La
grandezza del Dio che si fa uomo è proprio nel tendere la mano, nella
decisione di condividere il nostro destino. Il mistero
dell'Incarnazione mi seduce e mi convince, ma so che per molti non è e
non può essere un principio di spiegazione.
Per governare il mondo ci siamo creati tante immagini particolari di
Dio e nel tempo presente tanti modi di negarLo e di cancellarLo.
Il gesto di liberazione da Dio non ha dato buoni frutti, come anche le
sue molteplici e diverse imposizioni.
Proprio oggi che il volto di Dio è così lontano dalla nostra
quotidianità, ma non si riesce a dare un senso al nostro abitare la
terra, forse è necessario richiamarLo in servizio per quello che è
stato sempre, anche se non ce l'hanno fatto intendere e ce l'hanno
nascosto: come Dio della com-Passione e della Miseri-cordia.
Proprio il Dio che sta predicando Papa Francesco. Un Dio che non
ha bisogno di grandi apparati e di sontuose cerimonie, ma che parla
alle sofferenze di ognuno di noi. Un Dio che non ha bisogno di
un'impalcatura di divieti, di costrizioni, di rigori superflui. Sono
tanti e incomprensibili i pesi che sono stati messi sulle spalle dei
fedeli.
Il percorso indicato da Papa Francesco alla Chiesa e al mondo non
ha nulla a che vedere con il progetto culturale con cui la Chiesa
alcuni anni fa pensava di colmare il vuoto lasciato dalla
disintegrazione delle culture laiche ;non è un progetto di occupazione
della società, ma un 'umile proposta di ritorno al Vangelo, di
benevola, fraterna condivisione delle nostre quotidiane difficoltà.
Una fede che torna alla sua umanità e alla sua semplicità può essere
oggi il farmaco per curare alcune nostre malattie.
prof. Raimondo Giunta