"La vera festa
è il lunedì mattina, quando si va a lavorare", mi ripete
sempre mio padre. E al lavoro voglio dedicare la riflessione di oggi, 1
maggio, Festa del lavoro. Del lavoro che stanca, che produce,
che dà
dignità, che ti realizza, che ti soddisfa, che ti rende felici, e che a
volte, purtroppo, uccide. Del lavoro che crea, che ti rende cooperatore
del creato, co-creatore. Al lavoro di insegnante dedico il pensiero di
oggi. Del nostro lavoro umile, paziente, silenzioso, coraggioso. E
solitario, molto spesso. Ma, soprattutto, gioioso, creativo,
coinvolgente, fecondo. E giovane. Perché chi vive accanto ai giovani
rimane giovane per sempre. Un lavoro, il nostro, che non finisce mai di
stupire e di inventare. Di seminare e di coltivare. E di raccogliere.
In un futuro prossimo. Ma è anche un lavoro, molto spesso, bistrattato
e biasimato, beffato e dimenticato. E malpagato. Vissuto, giorno dopo
giorno, lezione dopo lezione, gomito a gomito, con i ragazzi, con la
meglio gioventù che ci poteva capitare, con chicchi di speranza e di
futuro. E di libertà. Speso su antologie e abbecedari, su manuali e
compendi, che fuori valgono niente, ma che dentro le aule sono oro
colato. Donato alla vita e al futuro che verrà, ai ragazzi e alle
ragazze che saranno uomini e donne di domani. Dove, a noi insegnanti,
non è dato di capire e di entrare.
"Essi sono altrove molto più lontano
della notte / Molto più in alto del giorno".
Molto più in alto di noi,
poveri, semplici insegnanti. Poi verrà domani, e sarà un altro giorno
di duro lavoro...
Angelo
Battiato (inviato speciale a Brescia)
angelo.battiato@istruzione.it
"Vivo come un soldato". Così scriveva una maestra, all'inizio del
secolo. E in effetti le condizioni di vita, per insegnanti e alunni
erano molto dure. Le scuole erano fatiscenti, le classi sovraffollate,
lo stipendio basso e differenziato tra uomini e donne, i contratti
"provvisori" (si usava questo aggettivo, allora) per anni e anni.
Eppure, malgrado tutto, è stata la scuola pubblica (e in particolare le
maestre, misconosciute eroine di un'epoca ancora da raccontare) a
"fare" davvero l'Italia. A proiettarla nella modernità. A sconfiggere
(o a mitigare) l'analfabetismo assoluto, che regnava sovrano in tutta
la penisola. Un analfabetismo che imprigionava milioni di uomini e
donne in un destino di subalternità sociale.
È passato un secolo e ancora molte scuole sono fatiscenti, gli
insegnanti "precari" (adesso si dice così) e i programmi obsoleti,
inadeguati alle nuove sfide del mondo globale. È cambiato il modo di
comunicare, la rivoluzione digitale sta cambiando perfino il modo di
leggere, ma la scuola non ha mezzi per rinnovare se stessa. È la
cenerentola della politica. È povera, pur essendo ricca di energie e di
volontà. E anche di desideri, perché a scuola non si impara soltanto a
leggere e a scrivere. A scuola si impara a "vedere" e a progettare la
vita futura.
Insegnare. Imparare. Sono due attività che stanno alla base della
convivenza umana.
L'augurio è di non essere costretti a insegnare e a imparare soltanto
come soldati, sempre in trincea, sempre in battaglia. Vorremmo che la
scuola, la scuola pubblica, fosse un luogo di pace, dove coltivare
sogni e concrete speranze.
Maria Rosa Cutrufelli