Quella pendula
luce, tra le grate della stanza, riassumeva per un po’ un’immagine
gioiosa d’Antonio Gramsci. L’ho incontrato così, una sera di novembre,
mentre fuori infuriava la tempesta, davanti un tavolaccio e un lume ad
olio, intento a prendere appunti “che ne vale la pena”, e di continuo
mi bisbigliava, “adagio… adagio”, per non essere sentito dai suoi
“solerti” secondini. E intanto la pioggia continuava a scricchiolare
dalle inferriate della sua nuda cella, dove un regime sordo alla
ragione e alla libertà, a modo suo, lo voleva eclissare per sempre. Ma,
per nostra fortuna, con lui non ci riuscì.
Antonio Gramsci, politico, filosofo, giornalista, linguista e critico
letterario, nato a Ales, il 22 gennaio 1891, è sicuramente tra i più
importanti e originali pensatori del XX secolo. Nel 1921, a Livorno, fu
tra i fondatori del Partito Comunista d’Italia e nel 1926 venne
incarcerato dal regime fascista. Nel 1934, in seguito al grave
deterioramento delle sue condizioni di salute, ottenne la libertà
condizionata e fu ricoverato in una clinica, dove passò gli ultimi anni
di vita. Morì a Roma il 27 aprile 1937. In una lettera dal carcere,
così scriveva a sua mamma, «Non ho mai voluto mutare le mie opinioni,
per le quali sarei disposto a dare la vita e non solo a stare in
prigione [...] vorrei consolarti di questo dispiacere che ti ho dato:
ma non potevo fare diversamente. La vita è così, molto dura, e i figli
qualche volta devono dare dei grandi dolori alle loro mamme, se
vogliono conservare il loro onore e la loro dignità di uomini»
Iniziò a raccontarmi della sua idea di istruzione e di scuola pubblica.
«La scuola borghese è scuola del “privilegio” e per i “privilegiati”,
anziché per i più meritevoli e per i più degni. Si è venuta a creare
una frattura insanabile tra le scuole per il proletariato (tecniche e
professionali) e quelle per i “giovani figli della borghesia” (le
scuole classiche). Tale distinzione, sancita in buona fede dal ministro
Casati, e degenerata poi per necessità di bilancio statale, si basa su
elevatissime tasse d’iscrizione e sulle esigue possibilità lavorative
offerte dalle scuole “disinteressate”. Io rivendico, anche per il
proletariato, l’accesso a questo tipo di scuole, che modellano il
carattere dei giovani senza prefissare per ciascuno delle direzioni
obbligate».
Qual è allora la sua idea di scuola?
«La scuola professionale non deve diventare un’incubatrice di piccoli
mostri aridamente istruiti per un mestiere, senza idee generali, senza
cultura generale, senza anima, ma solo dall’occhio infallibile e dalla
mano ferma. Anche attraverso la cultura professionale può farsi
scaturire dal fanciullo, l’uomo. Purché essa sia cultura educativa e
non solo pratica manuale».
Ai giorni d’oggi, però, l’istruzione
pubblica vive una profonda crisi d’identità.
«La “crisi scolastica” esistente in Italia deriva dalla mancanza di una
pianificazione attenta e consapevole, oltre che da “principi chiari e
precisi” nel porsi di fronte ad un dato di fatto inequivocabile, e cioè
che nella civiltà moderna tutte le attività pratiche sono divenute così
complesse e le scienze si sono talmente intrecciate alla vita che ogni
attività pratica tende a creare una scuola per i propri dirigenti e
specialisti e quindi a creare un gruppo di intellettuali specialisti di
grado più elevato, che insegnino in queste scuole. La crisi della
scuola, dunque, è ravvisabile nel mancato equilibrio del rapporto tra
attività pratico-specialistiche e formazione culturale
“disinteressata”, al tempo stesso la crisi del programma e
dell’organizzazione scolastica, secondo me, è identificabile con la più
generale crisi della politica formativa “dei moderni quadri
intellettuali”, e risulta essere una complicazione della ancor più
globale “crisi organica” che investe l’intera società».
Può esistere, secondo lei, una scuola
autenticamente democratica?
«È illusorio considerare che scuola diversificata, come l’attuale,
possa essere democratica, in quanto tende a suscitare diversificazione,
mentre la vera pedagogia democratica consiste nel fare di ogni
cittadino un governante, nel far coincidere governati e governanti,
unificando il genere umano. Ed in questo senso contesto aspramente la
cosiddetta “Riforma Gentile”, perché ha distrutto quel “principio
educativo” che dava fondamento e unità alla scuola elementare, e mi
riferisco, soprattutto, al “lavoro”, che metteva in contatto il
fanciullo con la vita naturale, attraverso le studio delle scienze, e
con la vita sociale, attraverso l’apprendimento di una “educazione
civica”, che corrispondono, rispettivamente al “concetto” e al “fatto”
del lavoro».
Quali sono le sue proposte per una
“nuova” scuola pubblica?
«Le mie proposte per la “scuola unica” implicano la riorganizzazione
concreta di quella attuale: le scuole elementari dovrebbero avere la
durata di 3 o 4 anni ed insegnare, in modo “relativamente” dogmatico,
le nozioni basilari del leggere, dello scrivere e del far di conto,
oltre ai primi rudimenti riguardo allo Stato e alla società. Il
ginnasio dovrebbe essere di quattro anni ed il liceo di due, cosicché
il giovane, a sedici anni, avrebbe già terminato il corso di studi
“unico”, e sarebbe pronto ad affrontare gli studi universitari o il
mondo del lavoro. Va rivisto anche il metodo d’insegnamento tipico del
Liceo, che secondo me è troppo legato alle esperienze del precedente
ginnasio e poco proiettato, invece, verso il metodo universitario. I
giovani così arrivano “impreparati” all’università, dove da un lato si
richiede una capacità creativa nello studio (e non più solo ricettiva)
e dove, dall’altro, giocano un ruolo fondamentale “l’autonomia morale”
e “l’autodisciplina intellettuale”, a cui spesso gli studenti non sono
abituati, per lo meno non nel grado necessario. Questo salto fra il
Liceo e l’Università implica un vero e proprio squilibrio (invece di un
passaggio graduale) tra la “quantità-età” e la “qualità-maturità”
intellettuale e morale».
Qual è, secondo lei, il modo migliore
per educare i giovani?
«La questione fondamentale è il rapporto fra “spontaneità” e
“direzione”: fin dai miei primi scritti sono stato fortemente attratto
da tale problematica: se lasciare che il bambino dispieghi
autonomamente, nel corso del tempo, la propria spontaneità, le proprie
attitudini innate (ed è questo un motivo che richiama con evidenza
Rousseau), oppure se è necessario, attraverso un’opera “autoritaria”,
svolta attraverso la scuola, gli insegnanti, i genitori, dare al
bambini informazioni esterne, che egli dovrà poi elaborare entrando in
contraddizione col “suo” mondo di idee e conoscenze. Questa è la mia
“opzione”: fra l’essere “spontaneisti (rousseauiani)” o, invece,
“volontaristi (dirigere con autorità il fanciullo)”. Sembrerà strano,
ma la cara e vecchia scuola elementare, in favore delle quali mi sono
sempre battuto, rappresentava e forniva il mezzo con cui il fanciullo
aveva la possibilità di entrare in lotta contro le concezioni
folkloristiche, magiche, superstiziose (e dunque arretrate), oltre che
prettamente individualistiche, del proprio ambiente di provenienza;
queste stesse nozioni danno anche al bambino l’appiglio allo sviluppo
ulteriore di una concezione storica, dialettica del mondo, a
comprendere il movimento e il divenire, a valutare la somma di sforzi e
di sacrifici che è costato il presente al passato e che l’avvenire
costa al presente…».
Come le sembrano le nostre “antiche e
gloriose” Università?
«Sono fortemente contrariato dal metodo usato nelle Università italiane
- quello cioè della lezione-conferenza da parte del professore -
rispetto al quale propongo l’uso del “seminario”, che implica una
maggior partecipazione degli allievi. Non accetto il dogmatismo
accademico, stantio. Preferirei un insegnamento ed uno “Studio
creativo” e non solo, ma auspica un collegamento fra le Università ed
altre organizzazioni culturali esistenti, come, per esempio, le
Accademie, che, considerate, purtroppo, come dei “cimiteri della
cultura” dovrebbero trasformarsi, invece, in fervidi circoli culturali
per coloro che non frequentano l’Università: in questo modo essi
potrebbero coltivare delle attività intellettuali e si realizzerebbe
una feconda circolazione di cultura nello scambio di idee e risultati
con le Università stesse. Dunque l’Università, nelle sue
specializzazioni diverse, e nel suo formare gli intellettuali di una
generazione o di un’epoca, dovrà necessariamente fornire una cultura
che sia anche contributo personale e capacità di giudizio. E gli
intellettuali, e i futuri educatori, hanno bisogno di questo genere di
cultura».
Il suo pensiero, in questi ultimi
tempi, è ritornato prepotentemente d’attualità, soprattutto in America,
dove si sta discutendo sul suo concetto di “egemonia”, da lei
lungamente studiato.
«Sono stato tra i primi ad analizzare la struttura culturale e politica
della società elaborando in particolare il concetto di egemonia,
“secondo il quale le classi dominanti impongono i propri valori
politici, intellettuali e morali a tutta la società, con l’obiettivo di
saldare e gestire il potere intorno a un senso comune condiviso da
tutte le classi sociali, comprese quelle subalterne”. E se gli
americani sono interessati al concetto di “egemonia”… un motivo
sicuramente ci sarà!».
Un’ultima domanda (fuori tema), cosa
ne pensa della situazione politica attuale e del Partito Democratico,
erede, si fa per dire, del “Suo” Partito Comunista d’Italia?
«Caro amico, dammi retta… lascia perdere… lascia perdere! Parliamo di
scuola ch’è meglio… ».
E se lo dice Antonio Gramsci…
Angelo
Battiato (inviato speciale a Brescia)
angelo.battiato@istruzione.it