C’era una volta un
contadino d’un paese dei Nebrodi che, "sceso" nella Piana di Catania,
dopo varie ricerche, si comprò un appezzamento di terra dove vi erano
molti alberi d’ulivi e d’aranci.
Si era talmente appassionato a quel terreno che, con la sua fiammante
“Lambretta 125”, quando poteva, vi si recava per coltivarlo, usufruendo
dell’acqua fornita dal Consorzio di Bonifica, s’era comprato, perfino,
un piccolo trattore di “sette cavalli”, per ararlo, dissodarlo e
diserbarlo. Volendo assicurarsi che il campo avesse sempre acqua a
sufficienza per abbeverare gli alberi, fece approntare nel mezzo del
giardino un serbatoio d’acqua, un piccolo invaso, da poter contenere
sia l’acqua del Consorzio, che l’acqua piovana. Inoltre, ebbe l’idea di
piantare, ai lati del laghetto, quattro palme, per abbellire l’ambiente
circostante e, nello stesso tempo, "fare ombra".
Dopo un paio d’anni, il contadino era abbastanza soddisfatto del lavoro
che aveva profuso nel suo giardino, ed anche le palme incominciavano a
crescere e ad innalzarsi verso il cielo.
Avvenne che le quattro palme, stagliandosi verso l’alto, molto più
degli altri alberi, incominciarono a “sentirsi” le “sovrane del
terreno”, addirittura, vantandosi fra di loro su chi fosse la più
bella, la più alta, la più sinuosa, e tutte e quattro guardavano con
distacco le altre piante del podere.
Ogni giorno, dalla mattina alla sera, si sentivano, tutt’intorno,
solamente le "vanterie" delle quattro palme, tanto che il resto della
piantagione non ne poteva più, e preferiva non ascoltare i loro
discorsi.
Le altre piante dicevano: "Noi produciamo dei frutti utili che servono
al padrone". Anche gli alberi d’ulivo dicevano tra di loro: "Anche noi
siamo molto più alti delle quattro palme, oltre a produrre molto olio,
ed in più facciamo più ombra di loro".
Tutta la piantagione, quindi, si rivolse contro di loro: "Chi si
credono di essere queste quattro palme? Non fanno neanche frutto! Che
ci stanno a fare qui?".
Avvenne che il padrone del terreno, il contadino nebroideo, andò nel
podere per usufruire dell’acqua, rimanendo lì per l’intera notte,
perché nelle mattinate aveva il suo turno d’acqua.
Così ebbe tutto il tempo per poter contemplare il terreno e le piante,
odorando e sentendo il loro fruscio. L’indomani, dopo aver irrigato, si
fermò a guardare il suo podere, le piante, le viti, il serbatoio
d’acqua, le quattro palme.
Pensò alle parole di sua moglie e dei vicini: "Le quattro palme
invadono il terreno e soffocano le radici degli altri alberi che
portano frutto; forse è più conveniente mettere un pergolato, almeno
raccogli della buona uva, ‘a racina!".
"Sti palmi chi ti fannu ‘nto tirrenu d’aranci e d’alivi? Méttici ‘n
pergulatu e l’ùmmara ci l’hai ‘u stissu!".
E così, rimuginando tali consigli, il padrone si armò di pazienza e di
zappa, sradicò le quattro palme, le depose ai margini del terreno,
aspettò che seccassero e le bruciò.
Poi attorno al serbatoio d’acqua piantò un lussureggiante pergolato,
guardò la piantagione e si sentì soddisfatto della scelta fatta ed ebbe
la sensazione di "sentire" l’approvazione dagli stessi alberi, infine
constatò che l’invaso d’acqua che serviva le piante non era più una
parte a sé stante, ma era diventato un tutt’uno con l’appezzamento,
integrato a perfezione.
E intanto, ‘u zu Carmine e Ciccineddu, si preparavano a lavorare…
Giuseppe Scaravilli
giuseppescaravilli@tiscali.it