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Vi racconto ...: ‘U zu Carmine e Ciccineddu alla trebbiatura

Redazione
E venne il tempo di trebbiare il grano di contrada “Vaccaro”, ed i “due compari”, ‘u zu Carmine e Ciccineddu, partirono, allegramente,… per la faticosa impresa.
‘U zu Carmine era contento del suo lavoro, ed anche il suo giovane asino, Ciccineddu, si sentiva soddisfatto per aver trasportato nell’aia il grano “bellè”, pronto per essere trebbiato.
Dopo il lavoro di mietitura, in contrada Vaccaro, ‘u zu Carmine appurò che i covoni di grano (i ‘regni) erano pronti per la trebbiatura, e così, di buon mattino, si recò sul posto, mise il basto (‘u varduni) a Ciccineddu, poi vi appoggiò “a scaledda”, ed aiutato da suo figlio Gaetano, caricò le fasce di spighe in groppa a Ciccineddu, due per ogni lato, per trasportarli (carriarli) presso l’aia (‘a pisera) che si trovava nei pressi del cimitero.
Intanto nell’aia, già di buon mattino, si trovava la famiglia do’ zu Carmine, la moglie Nunziata e le figlie Maria e Concetta, che assieme ad altre famiglie erano pronte per la trebbiatura del grano, (‘a spagghiatura), anche perché tale lavoro (spagghiari ‘u frumentu) si trasformava, ogni anno, in una vera e propria “sagra paesana”, dove nelle aie gli uomini, aiutati dagli animali, “facevano di tutto”: lavoravano, consumavano il pasto che avevano preparato e stavano insieme per parlare delle varie vicissitudini. Dopo la festa del patrono, la trebbiatura (‘a pisata ‘pi spagghiari ‘u frumentu) era un’occasione da non perdere per le famiglie del paesino nebroideo.
Dunque, ‘u zu Carmine, aiutato dal figlio Gaetano e dal suo giovane asino Ciccineddu, cominciò a trasportare (carriari) i covoni (i ‘regni) nell’aia (‘a misera) per iniziare il lavoro di trebbiatura, e dopo averli “carriati” nell’aia, condusse Cicineddu nella vicina biviratura, pulì l’acqua con la mano, per far bere l’asino, e poi tutti e due ritornarono verso “‘a misera” dove già erano stati slegati i covoni, pronti per essere trebbiati.
Arrivati sul posto, ‘u zu Carmine e Ciccineddu, si accinsero a “pestare” le spighe di grano; il padrone guidava amorevolmente il suo asino che si lasciava condurre nei giri sull’aia sopra i mucchi di covoni, pestandoli con particolare cura e dedizione.
Questo lavoro durò fino a mezzogiorno, poi ‘u zu Carmine e la sua famiglia si prepararono a consumare il pranzo sull’aia, insieme alle altre famiglie, dialogando allegramente tra un sorso di buon vino, contenuto nei barilotti di legno (‘i ciaschi), e un piatti di olive cunzati.
Ma prima ‘u zu Carmine pensò a Ciccineddu, dandogli un’abbondante dose di erba (‘a vizza) e di paglia, e facendogli bere un secchio d’acqua fresca, attinta dalla vicina biviratura posta di fianco al cimitero.
Nel pomeriggio, al calar del sole e con il vento ancora favorevole, ‘u zu Carmine e Gaetano, “armati” di tridenti, incominciarono a “spagghiari ‘u frumentu” che, complice le folate di vento, veniva diviso dalla pula (‘a pàgghia), cosicché i chicchi di grano, ripuliti, si raggruppavano in mucchi.
Il lavoro di pisatura durò fino al tramonto, poi la moglie Nunziata e le figlie, dopo aver consumato una frugale cena, si ritirarono a casa nel vicino paesino, e così fecero anche le donne delle altre famiglie, mentre gli uomini e gli animali rimasero nell’aia, disponendosi per passarvi la notte, vicino al grano “spagghiatu”. Ed era un’esperienza indimenticabile dormire nell’aia, sotto il cielo stellato, gli anziani parlavano delle loro esperienze di vita e di lavoro ed i giovani, tutt’intorno, ascoltavano a bocca aperta. E anche Ciccineddu, non lontano dal suo padrone, si accovacciò sull’erba a riposare, destato, ogni tanto, dal lento latrato dei cani delle masserie vicine.
La trebbiatura del grano era un grande momento per l’animale, sulla sua groppa, infatti, venivano caricati i covoni da trasportare sull’aia, faceva le “giravolte” per pestare il grano con le sue zampe: per un giorno si “sentiva” il protagonista assoluto del lavoro dei campi!
L’indomani mattina si ricominciava con l’andare a prendere i covoni rimasti nel podere e portarli nell’aia, mentre le donne, ritornate dalle loro case, erano pronte per aiutare i loro congiunti.
Quando il mucchio di grano pestato era abbastanza alto, la moglie do’ zu Carmine e le figlie, cominciarono a cernere co’ crivu il frumento così da poterlo liberare da ogni impurità per poi metterlo in appositi sacchi per portarlo a casa. Il lavoro della cernita (‘a crivata), co’ crivu , consisteva nel fare in modo che venivano separati dal frumento i rimasugli “impuri” della paglia (‘a pàgghia), ‘a spògghia.
Anche la paglia veniva lavorata, veniva raccolta in apposite sacche e portata in locali adiacenti alle stalle, ‘i pagghiari, per poi darla da mangiare agli animali durante il periodo invernale. Per chi aveva degli appezzamenti lontani dal paese, la paglia, ‘a pàgghia, veniva sistemata in appositi locali, i “burgi”, per essere ben conservata.
E così, dopo un’intera settimana di duro lavoro e una proficua trebbiata, ‘u zu Carmine e Ciccineddu, si concedettero il meritato riposo settimanale.
La domenica mattina, dopo aver fatto colazione, il padrone scese nella stalla, spazzolò il suo giovane asino, gli diede una piccola dose di zucchero, lo condusse alla gebbia per farlo bere, e dopo aver fatto il giro del paese, tutti e due, con calma, “passiannu”, ritornarono a casa… per riposare e pensare alla prossima impresa, laggiù, nel paesino dei Nebrodi, posto ai piedi della Timpa Abate.

Giuseppe Scaravilli
giuseppescaravilli@tiscali.it








Postato il Domenica, 14 luglio 2013 ore 08:00:00 CEST di Angelo Battiato
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