DE AMICIS-NEL ''CUORE'' DEL NUOVO ITALIANO
Data: Mercoledì, 13 febbraio 2008 ore 16:13:26 CET
Argomento: Rassegna stampa


De Amicis, nel “cuore” del nuovo italiano

Il bel paese del dialetto

Nel 1886 lo scrittore e giornalista Edmondo De Amicis – di cui si celebra il centenario della morte (1846-1908) – pubblicò Cuore. Aveva scritto il libro che lo rese famoso più d’ogni altro sotto lo stimolo del «bisogno d’insegnare» (Cesare De Lollis). Cuore, pensato con finalità rigorosamente pedagogiche, era esplicitamente rivolto ai «giovinetti» delle scuole e – a ribattere il chiodo – era ambientato all’interno dell’universo scolastico.

A quei tempi, in Italia, l’80% degli abitanti del giovanissimo Stato unitario non sapeva né leggere, né scrivere. Dal 1877, la Legge Coppino aveva incrementato l’obbligo scolastico: «L’obbligo […] rimane limitato al corso elementare inferiore, il quale dura di regola fino ai nove anni, e comprende le prime nozioni dei doveri dell’uomo e del cittadino, la lettura, la calligrafia, i rudimenti della lingua italiana, dell’aritmetica e del sistema metrico» (art. 2). Qualche effetto positivo certamente la legge ebbe, anche se, in un Paese per gran parte fatto di contadini e di popolani, l’obbligo veniva frequentemente disatteso, perché le braccia dei piccoli dovevano servire la famiglia, in bottega, tra le strade o nei campi. In aggiunta a ciò, la situazione della dialettofonia imperante rendeva assai problematico il lavoro degli insegnanti. Come ha scritto Maria Catricalà (Questione della lingua e scuola nell’Italia unita, in La lingua nella storia d’Italia, a cura di Luca Serianni. Società Dante Alighieri, 2000), «furono, per questo, molti coloro i quali, fra maestri improvvisati, frati spretati, ex garibaldini, mamme-maestre, giovani e non più tali, grandi editori e piccole tipografie del nord e del sud, si misero ad approntare libri scolastici d’ogni prezzo, formato e misura», cosicché in pochi anni «una valanga di testi d’ogni qualità» fu riversata sui banchi.

Dalla parte di Giosuè o di Edmondo?

Il problema era: quale italiano insegnare? E seguendo quali metodi? Per quanto riguarda questi ultimi, c’era da sbizzarrirsi, in un fiorire a dire il vero piuttosto dinamico di suggestioni e prospettive, captate anche dall’estero. Tra le scuole da seguire, ricorda Catricalà, c’erano i metodisti ma anche i teorico-pratici; i razionalisti accanto ai comparatisti, ciascuno con le proprie ragioni, tutti a seminare in una terra di nessuno. Veniamo all’italiano da insegnare. Nella sua Relazione al ministro della pubblica istruzione Emilio Broglio del 1868, intitolata Dell’unità della lingua e dei mezzi per diffonderla, Alessandro Manzoni proponeva di adottare come lingua comune, di cui diffondere la conoscenza, il fiorentino dell’uso vivo, da lui artisticamente rifuso nella versione definitiva dei Promessi sposi. Operativamente, il gran lombardo proponeva di andare alla compilazione di un vocabolario esemplato sull’uso vivo del fiorentino; suggeriva di accordare la preferenza a insegnanti toscani o educati in Toscana; prevedeva sussidi statali ai comuni che assumessero insegnanti toscani o educati in Toscana e ipotizzava altri incentivi didattici, per dirla brevemente, fiorentinocentrici. Non è qui il caso di riassumere il ricco e vivacissimo dibattito che scaturì dalle proposte manzoniane e che interessò personalità del calibro di Gino Capponi, Pietro Fanfani, dell’antimanzonista Giosuè Carducci, del “toscanista” (ma non filo-fiorentino) Niccolò Tommaseo, di Luigi Settembrini e soprattutto del glottologo Graziadio Isaia Ascoli. È piuttosto il caso di sottolineare, come fa Claudio Marazzini (Da Dante alla lingua selvaggia, Carocci 1999), che non si trattò di una «semplice diatriba di letterati e grammatici», ma di una grande discussione che, in varie sedi, coinvolse «insegnanti, educatori, funzionari del ministero». Stare con Carducci o seguire i consigli sulla lingua che De Amicis, autore di straordinario e immediato successo col suo Cuore, elaborò e dispensò nel suo saggio L’idioma gentile (1905), ancor oggi di godibile lettura, non era questione di poco conto, in quell’Italietta postunitaria. Come ricorda Marazzini, l’idea classicistica della lingua propugnata dal Carducci esercitava un grande influsso sugli insegnanti delle scuole superiori, mentre il manzonismo eclettico e pragmatico del De Amicis veniva incontro agli incessanti problemi di base che gli insegnanti delle scuole primarie si trovavano ad ogni piè sospinto a dover affrontare.

Un “idioma gentile”

Grande successo di pubblico ebbe anche L’idioma gentile. Attraverso una serie di letture e di dialoghi a tema, corredate di consigli affabili ma guidati dallo spirito della “penna rossa e della penna blu”, De Amicis intende «favorire l’apprendimento della lingua nazionale viva, esemplata sul modello toscano ma attenta alla lezione dei classici e in ogni caso aliena dall’affettazione» (Luca Serianni, Storia della lingua italiana. Il secondo Ottocento, Il Mulino, 1990). A proposito di metodi, De Amicis è più vicino alla lettera al Fauriel del ’23 che non al Manzoni della Relazione:

Leggere attentamente i buoni scrittori, segnando sul libro, se si può, per ritrovarle poi facilmente, le voci e le locuzioni che ci riescono nuove e che ci vogliamo appropriare […]; mandar a memoria poesie e squarci di prosa […]; notare il meglio del materiale che si ricava dalle letture […]; esercitarsi, scrivendo, a maneggiare il materiale raccolto […]; e leggere ad un tempo, rileggere, studiare il vocabolario.

Nell’Idioma gentile spicca senz’altro lo sforzo di emendare nello scrivente e nel parlante i tratti lessicali, fonetici e morfosintattici ripresi meccanicamente dal vivissimo fondo dialettale. Qui De Amicis è fedele ai propositi manzoniani. Nel capitoletto A ciascuno il suo, indirizzato A una schiera di ragazzi di diverse regioni d’Italia, l’autore, fingendo di rivolgersi di volta in volta a un giovane di diversa provenienza, sottolinea tutte le caratteristiche di lingua marcate in senso regionale, proponendo la forma sostitutiva corretta. A differenza di quanto avrebbe fatto un manzoniano doc, De Amicis se la prende anche col ragazzetto fiorentino: «Per insegnar la lingua ai tuoi fratelli d’Italia, devi guardarti anche tu dai dialettalismi, non con altrettanta, ma con maggior cura degli altri» (e censura sortire ‘uscire’, dove tu vai?, che tu fai?, ignorante ‘maleducato’, diaccio ‘freddo’). Pur stroncato dal Croce, che assegnava alla grammatica un mero valore di disciplina empirica e riteneva comunque impossibile insegnare una lingua modello, definendo l’intento manzonista un assurdo teoretico, un «cercare l’immobilità del moto» perpetuo della lingua, da lui considerata come atto individuale di «perpetua creazione», L’idioma gentile contribuì agli sforzi di chi intendeva diffondere un uso più vivo della lingua italiana.

Due libri su tutti

Furono però il Pinocchio (1881-83) di Collodi (un milione di copie vendute nel 1913; due milioni nel 1921) e Cuore di De Amicis (giunto alla 41a edizione a due mesi dalla pubblicazione) a far precipitare subliminalmente prima, e attraverso l’obbligo scolastico di lettura poi (nel caso di Pinocchio in particolare), un modello di lingua ora versata al tono medio del fiorentino vivo contemporaneo (Collodi), ora a una medietà toscaneggiante priva di complicazioni sintattiche (De Amicis). Si realizzò una sinergia verso una lingua svecchiata, non paludata. Per Vittorio Coletti (Storia dell’italiano letterario, Einaudi, 1993), in Cuore risalta la «messa a punto di una sintassi semplice, paratattica, persino elementare, che non sdegna la ripetizione per chiarezza, la ridondanza della lingua media», in direzione di una efficace colloquialità. Secondo Lucilla Pizzoli (Spinte all’unificazione linguistica: fattori linguistici ed extralinguistici, in La lingua nella storia d’Italia, a cura di Luca Serianni. Società Dante Alighieri, 2000), «De Amicis non coglie in pieno la novità della riforma manzoniana alla quale pure diceva di ispirarsi: anche in Cuore non mancano allotropie che il Manzoni aveva tentato di sradicare come gettare / gittare, avea / aveva, e simili, alternanza ei / egli / lui soggetto, pel / per il, ecc. Tuttavia ne accoglie la spinta verso una scrittura più vicina alla lingua d’uso», insistendo sul vettore emotivo allora in gran voga nella letteratura. De Amicis voleva «educare l’infanzia attraverso la scossa emotiva delle lacrime» (Pizzoli). C’è da chiedersi se ci riuscì. In ogni caso, nonostante «tutto quel dolciume e dolciastrume e zuccherume» (Giorgio Pasquali, Il «Cuore» di De Amicis, in Pagine stravaganti, Sansoni, 1968), De Amicis fu capace di scrivere per tanti in una lingua non più per pochi.

Silverio Novelli

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 







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