ATTRAVERSO GLI OCCHI DI UN AEDO CIECO
Data: Luned́, 04 febbraio 2008 ore 18:50:32 CET
Argomento: Rassegna stampa


"La poesia è vita che rimane impigliata in una trama di parole. Vita che vive al di fuori di un corpo e quindi anche al di fuori del tempo. Vita che si paga con la vita: le storie dei poeti che ho raccontato in questo libro stanno a dimostrarlo." Così scrive Vassalli in questo libro, nel quale racconta sette vite di poeti per carpire il mistero della poesia: Omero, Qohélet, Virgilio, Jaufré Rudel, François Villon, Giacomo Leopardi, Arthur Rimbaud.

Amore lontano. Il romanzo della parola nei secoli di Sebastiano Vassalli
 In queste pagine lo stile impreziosisce e rende avvincente un originale percorso nella letteratura occidentale, al di là dei canoni scolastici, senza fare erudizione saggistica e senza tessere medaglioni agiografici. I poeti – da Omero a Virgilio, da Villon a Leopardi (con pagine intense sull’avversione per il “natìo borgo selvaggio”) per arrivare a Rimbaud (tutti ritratti con umanità e quasi crudezza) – sono personaggi fatti scendere dal piedistallo della tradizione, persone normali con i difetti, gli egoismi e le nevrosi che sono di tutti. Infatti ciò che per Vassalli merita d’essere raccontato è il momento in cui quegli uomini bruciano la loro esistenza e, morendo, illuminano una loro grandezza e la loro voce pronuncia parole che acquistano un valore per ognuno, in ogni tempo.
E' difficile dire qual è la storia di poeta preferita: forse perché le pagine risaltano i diversi frammenti di una stessa vicenda e di una stessa immagine paradigmatica: di uno stesso Amore lontano, come allude lo struggente titolo citando l’amor de lonh di Jaufré Rudel: è la poesia della tradizione provenzale, carica di un’idea di eternità della parola che finora è stata studiata da molti ma che Vassalli riesce a trasformare in racconto e in verità cogliendo un momento preciso e drammatico come la morte. Forse perché nella morte la letteratura ritrova quella dignità morale che è uno dei tratti distintivi dello scrittore novarese.
Il finale è poi un esempio di letteratura quasi sapienziale: un’accensione di luce della parola che si fa fonte di vita, grazie alla poesia che diventa un ponte verso l’infinito, in un paesaggio intellettuale non lontano dai paesaggi metaforici amati dall’autore della Chimera: «La poesia è vita che rimane impigliata in una trama di parole. Vita che vive al di fuori del corpo e quindi anche al di fuori del tempo. Vita che si paga con la vita». 

Per sapere qualcosa di piú a proposito di questo scrittore, sarà forse utile specificare che Sebastiano Vassalli è nato a Genova nel 1941 ma vive da tanti anni in provincia di Novara, cioè nel Piemonte; in quella Regione (o nelle zone limitrofe), infatti, iniziano o si svolgono molte delle storie narrate nei suoi romanzi, oggi comunemente definiti ''neostorici'' e tradotti in diverse lingue.
La bibliografia che riguarda Vassalli è molto abbondante ed inizia nel 1965, il suo stile, in genere asciutto e scorrevole, ben si unisce al senso delle sue narrazioni, che sono improntate (a detta dell'autore stesso) ad una severa riproduzione del reale o almeno del verosimile, con l'intento, tramite l'utilizzo di diverse epoche storiche, di approfondire e disvelare i lati oscuri della realtà che ci circonda e del polimorfico mondo psichico umano.(a cura di M.Allo)


 Eccovi l' intervista a Sebastiano Vassalli "I libri che nascono dai libri son ben povere cose"

Domanda. Ho notato, in molto di quel che Lei scrive, che il politeismo, il mondo greco-romano, la affascinano.

Risposta. No, diciamo piuttosto il mito. Il mito è ciò a cui dovrebbero tendere gli scrittori.

D. Già, però il mito religioso in senso cattolico e il mito pagano sono piuttosto diversi, anche se essi si sono strettamente susseguiti nel corso della nostra Storia…

R. Ogni religione ha i suoi miti fondanti. Quello del cattolicesimo, anzi quello del cristianesimo – perché il cattolicesimo nasce molto dopo, con il Concilio di Trento e dopo lo Scisma – è un grande mito fondante: quello dell'uomo che viene perseguitato e crocifisso da quelli che ha attorno… è il mito fondante della nostra civiltà. Comunque, vede, io sono un narratore, uno che racconta storie. Temi di questo genere Lei li potrebbe trattare molto meglio con, per esempio, un filosofo. (Cita il nome di Emanuele Severino, notissimo filosofo e storico della filosofia italiano. N.d.R.).

D. Se un racconto inizia con il ''nulla'' e termina con il medesimo (si allude al romanzo La chimera, dove sia la premessa che il congedo si intitolano Il nulla. N.d.R.), Lei crede di essersi personalmente mosso, in senso filosofico, in quel ''frattempo'' durato un tot di pagine?

R. Le rispondo molto semplicemente: se un racconto comincia col nulla e finisce col nulla, è un racconto che tratta la vita umana esattamente cosí come essa accade, senza tante filosofie. Tutti veniamo da lí e torniamo lí; e tutte le nostre storie vengono da lí e tornano lí.

D. Lei, nel suo ultimo libro pubblicato in Italia, Amore lontano (2005), ha parlato anche di Giacomo Leopardi. Ecco: Leopardi è l'assenza di Storia ed anche la negazione del tempo in senso assoluto?

R. No, assolutamente no. Leopardi è un uomo che ha riflettuto molto su questi temi, ha detto alcune cose, oltre alle quali non si può andare, perché grosso modo è quello che si può conoscere, insomma è il conoscibile. Il mondo in cui lui ha vissuto era molto concreto e molto materiale, e molto concreto e molto materiale è quello in cui noi stiamo parlando. Le Storie della Letteratura hanno ridotto Leopardi a diventare un uomo di carta… io capisco anche che gli studenti di Liceo che hanno a che fare con Leopardi possano nutrire una certa antipatia per questo individuo piccolo, brutto, che soffre e non si capisce bene perché. In realtà lui ebbe una vita tutto sommato normale (a parte il fatto che era dalla nascita persona di poca salute): visse, viaggiò, conobbe persone, fece quel che si poteva fare nelle sue condizioni… pensò molto: che altro dire?

D. Attraverso gli occhi di un aedo cieco, cosa Le passa nell'anima, Vassalli?

R. Attraverso gli occhi, niente. L'aedo cieco è un'interiorità quasi senza esteriorità, però anche lui ha la sua esteriorità, la sua vita materiale, in cui deve vivere e con cui deve confrontarsi; però ha una vita interiore sicuramente piú ricca di quella di un uomo che vede e che agisce. Queste però non sono cose che scopro io: sono cose che, nella notte dei tempi, funzionavano; adesso non funzionano piú ma insomma… Ecco: presso i popoli antichi, che inventarono questo mestiere del raccontare – perché raccontare fu un mestiere, prima ancora della scrittura e prima che cominciasse qualsiasi storia – c'erano appunto degli uomini che raccontavano e alcuni di loro erano ciechi. Questo è quanto ne sappiamo.

D. Che cosa unisce il Suo tempo – il tempo per come lo percepisce Lei – al tempo che Lei sente scorrere e vivere attorno a sé?

R. Sono la stessa cosa.

D. Perciò il suo tempo interiore e quello che vede intorno sono la stessa ''materia''.

R. Ecco: Lei mi sta di nuovo portando su speculazioni filosofiche che non mi appartengono. Io posso parlare di un ''tempo narrativo'', che è quello in cui mi muovo e a cui presto la mia vita, perché se anch'io racconto un personaggio del Seicento o dell'Ottocento e voglio renderlo vivo e credibile, gli devo, come dire, ''trasferire'' l'unica vita di cui dispongo, che è la mia. Quindi non farei tante distinzioni tra tempo esterno e interno.

D. A proposito di poesia, Lei crede che sia sciocco o illuso, l'uomo che si sforzi di adempiere all'impossibile missione di dare ''modelli positivi per gli uomini'' tramite la poesia?

R. Ho una concezione abbastanza estrema della poesia. La poesia è qualcosa che accade di rado – in questo sono assolutamente d'accordo con Benedetto Croce, il quale dice che, a voler essere puntuali, si dovrebbe dire che il numero dei poeti è molto inferiore a quello che considerano le Storie della Letteratura. Quindi la poesia è un dono raro e avvelenato. Poi nel mondo ci sono miliardi di persone che scrivono poesie, ma se bastasse un po' di cultura, un po' di, come dire, ''nobile ed elevato sentire''… Be'… Lei avrà capito qual'è la mia idea della poesia – premetto: giusta o sbagliata che sia. Insomma, ripeto, io sono un estremista della poesia: l'unico estremismo che mi è rimasto. La mia idea è che la poesia sia qualcosa che accade ogni tanto per volontà sua (e non per volontà nostra), che non sia desiderabile essere poeti e che a volte un grande poeta possa essere il contrario di ciò che noi ci immaginiamo debba essere: una persona non molto colta, non molto sensibile, non molto ''di elevato sentire''; possa essere un semideficiente, insomma, come è l'ultimo dei poeti che tratto, Rimbaud.

D. Rimbaud: lei lo definisce ''l'Ottuso'', nella seconda parte della sua vita.

R. Dice lui stesso di esserlo, di tornare ad esserlo: si era liberato di questa entità maligna (la poesia, N.d.R.) che lo aveva posseduto per due o tre anni. E morí poi per il lavorio di un'altra entità maligna molto piú fisica – era un cancro al ginocchio.

D. Sempre rimanendo in tema di poesia, mi sembra che lei consideri Virgilio una persona che abbia scritto piú poesia fra le righe che nelle righe.

R. Ah, sicuramente. A parte il fatto che Virgilio è forse, in assoluto, il piú frainteso tra tutti i poeti e tra tutti gli scrittori di tutte le Letterature. Tutti i poeti che hanno lasciato memoria di sé, in qualche modo sono stati fraintesi: forse questo è il prezzo che si paga alla memoria collettiva. Ma Virgilio è stato il piú frainteso, in modo assoluto, da tutti: se Lei pensa addirittura a Dante, che si sceglie come guida per il suo viaggio un uomo che non è mai esistito – cosí come lo immagina lui. Ma ancora oggi, le Storie della Letteratura non è che abbiano capito la realtà di quest'uomo: si oscilla tra il considerarlo un poeta di corte e il considerarlo un vero poeta, un poeta autentico, per alcune tra le cose che ha scritto e non per tutte. In realtà proprio la sua vicenda umana e quindi anche la sua vicenda artistica, sono state assolutamente sentite.

D. Qualcosa, nella Sua scrittura, mi ricorda, non stricto sensu, i contastorie – a parte altre caratteristiche, che mi rimandano a scrittori quali i vivaci Apuleio e Petronio, il Sacchetti o Boccaccio, Yourcenar o Borges…

R. Lei mi fa troppo onore: mi ha messo in una compagnia numerosa ed elettissima, ma io sono uno che racconta storie, non un ''contastorie''. Il mio mestiere è lo stesso di Omero, e parlo di un mestiere che ha avuto delle evoluzioni (ma non grandissime) nel corso dei secoli: un mestiere che bisogna inventare, o meglio reinventare, quasi ogni giorno, però il cui punto di riferimento è uguale per tutti: si cerca di raccontare la realtà che abbiamo attorno, rivelandone qualcosa, e questo ''qualcosa'', in prospettiva lunga, sono i miti che muovono le azioni umane; in questo senso, molto semplice in fondo, potrei rispondere alla sua prima domanda: gli uomini si muovono, anzi prima di agire pensano, poi agiscono in un certo modo, che non è mai uguale nelle varie epoche; essi cioè seguono delle condizioni, hanno dei comportamenti che dipendono da – cercherò ora di definire il mito –… ecco: dipendono da questa loro realtà profonda, talmente profonda che non sono in grado di percepirla mentre vi si adeguano. Ecco: lo scrittore racconta le storie degli uomini ma dovrebbe, attraverso questo racconto (e senza mettersi a fare il teorico ché sarebbe la sua fine), essere capace di portare alla luce non soltanto i comportamenti ma le ragioni profonde che muovono questi comportamenti. Questo è ciò che hanno fatto, piú o meno, quasi tutti quelli che Lei ha nominato, partendo dagli antichi fino alla Yourcenar. Abbiamo in comune un mestiere.

D. Mi viene in mente un episodio di grottesca violenza: quello dell'arrivo dei lanzichenecchi (i soldati imperiali tedeschi) in un piccolo paese del Piemonte. Lei lo racconta nel suo libro piú noto, La chimera. Dunque la forza, la violenza, regolano i tragitti dell'umanità piú che il consenso, la concordia, l'armonia?

R. Allora, partiamo dal presupposto che se gli uomini si volessero bene e si comportassero razionalmente, non ci sarebbero storie. Non esisterebbe nessuna storia. Non so: forse sarebbero felici, forse no, forse si annoierebbero… ma un fatto certo è che, per esempio, io dovrei cambiare mestiere subito: non ci sarebbe piú niente da raccontare. Quindi ciò che muove le storie umane è piú o meno il contrario dei buoni sentimenti e della ragionevolezza. Un mondo di uomini che si amano e che sono assolutamente ragionevoli sarebbe con ogni probabilità un mondo di uomini che ancora vivono sugli alberi anziché sul suolo e che saltano di ramo in ramo con quattro mani. La Storia, supposto che esista, nasce da lí: dalle prime gelosie, dalle prime invidie, dai primi odii; però tutti questi sentimenti, apparentemente abietti, hanno il loro versante positivo, perché se gli uomini non avessero cercato di superarsi fra di loro e se non ci fosse stata la competitività, non ci sarebbe stata la creatività, non ci sarebbe stata l'arte e la ricerca scientifica… e ahimé: non ci sarebbero state neanche le guerre, certo. È un po' come il discorso del bambino dentro la tinozza: se buttiamo via, dobbiamo buttar via tutto, se no dobbiamo tenerci tutto cosí com'è.

D. Questo discorso di natura morale mi fa pensare al Visconte dimezzato di Italo Calvino, che racconta la storia di un cavaliere medievale diviso in due parti uguali da una cannonata durante una battaglia: le due metà sono una buona e l'altra cattiva e continuano a vivere ed operare autonomamente l'una contro l'altra, finché un bel giorno non si riuniscono, restituendo l'uomo alla sua vita, fatta di chiaroscuri… e di molta violenza.

R. Il mondo è sempre andato cosí. La realtà, cosí come ce la vediamo intorno oggi, non è bella. Ma non è mai stata bella.

D. Sí, però il brusio di fondo che lei avverte, questa continua confusione di voci che creano, oggi, soltanto una mancanza di senso: questa ecco è una peculiarità moderna, presente in piú luoghi delle sue opere narrative.

R. È uno dei miei motivi ricorrenti perché è uno dei motivi ricorrenti della realtà; e io cerco di raccontare la realtà per come è. Magari, se la aggiustassimo nei romanzi, i romanzi si venderebbero di piú. Però francamente non è cosa che mi interessi. A me interessa il realismo, che credo sia, poi, l'orizzonte di tutte le arti.

D. Nel suo ultimo Amore lontano, lei ci offre delle diverse ipotesi sulla morte di Omero. Le sembra un'operazione molto realistica?

R. Be', ad esser chiari: stiamo parlando di una persona, Omero, che non si sa nemmeno se sia esistita con questo nome e di cui non si sa assolutamente come sia morta. Io ho cercato di immaginare, nel modo piú strettamente realistico, due o tre scenari possibili di quella morte. Se non è realismo questo! Io muovo le mie storie nel modo piú realistico possibile: a volte addirittura sono costretto a ciò perché parlo di persone realmente esistite e di storie realmente accadute, altre volte sono costretto a fare un'altra operazione che è quella del ''verosimile''. In me è profondamente radicata la convinzione di muovermi sempre a stretto contatto con la realtà, e anche se mi lascio andare a delle ipotesi e dunque mi allontano dal ''vero'' (come lo chiamava Alessandro Manzoni), mi muovo sempre nell'àmbito del ''verosimile''.

D. Fra gli autori fantastici, o di Prosa d'Arte, Lei quale gradisce o di quale mi vorrebbe parlare?

R. Parlando di Prosa d'Arte, che è cosa ben diversa dalla Letteratura Fantastica, mi viene in mente il poeta Dino Campana, il ''Babbo Matto'': quando egli, infatti, parla del suo viaggio a piedi da Marradi a La Verna o parla della Pampa vista dal treno, scrive Prosa d'Arte e non c'è nulla di fantastico in essa. I suoi ''Canti orfici'' sono in gran parte Prosa d'Arte, però non si allontanano molto dal realismo.

D. Se lei pensasse ad Italo Calvino…
R. L'ho conosciuto personalmente: è un autore di libri che conosco e che considero importanti per una fase della sua vita, che poi è la prima: lo scrittore importante, lo scrittore vero, lo scrittore che si confronta con la realtà nel modo secondo me giusto – in quanto cerca di disvelarne i meccanismi – è quello che va dal ''Sentiero dei nidi di ragno'' fino alla ''Giornata di uno scrutatore'', o se vogliamo fino a ''Marcovaldo''. Mi interessa molto ma molto meno il Calvino autore di romanzi strutturalisti, o il Calvino che gioca con i francesi dell'Oulipo, quindi questo fine letterato degli ultimi anni che evidentemente non aveva piú nulla da dire.

D. E quali altri autori le piacciono?

R. Se si parla di un mestiere come quello dello scrittore (o addirittura io preferisco parlare proprio del ''narratore'', perché la scrittura viene dopo: Omero faceva questo mestiere e non si chiamava ancora ''scrittore'' perché non scriveva però faceva già lo stesso mestiere), allora bisogna uscire fuori da questo errore: che i libri nascono dai libri. Io non amo molto un poeta come Neruda ma mi piace molto una sua poesia dove dice: ''Le mie poesie non hanno mangiato poesie''; ecco, allora non si può parlare di Letteratura facendo riferimento ai libri: i libri che nascono dai libri sono povere cose. Io continuo a dire che il mio orizzonte è la realtà: mi considero uno scrittore che cerca di entrare in sintonia con la realtà. Il realismo è il mio punto di riferimento. Quindi non stiamo adesso a parlare di autori, se ciò non è necessario; io ho parlato di autori, nel mio ultimo libro, per dimostrare innanzitutto a me stesso e poi anche agli altri che l'opera non ha molto senso e non ha molta forza se non viene rapportata proprio alla vita che c'è stata messa dentro: la vita dell'omino, del piccolo personaggio (un miliardo fra miliardi). Però, ecco che se noi, leggendo oggi Leopardi o Omero, ci troviamo un'emozione (anche solo in un verso o in una parola), quell'emozione non si è creata dal nulla, cosí come nel mondo fisico nulla si crea e nulla si distrugge: quell'emozione è stata messa lí da qualcuno che l'ha vissuta ed è stato capace di renderla immortale.

 Di Sergio Sozi







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