LA RIVOLUZIONE D'OTTOBRE-INTERVISTA ALLA PROF.SSA M.FERRETTI
Data: Venerd́, 18 gennaio 2008 ore 08:59:23 CET
Argomento: Rassegna stampa


LA RIVOLUZIONE D'OTTOBRE

Storici, archivi e rivoluzione d’ottobre

Intervista alla professoressa Maria Ferretti

a cura di Giulia Pezzella*

 

 

Il novantesimo anniversario della rivoluzione d’ottobre è passato da pochi mesi e può essere l’occasione per dare alcune indicazioni agli insegnanti della scuola superiore su come affrontare oggi questo tema con gli studenti.

La possibilità degli studiosi di accedere agli archivi dell’ex URSS ha portato a rivedere l’interpretazione storica degli eventi che “sconvolsero il mondo” nel 1917. Ne parliamo con la professoressa Maria Ferretti, docente dell’Università della Tuscia di Viterbo, esperta di storia sovietica, autrice del libro La memoria mutilata (Corbaccio, 1993), dedicato alle vittime della repressione, e di altri numerosi saggi sulla storia russa del XX secolo.

 

 

 

Che cosa emerge dagli archivi?

Per quanto riguarda la rivoluzione del 1917, gli archivi permettono adesso di capire meglio chi erano gli attori sociali e politici, i protagonisti, con la loro mentalità e la loro percezione della realtà che ne condizionavano l’agire. Negli ultimi 15 anni, sono state per esempio pubblicate fondamentali raccolte di documenti sui diversi partiti politici. Per quel che riguarda il variegato campo socialista, abbiamo ora una conoscenza abbastanza approfondita delle posizioni e dei dibattiti interni, nonché del concreto agire politico in una situazione in rapido cambiamento, dei maggiori partiti che si opposero al colpo di mano bolscevico dell’ottobre, i socialisti-rivoluzionari, profondamente radicati non solo nelle campagne, dove viveva la quasi totalità della popolazione (85%), ma anche fra gli operai, e i menscevichi, l’ala riformista della socialdemocrazia russa. I menscevichi, per esempio, che sono rimasti segnati anche nella nostra memoria dagli apprezzamenti poco lusinghieri dei bolscevichi vincitori, avevano grande spessore politico e culturale. Avevano accettato di entrare nel governo provvisorio nella primavera del 1917, dopo la crisi del primo governo liberale sorto dalla rivoluzione di febbraio, con l’intenzione di sostenere un’avanzata politica di riforme sociali (salari, legislazione del lavoro ecc.) che soddisfacesse i bisogni e le richieste degli operai del Soviet di Pietrogrado di cui erano i rappresentanti, una politica simile, per molti versi, a quella che verrà seguita dalla socialdemocrazia tedesca nella Germania di Weimar. Fecero la difficile scelta, per dirla col linguaggio di oggi, di essere al tempo stesso partito di lotta e di governo. E, non potendo rinunciare a nessuno dei due momenti, poiché da un lato non volevano tradire la loro base sociale e, dall’altro, il senso di responsabilità nei confronti del paese impediva loro di schierarsi con le rivendicazioni più radicali andando contro il governo, finirono stritolati. Infatti, l’aggravarsi della crisi economica e sociale ridusse drasticamente, nel giro di pochi mesi, i margini di manovra per qualsivoglia riforma e i menscevichi finirono per trovarsi sempre più isolati, mentre gli operai esasperati e, più in generale, le masse popolari si radicalizzavano, accordando il loro sostegno ai bolscevichi, che cavalcavano la tigre del malcontento e della protesta, promettendo demagogicamente impossibili benefici e vantaggi. Fu così che, nel disincanto e nella disillusione, si arrivò all’Ottobre. E vani furono i tentativi dei menscevichi e degli altri partiti socialisti di provare a riprendere il controllo della situazione e rimettere il paese sulla via della democrazia. I bolscevichi rifiutarono recisamente la creazione di un governo socialista di coalizione, che pure avrebbe potuto avere largo consenso nella società.

 

 

 

E per quanto riguarda i bolscevichi?

Quel che emerge con chiarezza dagli archivi, anche oltre ogni ragionevole dubbio, è il loro virulento fanatismo. I bolscevichi erano convinti di essere gli unici depositari della ricetta per costruire il paradiso futuro, il comunismo. Proprio questo fanatismo, che li spinse a rifiutare ogni compromesso o mediazione con gli avversari politici, considerati semplici nemici da schiacciare, permette di capire come Lenin e i suoi compagni crearono, appena un mese dopo la rivoluzione, la Čeka, la terribile polizia politica che, al di sopra di ogni legge, permise di reprimere senza andar tanto per il sottile chiunque si opponesse al potere bolscevico. Fu la Čeka, antenata del più celebre KGB, che disperse, nel gennaio del 1918, quell’Assemblea Costituente eletta a suffragio universale e in cui i bolscevichi non erano che una minoranza.

Paradossalmente, i bolscevichi riuscirono a mantenersi al potere perché, per esempio, a differenza dei menscevichi – che avevano assistito impotenti al radicalizzarsi delle masse popolari – non ebbero remore a sparare su quegli stessi operai con la bandiera rossa in mano che dicevano di voler rappresentare e che difendevano la Costituente. E non ebbero remore, nei primi mesi del 1918, a reprimere tutti i tentativi di protesta operaia, facendo ricorso alle detestate armi già usate, in situazioni analoghe, dallo zarismo: licenziamenti, chiusura di fabbriche, condanne al confino amministrativo per gli operai turbolenti e via dicendo. Contrariamente a quanto la vulgata dominante voleva far credere, il rapporto fra i bolscevichi e gli operai è in realtà, come mostrano gli archivi, estremamente complesso: seppure gli operai costituivano, almeno inizialmente, la base sociale del partito bolscevico, questi erano, fra i loro compagni di lavoro, una minoranza.

Con questo, non si vuole tuttavia sostenere che i bolscevichi fossero dei demoni, come spesso oggi si ama dipingerli, dei cinici spregiudicati senza ideali, degli assatanati assetati di sangue. Non avevano nemmeno, a differenza di altre correnti estremiste dell’inizio del XX secolo, il culto della violenza. Semmai, non erano immunizzati contro la violenza: non erano in grado di valutarne esiti e conseguenze. Formatisi nel culto della rivoluzione francese e del giacobinismo (il loro eroe è Robespierre), profondamente segnati da quella spaventosa orgia di violenza che fu la prima guerra mondiale, i bolscevichi non esitarono a farvi a loro volta ricorso per fronteggiare una realtà che, con la loro cultura politica, non seppero affrontare altrimenti. E la fede fanatica nella loro missione nei confronti dell’umanità intera li portò a considerare che il fine – la vittoria della rivoluzione – giustifichi i mezzi. Va anche detto che la violenza politica scatenata dai bolscevichi dall’alto venne alimentata e moltiplicata dalla violenza sociale che montò dal basso, nutrendosi di conflitti e rancori antichi. Non ci si può scandalizzare nemmeno per il fatto che i bolscevichi non fossero democratici: non avevano mai preteso di esserlo. Del resto, sarebbe meglio interrogarsi sul senso stesso del termine democrazia all’epoca, invece di usarlo come un passepartout per giudicare, piuttosto che per capire, il passato. Come diceva Marc Bloch, per disperazione degli storici il senso delle parole cambia impercettibilmente col tempo, troppo lentamente perché gli uomini ne siano consapevoli e cerchino nuovi vocaboli.

 

 

 

 

 

 

Gli archivi erano e sono pieni di milioni di documenti. Saranno necessari molti anni prima che possano essere studiati e interpretati. Quali sono stati gli argomenti che hanno avuto la precedenza sugli altri?

L’epoca staliniana è stata condannata, dopo la morte del dittatore (1953), a un oblio forzato. I grandi temi su cui si è lavorato con maggiore sistematicità finora sono stati la collettivizzazione e le repressioni, il Terrore e il Gulag, ovvero le pagine di storia più dolenti e che costituivano memoria vissuta (familiare se non personale) per la maggior parte della popolazione. Erano inoltre le cose più nascoste, il tabù dei tabù. Perché dopo la fine dello stalinismo le tragedie più terribili sono state accuratamente nascoste. Anche se, per fortuna, i documenti non sono stati distrutti.

 

 

 

Nonostante si sapesse che “non è tutto oro quello che luccica”, la rivoluzione d’ottobre è stata mitizzata per molti anni. Come mai?

Questo dovrebbe piuttosto chiederlo a uno specialista di storia delle mentalità e della cultura occidentale, non a me! Il mito dell’Urss e della rivoluzione d’Ottobre è stato parte integrante della cultura comunista, che lo ha propagato ben al di là dei suoi confini. Se ha fatto presa con tanta facilità, è perché rinviava a un’utopia ben diffusa fin dalla nascita del movimento socialista in Occidente dove – è bene non dimenticarlo – era nata. Un’utopia che prometteva una società più giusta, in cui tutti gli uomini fossero liberi e uguali, in cui non ci fosse più sfruttamento dell’uomo sull’uomo, dominio di una classe sull’altra. Un’utopia che prometteva, più concretamente, l’istruzione gratuita per tutti, l’assistenza sanitaria, il lavoro garantito. Cose che, secondo la propaganda sovietica, erano state realizzate in Urss grazie alla rivoluzione: era facile aderire a questo modello senza porsi tante domande. Senza chiedersi se fosse vero, e, soprattutto qual era stato e qual era il prezzo. L’esistenza dell’Urss era la prova che l’utopia era possibile, a portata di mano. Il che era tanto più importante quanto più le prospettive di un socialismo in Occidente concretamente si allontanavano. Come se si avesse sempre bisogno di proiettare sull’altro quel che non si riesce a fare, come se l’altrove fosse la garanzia della possibilità di realizzare un sogno. Quando il mito dell’Urss ha cominciato a mostrare le crepe, ci si è affrettati a volger altrove lo sguardo e a creare il mito della Cina, con la rivoluzione culturale, scambiando massacri e rese di conti come libertà superiore e eguaglianza… Vedere la realtà avrebbe costretto a interrogarsi sul serio su se stessi. Si è preferito, per lo meno all’interno di quasi tutta la sinistra italiana, distogliere lo sguardo. Perché non è che prima dell’apertura degli archivi mancassero le informazioni: incomplete, certo, frammentarie, ma pur sempre informazioni su cui si poteva riflettere. Le testimonianze raccolte dai menscevichi, costretti a prender la via dell’emigrazione, trovarono ben poche persone pronte ad ascoltarle. Dopo la guerra, col decisivo contributo dato dall’Urss alla sconfitta dei nazifascismi, le voci critiche trovarono, almeno all’interno del campo che si definiva progressista e democratico, sempre meno eco, soprattutto in Italia. Credo del resto che non si sia riflettuto abbastanza sul ruolo della cecità nella storia: in fondo vediamo sempre soltanto quello che vogliamo vedere.

 

 

 

Quali sono i fatti di cui ancora si parla poco?

La guerra civile, per esempio, che è ancora intesa come scontro fra i rossi e i bianchi, i bolscevichi contro le forze della restaurazione. In realtà, la fase forse più crudele e sanguinaria della guerra civile si aprì dopo la sconfitta dei bianchi, quando le campagne insorsero contro il potere bolscevico, che strappava ai contadini il frutto del loro lavoro senza dar loro niente in cambio, rendendo perciò vana la promessa in nome della quale i villaggi avevano appoggiato la rivoluzione: la proprietà della terra, antico sogno dei contadini russi. Per reprimere le insurrezioni contadine che infiammarono il paese fra il 1920 e il 1921, i bolscevichi ricorsero alle tecniche di guerra totale sperimentate nel corso della prima guerra mondiale: villaggi rasi al suolo, case incendiate, prese di ostaggi, uso di gas asfissianti per ‘ripulire’ le foreste dai ribelli e via dicendo. Le rivolte contadine hanno potuto essere ricostruite soltanto negli ultimi anni, grazie all’apertura degli archivi, perché prima se ne sapeva in effetti ben poco. L’esperienza della guerra civile ebbe in realtà un’importanza determinante nel condizionare i successivi sviluppi del sistema. L’abitudine alla violenza, l’idea che l’impiego della forza servisse a risolvere rapidamente i problemi, lasciarono un’impronta profonda sulla mentalità e la cultura politica dei bolscevichi, come si vedrà poi nel costituirsi, alla fine degli anni Venti, della dittatura staliniana.

La rivoluzione è figlia della crisi della modernità.

 

 

 

Quali suggerimenti darebbe a un insegnante che sta preparando una lezione sulla rivoluzione d’ottobre?

Gli suggerirei di storicizzare la rivoluzione del 1917, che del resto, dopo la fine del Secolo breve e il naufragio dell’Urss, appare ormai un evento assai lontano nel tempo. La rivoluzione russa va letta, a mio avviso, all’interno di una duplice prospettiva. Da un lato c’è il più generale processo di modernizzazione che fra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo investe tutti i maggiori paesi europei, Russia compresa, un processo accompagnato da grandi tensioni sociali, che mettono a dura prova la tenuta dei sistemi politici. In Russia, l’impatto della modernizzazione su una società povera e arretrata, segnata da grandi sperequazioni sociali e priva, per via dell’arcaismo del sistema politico autocratico, di istanze di mediazione e composizione in cui potesse trovar sbocco l’elevata conflittualità sociale, finì per generare sommovimenti rivoluzionari: va ricordata la rivoluzione del 1905, che per certi aspetti è ancora più ‘pura’, e dunque più interessante, di quella del 1917, per cogliere il nesso dello scontro fra arretratezza e modernità. Rivoluzione a dominante contadina, la rivoluzione russa sembra essere in realtà la prima rivoluzione contro l’arretratezza. D’altra parte, la rivoluzione del 1917 è figlia di quella crisi della modernità di cui la prima guerra mondiale è il simbolo. La rivoluzione bolscevica non è, infatti, pensabile senza la guerra, senza quello scatenarsi della violenza che questa comportò, senza l’accettazione della morte di massa e la brutalizzazione della vita politica che ne conseguì e che è facilmente reperibile fin nel linguaggio: gli avversari politici si trasformano in nemici, figure astratte da annientare e liquidare…

Suggerirei anche agli insegnanti di liberarsi da quegli stereotipi e luoghi comuni che ci sono rimasti dall’interpretazione tradizionale, basata sulla lettura degli avvenimenti dei protagonisti. Il più celebre è la contrapposizione fra una rivoluzione borghese, liberale e democratica, quella di Febbraio, e una rivoluzione d’Ottobre proletaria e socialista. È difficile infatti qualificare come ‘borghese’ la rivoluzione di Febbraio, frutto di una spontanea insurrezione popolare al suono della Marsigliese russa, ben più socialmente connotata dell’originale francese, e con le bandiere rosse, di cui soltanto dopo Ottobre i bolscevichi cercheranno di assicurarsi il monopolio.

 

 

 

*Dottore di ricerca in Storia dei partiti e dei movimenti politici, ha lavorato sui temi relativi alla storia elettorale e sull’analisi dei testi legislativi. Collabora con la casa editrice Leonardo International.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 







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