IL LABORATORIO DI FILOSOFIA
Data: Sabato, 12 gennaio 2008 ore 14:57:56 CET
Argomento: Rassegna stampa


Il laboratorio di filosofia
Fulvio Cesare Manara*

 

 

 

 

 

Avrete sicuramente constatato la potenza di un dialogo autentico in classe, quando capita. Un'esperienza in cui, invece di fornire le risposte dei filosofi alle domande filosofiche, avete cominciato una lezione con un dilemma, o delle domande 'spiazzanti' per i vostri allievi, domande che hanno generato in loro un'autentica esperienza di dissonanza cognitiva e li hanno spinti a cercare con il pensiero nuove risposte piuttosto che affidarsi a quelle già scritte.
Avete mai provato ad attivare un corso di 'fenomenologia sperimentale'? Se lo avete fatto, avrete constatato che produce risultati estremamente diversi da una semplice 'spiegazione' di Husserl e della fenomenologia (alla fine della quale, ahimè, nonostante i migliori vostri sforzi, gli studenti rimanevano perplessi e sostanzialmente incompetenti).
Come molte avventure filosofiche, la mia pratica del laboratorio di filosofia è cominciata abbastanza casualmente. Qui tento di darvi un'idea di quello che è emerso, e di come vedo in termini essenziali il progetto, per chi volesse cominciare a praticarlo organicamente.

 

 

Nuove pratiche in cerca di una collocazione pedagogico-didattica
Da una ventina d'anni a questa parte, o poco meno, progressivamente si sono introdotte nella didattica degli insegnanti italiani di filosofia nuove pratiche, almeno da parte di alcuni, motivati da una sempre più estesa e crescente insofferenza per abitudini spesso consolidate, centrate sulla scansione storico-manualistica, sull'uso del manuale, sulla lezione frontale, l'interrogazione-restituzione-delle-conoscenze ecc. Anch'io mi sono trovato tra coloro che hanno sofferto di questa insofferenza, e hanno tentato, molto artigianalmente - se vogliamo - nuove pratiche di insegnamento, con una curiosità personale per ogni forma di attività didattica creativa e coinvolgente, attiva, attraverso cui tentare di invitare gli allievi a un'avventura personale. In realtà, non credo esistessero allora, e penso non ci siano oggi alternative: credo che sia opportuno lasciarsi guidare dalla ricerca dialogale, dall'interesse per ogni progetto realmente 'interattivo' e autenticamente comunicativo.
Un primo elemento di apertura verso pratiche nuove o più scaltrite, abbastanza presente nella tradizione, consiste nella proposta di un incontro diretto con i testi degli autori, ed ecco la didattica centrata sul ricorso ai testi, e sulla loro 'centralità'. Un'aperta riscoperta delle forme più attive dell'oralità, come la discussione guidata, il dialogo socratico, il brainstorming, il dialogo 'clinico', è stata proposta di rincalzo, quando, per esempio, ci si è accorti che la lettura dei testi dei filosofi non poteva che realizzarsi mediante un approccio dialogale, in cui coinvolgere gli studenti, piuttosto che sottoporli in maniera estrinseca a una serie di eserciziari di analisi 'precotti' di cui si poteva correre il rischio che non ne comprendessero il senso, e che sicuramente avrebbero potuto essere demotivanti.
Poi, pian piano sono via via apparse altre pratiche, delle quali le più giovani e inedite sicuramente sono quelle legate alle cosiddette nuove Tecnologie dell'Informazione e della Comunicazione, in sostanza alla diffusione dell'informatica e della strumentazione multimediale fra le tecnologie della formazione e dell'istruzione. Un altro allargamento delle abitudini didattiche - questo molto inusuale nella nostra tradizione, che, chi sa perché, ha sempre ritenuto la filosofia una materia orale - è rappresentato infine dal ricorso alla 'scrittura' filosofica, con modalità diversificate: una produzione scritta, che spazia dalla 'composizione di filosofia', simile alla dissertation della tradizione francese, al ricorso alla produzione ed elaborazione di mappe e schemi concettuali ecc.
Ebbene, questa ricca pluralità di pratiche nuove o rinnovate chiede di non essere gestita da parte dell'insegnante in modo occasionale, o disordinato. È necessario che si ripensi la pratica dell'insegnamento della filosofia nel suo complesso, per permettere che questa ricca pluralità di metodi, strumenti e attività non corra il rischio di disorientare e impoverire l'insegnamento filosofico, invece che rinsaldarlo e rinnovarlo in efficacia, efficienza e significatività. È precisamente questo il senso che attribuisco a una ricerca-sperimentazione sistematica sul laboratorio di filosofia.

 

 

Criteri per un riorientamento della didattica della filosofia
Senza pretesa di definire una sintesi pedagogico-didattica che a tutt'oggi appare ancora in via di elaborazione, sono però convinto che siano fin d'ora identificabili alcuni primi semplici criteri di riorientamento olistico, complessivo e sistemico, e ritengo che possano essere rappresentati almeno dai seguenti punti:

 

 

  • in una classe di filosofia non si tratta di imparare cosa hanno detto i filosofi, quanto di imparare a pensare filosoficamente, dialogare con i filosofi del passato e confilosofare con le altre persone, non tanto di imparare argomenti esposti da altri, quanto imparare ad argomentare;

     

  • non si tratta di sottoporre gli studenti a esercizi predisposti estrinsecamente da parte di altri, quanto di esercitare le abilità che specificamente aiutano a pensare filosoficamente. Nell'antichità, sappiamo che erano considerati significativi per il filosofare alcuni 'esercizi spirituali' come la lettura, il dialogo, la meditazione personale ecc. Ma ogni pratica espressiva e comunicativa può essere orientata a questo, purché incontri la motivazione dello studente (sia per lui significativa, e rappresenti una 'domanda legittima'). In sostanza, la pratica del filosofare, quale che sia la sua modalità espressiva, è rappresentata dal 'domandare tutto e tutto domandare', ossia dall'interrogare radicale;

     

  • la personalizzazione degli interventi didattici: un workshop permanente di filosofia, grazie alla diversificazione delle attività, ed anche grazie ad una maniera diversa di attrezzare l'aula, permette di facilitare allievi che hanno intelligenze diverse con diversi interventi, che rispettino altresì i tempi di apprendimento e di cambiamento di ciascuno;

     

infine un punto di vista didattico da parte del docente che si interessi all'autentica integrazione tra le diverse pratiche, e ne proponga una utilizzazione in modalità reticolari, secondo quello che definisco la 'circolarità delle pratiche'. Non ci sono solo diverse tipologie di lezione cui l'insegnante deve saper far ricorso, e una serie di esercizi possibili, ciascuno utilizzabile separatamente in relazione a specifiche attività e determinati obiettivi. Si tratta piuttosto di costruire una capacità progettuale aperta, che mi sembra possibile quando non consideriamo le pratiche didattiche in relazione ai singoli modelli didattici che utilizziamo, ma quando ci rendiamo conto che siamo chiamati a una ricerca-sperimentazione pedagogica complessa e permanente.
Insomma, un metodo 'attivo', che richiama esplicitamente l'idea della 'comunità di ricerca', la quale, com'è noto, non è semplicemente una comunità di apprendimento.
Una comunità di ricerca filosofica, quindi, che nella pluralità e grande varietà delle pratiche cui fa ricorso, permette a ogni partecipante di attivarsi personalmente, di esercitare quelle abilità di cui dispone per farne vere competenze.
In fondo, come già Platone ricorda nel commentare la sua allegoria della caverna, educare non è riempire l'anima vuota degli allievi, non è 'l'arte di infondere la vista' in occhi che già ce l'hanno, quanto l'arte di guidare l'allievo ad una vera e propria 'metanoia': il che vuol dire, nei termini del cognitivismo di seconda generazione, guidare l'allievo a una 'conversione' dell'intelligenza a forme più adulte, più aperte, più raffinate, più complesse (Manara, 2004; Ruffaldi e Trombino, 2004).

 

 

*Insegna nel liceo Edoardo Amaldi di Alzano Lombardo e nella Facoltà di Lettere e filosofia dell'Università di Bergamo

 

 



 

 

 

 

 

 

 

 

 







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