VERITA' E MENZOGNA NELLA STORIA DELLA FILOSOFIA POLITICA
Data: Sabato, 12 gennaio 2008 ore 00:05:00 CET
Argomento: Rassegna stampa


Verità e menzogna nella storia della filosofia politica
 di Lorella Cedroni*

 

Il rapporto tra verità e menzogna è centrale nella storia della filosofia politica. La convinzione ormai diffusa e accettata che i politici possano mentire per necessità rende il ricorso alla menzogna compatibile con la politica e la relazione tra quest’ultima e la verità sempre più problematico e compromesso.

Chi può esprimere la verità e chi può accedere a essa?
 Fin dal V secolo a.C. i filosofi dell’antica Grecia hanno evidenziato l’esistenza di un rapporto molto stretto tra esercizio del potere, menzogna e verità o, meglio, parresia definibile come attività verbale in cui il parlante sceglie di dire cose chiare e franche (M. Foucault, Discorso e verità nella Grecia antica, Roma, Donzelli, 2005). Euripide, Socrate, Platone e Aristotele considerano la parresia un’idea centrale della costituzione ateniese e allo stesso tempo un atteggiamento etico caratteristico del buon cittadino. Tre sono infatti i requisiti della democrazia ateniese: l’eguale diritto di parola (isegoria), l’eguale partecipazione di tutti i cittadini all’esercizio del potere (isonomia) e la parresia politica, esercitata nell’agorà, ossia pubblicamente in assemblea, attraverso la libera manifestazione delle proprie opinioni. Tale pratica, tuttavia, può rivelarsi pericolosa per la democrazia: se ciascun cittadino può dire la sua, e tutte le opinioni si equivalgono avendo pari dignità, l’accesso alla verità diventa problematico e, a volte, definitivamente precluso. Sorge allora l’esigenza di stabilire chi è titolato a esprimere la verità, avendo le capacità cognitive per discernere il vero dal falso, e chi ha diritto ad accedere alla verità, problema strettamente connesso alla titolarità del potere (di chi governa), e all’obbligo politico (di chi obbedisce). Per Platone coloro che dispongono del privilegio della menzogna sono i reggitori filosofi, i quali, sapendo discernere tra verità e menzogna, utilizzano quest’ultima come un 'farmaco', solo per il bene della città (Repubblica, 389b e Leggi, 722 b-c).

Il bene presuppone il vero
 Con il cristianesimo – e già nella ricezione ebraica delle Scritture - la menzogna viene considerata un atto sociale; Dio non chiede di 'dire la verità', bensì di non 'rendere falsa testimonianza', ovvero di non commettere quell’atto di violenza che è l’inganno, sia esso compiuto per nobili o abietti motivi, per difesa o addirittura per amore. I Padri della Chiesa sostengono fermamente che non si deve mai mentire. Nel De mendacio Agostino d’Ippona fornisce una tipologia molto articolata della menzogna. In genere si mente per compiere del male, per donare un piacere, per salvare una vita, per guadagnare un bene spirituale o per evitare a qualcuno di subire un oltraggio. La menzogna, tuttavia, non è mai ammissibile, anche se viene espressa inconsapevolmente. Tommaso d’Aquino, riprendendo le argomentazioni di Agostino, asserisce che il bene presuppone il vero e ribadisce che la menzogna è un peccato contro la verità. Egli distingue la menzogna da altre forme di non sincerità, come la simulazione, l’ipocrisia, la millanteria e l’ironia, tutte, comunque, da evitare (Summa theologiae, II, IIae, q. 110, a. 1).

Pro e contro la dissimulazione in politica
 L’uso politico della menzogna, finalizzato esclusivamente al mantenimento del potere, viene perorato da Machiavelli: colui che governa deve esercitare una 'virtù' che non è platonica conoscenza della verità, né cristiana identificazione con i precetti evangelici, quanto piuttosto aristotelica 'abilità' di simulare e dissimulare, di unire l’astuzia alla forza, senza apparire spergiuro e mentitore (Il Principe, xviii).
 La pratica della menzogna a fini politici viene invece bandita da altri filosofi moderni; tra gli altri, Ugo Grozio afferma che essa lede sempre e comunque il diritto alla conoscenza di colui al quale sono diretti parole o segni. Nei Prolegomeni al diritto della guerra e della pace egli parla di una 'mutua obbligazione al vero', riferendosi al contratto implicito a usare parole e frasi secondo il lessico condiviso, come convenzione a non ingannare.
 Anche per Kant la verità è un dovere incondizionato di fronte a tutta l’umanità, mentre la menzogna è una rovina per l’intera società e per le sue stesse fondamenta: chi mente abolisce la società (Sui doveri etici verso gli altri. La veridicità). Nella diatriba con Benjamin Constant, secondo il quale "dire la verità è un dovere, ma solo nei confronti di chi ha diritto alla verità" (Sulle reazioni politiche), Kant dimostra come tale asserzione sia priva di senso, in quanto un simile diritto oggettivo farebbe dipendere, contro ogni logica, dalla volontà del singolo la verità o falsità di una proposizione. Mentire, per Kant, non è mai lecito e se anche l’interlocutore fosse indegno della verità, nel mentirgli non commetterei solo un’ingiustizia verso di lui, ma agirei 'contro i diritti dell’umanità' intera (I. Kant, B. Constant, La verità e la menzogna. Dialogo sulla fondazione morale della politica, Milano, Bruno Mondadori, 1996).


Ritratto di Hannah Arendt. Immagine tratta dal sito: www.geocities.com

La pericolosità del concetto di 'verità inconoscibile'
In epoca contemporanea Hannah Arendt ha distinto tra verità di fatto e verità secondo ragione; la prima è 'politica per natura', in quanto "è sempre connessa agli altri, concerne eventi e circostanze in cui sono coinvolti in molti, è stabilita da testimoni e conta sulla testimonianza" (H. Arendt, Verità e politica, Torino, Bollati Boringhieri, 1995). Eppure il rispetto per la verità di fatto viene percepito come un’attitudine antipolitica, al contrario della menzogna, intimamente legata alla capacità dell’uomo di agire e di trasformare la realtà: "L’abitudine a dire la verità non è mai stata annoverata fra le virtù politiche, e le bugie sono sempre state considerate strumenti giustificabili negli affari politici" (H. Arendt, La menzogna in politica. Riflessioni sui 'Pentagon Papers', Genova, Marietti, 2006).
 Tuttavia la menzogna finisce in realtà per mostrare, prima o poi, il suo impatto distruttivo sulla politica, che si realizza massimamente nei regimi totalitari. Come sostiene Augusto Del Noce, in essi abbiamo la manifestazione esplicita del rapporto esistente tra negazione della ricerca della verità e paura che ne consegue (A. Del Noce, La verità e la paura, in “Storia e politica”, a. xxiii, giugno 1984, pp. 239-248).
 Anche la democrazia, se si fonda sull’idea di una verità inconoscibile, può degenerare in totalitarismo. La verità costituisce, pertanto, l’essenza irriducibile della politicità, il cui carattere plurale e molteplice ne garantisce l’accesso. Chi non crede nella verità – afferma Norberto Bobbio – sarà sempre tentato, soprattutto in politica, di 'rimettere ogni decisione alla forza' (N. Bobbio, Verità e libertà, in Id., Elogio della mitezza e altri scritti morali, Milano, Linea d’ombra edizioni, 1996, pp. 55-66).

 *Insegna Filosofia Politica presso l'Università di Roma 'La Sapienza'.








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