"LA CONDIZIONE DEGLI INTELLETTUALI OGGI" di ROMANO LUPERINI
Data: Giovedì, 03 gennaio 2008 ore 00:05:00 CET
Argomento: Rassegna stampa


"La condizione degli intellettuali". Prolusione tenuta in novembre per l'apertura dell'anno accademico 2007-08 dell'Università degli studi di Siena.

1.
Per due secoli gli intellettuali hanno fatto sentire la loro voce legittimati – ha scritto Pierre Bourdieu - da «un’autorità specifica fondata sulla appartenenza al mondo relativamente autonomo dell’arte, della letteratura e della scienza, e su tutti i valori associati a tale autonomia – disinteresse, competenza ecc.». Una condizione di autonomia corporativa garantiva loro un universalismo di valori. L’indipendenza culturale e morale del loro specifico campo diventava ragione di autorità e di prestigio in ogni campo. Gli intellettuali funzionavano come indispensabili mediatori della formazione del senso. Era il grande corporativismo dell’universale, come lo ha chiamato ancora Bourdieu. Un paradosso, se si vuole, grazie al quale gli intellettuali potevano parlare a nome di un corpo separato e, insieme, della totalità dei rapporti umani. Fichte, all’inizio dell’Ottocento, l’aveva chiamato la «missione del dotto», dando dignità ideologica a comportamenti e spunti culturali che in realtà si erano andati affermando già dall’età dell’illuminismo.
Si è sviluppata così una tradizione che da Zola dell’affaire Dreyfus, attraverso Freud e Einstein, Russel e Sartre, ha avuto corso anche in Italia sino agli anni Settanta del Novecento e, se si vuole, sino a un altro affaire, L’affaire Moro di Leonardo Sciascia. Che si trattasse di una tradizione ormai in via di estinzione lo aveva intuito uno di questi ultimi grandi intellettuali complessivi, un poeta fra i maggiori del Novecento che è stato nostro collega e ha insegnato a lungo in questa nostra università tenendovi, fra l’altro, la prolusione per l’apertura dell’anno accademico 1981-1982, Franco Fortini. In un saggio del 1971 scriveva infatti che «il processo di distruzione del corpo separato degli intellettuali è così avanzato che il termine stesso di “intellettuale” è quasi inutilizzabile». Sempre più, infatti, l’intellettuale è sostituito «dallo specialista», dal tecnico o dall’esperto che pone il proprio sapere al servizio di una istituzione – pubblica o privata, non importa – senza più capacità o possibilità di vedere al di là di questo orizzonte settoriale. «Ogni attività intellettuale», scriveva allora Fortini, viene ridotta «alla sua gretta specializzazione e tecnicità». In altri termini: la forbice, e la contraddizione, fra funzione e ruolo, presente in ogni lavoro intellettuale, tende a contrarsi, risolvendosi a vantaggio del secondo.
Il ruolo si definisce in un ambito immediatamente sociale. Coincide con la mansione assegnata dalle istituzioni, siano esse gli apparati scientifici ed educativi di uno stato, il sistema delle pubbliche comunicazioni, un ente o una azienda privata, o il governo stesso di una nazione. Comporta un sapere, un insieme di competenze specifiche, in cambio di uno stipendio; implica dei finanziamenti pubblici o privati per la ricerca; uno status, dei compiti, anche burocratici, e la collocazione in una gerarchia. Da questo punto di vista l’intellettuale è sempre anche un funzionario.
La funzione si colloca invece in un ambito antropologico e storico. Coincide con una attività intellettuale che segue la propria logica, aspira a una purezza priva di condizionamenti e tende perciò a scavalcare la dinamica delle istituzioni e degli enti concreti per obbedire solo all’etica della ricerca e per rivolgersi non a un committente preciso ma ai destini generali della umanità intera.
La storia non solo delle discipline umanistiche ma anche di quelle scientifiche, a partire dalla vicenda esemplare di Galileo Galilei, è ricca di episodi in cui si manifesta ed esplode, talora anche tragicamente, questo tipo di contraddizione. Nella normale vita dell’Occidente, però, i due aspetti sono di fatto inseparabili, legati da un rapporto dialettico strettissimo: una funzione non esiste senza un ruolo, e viceversa.
Negli ultimi decenni la tendenziale scomparsa dell’intellettuale è anche riduzione o annullamento della funzione e progressivo trionfo del ruolo. Il maestro non è un educatore ma un docente; chi siede nei tribunali non è un giudice ma un magistrato; chi cura gli infermi non è un medico ma un operatore sanitario. L’educazione, la giustizia e la salute vengono sostituite dalla loro amministrazione settoriale, e cioè tecnica e burocratica. Ne derivano alcuni vantaggi, ma anche qualche sicuro svantaggio. Il mezzo, infatti, può anche dimenticare il fine in nome del quale dovrebbe esistere.

2.
Il potere ha sempre avuto bisogno del sapere. E viceversa il possesso del sapere ha costituito sempre una forma di potere. In un mondo come quello attuale dell’Occidente, in cui il settore-guida in campo industriale è quello che produce merci immateriali, vale a dire informazioni, pubblicità, spettacolo e insomma linguaggio, potere e sapere s’incardinano sempre più nel sistema delle comunicazioni. Il potere del linguaggio e il linguaggio del potere tendono a unificarsi. Ciò accade tanto nella sfera economica e produttiva, quanto in quella politica, e si manifesta nella loro interferenza sempre più stretta. Il sapere-potere dei singoli intellettuali e anche degli intellettuali come ceto o corporazione è selezionato e filtrato da apparati tecnologici, da enormi complessi produttivi e anche da istituzioni pubbliche (quella educativa, per esempio). Queste ultime però risultano sempre più deboli e sempre più dipendenti, giacché quei complessi produttivi si erigono davanti a loro come modelli da imitare e a cui uniformarsi. Potremmo dire che il sapere-potere degli intellettuali si liquefà all’interno di questi apparati, si frantuma in essi che ne decidono o largamente ne condizionano le scelte fondamentali. Inseriti in questi grandi apparati di sapere-potere, che rispondono a pochi centri di comando integrati, nazionali e multinazionali insieme, gli intellettuali non hanno reale possibilità di controllo su di essi. Si riducono a semplici lavoratori della conoscenza, costretti a fare i conti, sino a metà della loro vita se non oltre, con instabilità, mobilità, flessibilità e dunque a sviluppare una elevata capacità di conversione. La cultura umanistica, sminuzzata e ridotta a un insieme di informazioni e di competenze generiche, può ora acquisire persino un nuovo valore in quanto componente di una formazione di base variamente interdisciplinare e fungibile, capace di adattarsi a condizioni diverse e di fornire alcuni strumenti interpretativi. La Ict (Information and communication technology) ha bisogno di questo tipo di ingranaggio per funzionare. Sia il lavoro di formazione delle informazioni, sia quello del loro consumo richiedono infatti che il materiale informativo venga comunque elaborato. Ma non si tratta più di una attività di mediazione; a mediare – o meglio a imporre i propri prodotti – ci pensano direttamente, e in proprio, gli apparati tecnologici. Da parte loro, questi nuovi lavoratori della conoscenza hanno perduto qualsiasi autonomia; e non hanno neppure più nulla in comune con la tipologia dell’intellettuale tradizionale di cui parlava Antonio Gramsci.
Solo in pochi settori, fra cui soprattutto quello educativo (scuola e università), il meccanismo della mediazione non è del tutto scomparso, ma si è piuttosto ridotto e spostato, delocalizzandosi in apparati di fatto sempre più marginali e tuttavia indispensabili in qualsiasi tipo di società. È soprattutto in essi che si è realizzato quel passaggio di cui parla Bauman da intellettuale-legislatore a intellettuale-interprete, creando una figura di intellettuale flessibile e slogata e nondimeno capace di collegare fra loro fenomeni diversi (storici, filosofici, letterari, scientifici) e di leggerli in una prospettiva culturale e civile non immediatamente riducibile o subordinabile all’ambito economico-produttivo. Infatti in questi ambiti i tentativi di riforma effettuati in nome della logica produttiva e delle regole di mercato si sono scontrati non solo con la forza conservativa delle tradizioni, ma anche con una sostanziale eteronomia dei fini (per sua natura, per esempio, l’educazione non potendo assumere quelle regole come esclusivi punti di riferimento).

3.
La tendenza fondamentale che agisce all’interno del campo intellettuale e dei suoi processi sociali molecolari crea nondimeno, con il suo stesso movimento di affermazione, una serie di contraccolpi e di controspinte.
Anzitutto sta venendo meno la tradizionale distinzione fra fatti oggettivi di cui si occuperebbe la scienza e valori di cui si occuperebbero invece la religione e la politica. Il nesso fra conoscenza e valori si fa sempre più stretto. Lo sviluppo stesso della ricerca scientifica fa acquisire ai lavoratori della conoscenza una dimensione etica. Il legame fra acquisizioni della conoscenza e perseguimento di retti comportamenti individuali e collettivi pone sempre più in primo piano il valore etico della ricerca intellettuale.
In secondo luogo la diffusione della conoscenza è condizione indispensabile per produrne di nuova. Si può elevare l’estensione della comunicazione e della informazione, e moltiplicare la produzione di linguaggio, solo a patto che si innalzi progressivamente il livello a cui si svolge il lavoro di consumo delle informazioni stesse. Detto in altri termini: la produzione di conoscenza ha una natura prettamente sociale che può entrare in conflitto con la sua riduzione a merce a scopi di profitto per singoli individui o per singole corporazioni.
In terzo luogo i lavoratori della conoscenza, pur svolgendo un compito essenziale al funzionamento dei grandi apparati tecnologici e delle istituzioni pubbliche, sono sempre più privati, nella maggior parte dei casi, di qualsiasi riconoscimento sociale e di valore pubblico. Contribuiscono alla produzione sociale di senso e alla elaborazione dei valori, ma all’interno di meccanismi che ne disgregano e maciullano le funzioni intellettuali togliendo loro ogni potere effettivo e ogni riconoscibilità sociale. Se si aggiunge che fra i lavoratori della conoscenza più giovani si va estendendo su vasca scala l’esperienza della precarietà, della sottoccupazione o dell’occupazione parziale e saltuaria, il quadro dell’attuale condizione intellettuale e delle sue contraddizioni risulta probabilmente più completo.
Se ne potrebbe dedurre, in conclusione, che la crescente marginalità dei lavoratori della conoscenza appare in conflitto con la loro essenzialità nel sistema delle informazioni e delle comunicazioni, con la produzione sociale di senso a cui essi concorrono seppure da posizioni subordinate, infine con il nesso sempre più stretto che unisce conoscenze e valori.

4.
Quando un grande critico letterario da poco scomparso, Edward Said, unendo in sé l’esperienza dell’uomo di cultura palestinese e di raffinato accademico di una delle maggiori università americane, scrive che il rischio della nuova tipologia di intellettuale è di scomparire «in una miriade di particolari» e di diventare una «nuova figura professionale», un ingranaggio tecnico dei nuovi apparati di sapere-potere, coglie esattamente il tramonto del grande corporativismo intellettuale. Tuttavia, dalla sua specola di osservatore collocato al centro dell’impero e nondimeno proveniente dalle sue frontiere più incandescenti, trae da questa constatazione alcune conseguenze niente affatto rinunciatarie e anzi assai interessanti, volte a indicare ai nuovi intellettuali un compito e una funzione molto diversi da quelli proposti da Fichte e rilanciati da Bourdieu. Egli delinea una figura di intellettuale non molto lontana da quella di quei nuovi lavoratori della conoscenza che la attuale sociologia va delineando. Il nuovo intellettuale, inserito nei nuovi complessi produttivi in posizione subordinata o esterno a essi, si configura come un outsider, un dilettante, un emarginato, un esiliato, un uomo di confine, e per questo gli appare animato da spirito di opposizione e non di compromesso. La sua funzione pubblica, secondo Said, è di sollevare questioni provocatorie, di sfidare ortodossie e dogmi e soprattutto «di trovare la propria ragione d’essere nel fatto di rappresentare tutte le persone e le istanze che solitamente sono dimenticate o censurate». Può essere ripreso allora persino il modello comportamentale di Sartre, tanto caro a Said, ma attraverso un nuovo dislocamento che non presuppone più la funzione ideologica della mediazione e del controllo da una posizione di centralità, ma che fa della marginalità dell’intellettuale una figura rappresentativa di tutte le altre marginalità presenti sulla scena mondiale. Il passaggio da legislatore a interprete può esaltare insomma il ruolo dei lavoratori della conoscenza come specialisti della liminarità, e cioè del passaggio dei confini, della traduzione, del dialogo, della interdisciplinarità, della conoscenza critica della differenza. D’altronde traduttori, insegnanti, giornalisti, divulgatori e operatori impiegati nella manovalanza scientifica, addetti al mondo della comunicazione stanno tutti diventando figure di soglia.
Non so quanto consapevolmente, Said descriva insieme un modello ideale di intellettuale, fedele alla tradizione occidentale dei Sartre e dei Russel, e una tipologia reale che riguarda invece la nuova intellettualità di massa dei lavoratori della conoscenza. Ma che, dal suo punto di vista, queste due diverse tipologie, pure così radicalmente distanti fra loro, siano accostabili, è forse degno di qualche riflessione.

5.
L’evento letterario di quest’anno è opera di un ricercatore, l’esordiente Roberto Saviano. Non un letterato dunque ma un giovane che riceve uno stipendio a tempo definito da parte di un ente pubblico, l’Osservatorio sulla camorra e l’illegalità. Il libro s’intitola Gomorra e ha venduto un milione di copie. È un libro strano, un ibrido fra documentario e romanzo, fra autobiografia e saggistica, fra letteratura e sociologia. Quasi che la flessibilità abbia preso forma, sia divenuta opera, un nuovo genere letterario.
Un ministro della Repubblica, quello che presiede, o dovrebbe presiedere, ai destini della università e della ricerca, ha detto ai giornali che i rappresentanti del governo da questo libro possono imparare, e lui stesso ha imparato, assai più e assai meglio che dai rapporti dell’intelligence. Non so se esistano ragioni per dubitare che il ministro abbia ragione. In effetti, in Gomorra, ci sono tutti i nomi dei nemici – i nemici dello stato e della convivenza civile, e cioè delle varie famiglie o clan dei camorristi. Erano anni che in un libro non si facevano i nomi. Se qui se ne parla, da questo podio e da questa sede che dovrebbero escludere la contingenza, è tuttavia per un’altra ragione: interessa la figura d’intellettuale che emerge da queste pagine, non molto lontana da quella auspicata da Said. Qui c’è un giovane che si aggira in scooter sui luoghi del crimine, fra gigantesche discariche di rifiuti, sangue di morti ammazzati, fiumi di cemento, villaggi abusivi, quartieri e periferie degradati in cui si accumulano masse enormi di denaro, di armi e di merci. Per questo piccolo, emarginato e rabbioso eroe, dire la verità significa esserci, fare uso di una «parola-sentinella» e di un’unica «armatura»: «pronunciarsi». E per «pronunciarsi» bisogna dire la verità, accumulare prove inconfutabili e parziali, perché vissute con il corpo, sperimentate dal vivo, filtrate e temprate dalle emozioni. Tra oggettività della denuncia e soggettività sì instaura così un cortocircuito, in cui risiede indubbiamente anche il valore letterario dell’opera e che comunque rivela una eredità assunta consapevolmente: non solo quella apertamente dichiarata di Sciascia e di Pasolini, ma più in generale quella dell’intellettuale scomodo e marginale che vive al confine, sulla frontiera, e pratica una sorta di contrabbando fra società e comunità diverse: qui, fra quella dei camorristi e quella del laureato in filosofia che fa il ricercatore sul campo, quella delle periferie degradate e l’altra dei centri di civiltà, quella del denaro, delle armi e della arroganza e quella della cultura e della dignità morale. Questa figura storica – da Baudelaire a Pasolini – ha assunto insomma una nuova dimensione: non aspira più a occupare il centro della scena, non accampa utopie, non partecipa a una battaglia di manifesti, di idee e di poetiche, ma accetta come naturale e scontata la propria marginalità. Non parla più in nome di una prospettiva politica, di una filosofia o di una ideologia, ma solo in nome di un corpo violato, della realtà di una esperienza che, prima ancora di essere intellettuale, è fisica o biologica. L’evidente lezione di Pasolini è portata all’estremo, là dove il maestro, che pure aveva già intuito, come Fortini, il punto di arrivo di un processo storico, non poteva arrivare. Gomorra documenta una fase nuova, in cui il senso della storia è senza storicismo, il senso dell’etica è senza morale precostituita e il senso dell’impegno civile è senza più nazione o popolo. D’altronde Saviano non è il solo. Un altro autore contemporaneo, il poeta Gabriele Frasca, ha parlato della necessità di uno «stile etico» rivolto a un popolo che manca.

6.
E noi? Che cosa resta da fare a noi educatori, addetti a un campo ormai marginale (almeno per chi ci governa) e inseriti nella categoria burocratica del “personale docente” o, anzi, delle cosiddette “risorse umane”?
Il mio ineguagliabile predecessore su questo podio, Franco Fortini, concludendo la sua prolusione nel dicembre 1981, osservava un doppio movimento della poesia letta o recitata: quello che la porta a cercare una conclusione «nel suo trasmigrare dal tempo dei separati verso il tempo dei gruppi umani» e quella inversa che la cerca invece «nel suo trasmigrare dal tempo dei gruppi umani verso quello di noi separati» (dove i «separati» non sono solo gli artisti, ma qualunque uomo quando si chiude nella cosiddetta interiorità o «nel cosiddetto silenzio» della poesia).
E tuttavia quanto qui si dice della poesia vale probabilmente per ogni attività intellettuale; o, se si preferisce, per ogni funzione intellettuale. E ne chiamo a testimone ancora Fortini, ma non il saggista o il professore universitario, questa volta, bensì il poeta. Di cui vorrei leggere una poesia poco nota, mai raccolta in volume dall’autore, e uscita postuma nelle Poesie inedite, con il titolo Reversibilità. Titolo baudeleriano, come si vede. Ma Baudelaire parlava di una reversibilità in ambito privato e individuale (fra bene e male, salute e malattia, gioia e angoscia, bellezza e vecchiaia). Invece Fortini rovescia la situazione privata in pubblica, adotta la prospettiva dell’educatore che qui ci interessa e sceglie perciò una voce in falsetto, quasi da manuale scolastico rivolto a una classe di adolescenti:

Anassagora giunse ad Atene
che aveva da poco passati i trent’anni.
Era amico di Euripide e Pericle.
Parlava di meteore e arcobaleni.
Ne resta memoria nei libri.

Si ascolti però quel che ora va detto.
Anche la grandissima Unione Sovietica e la Cina
esistono, o l’Africa; e le radio
ogni notte ne parlano. Ma per noi, per
noi che poco da vivere ci resta,
che cosa sono l’Asia immensa, il tuono
dei popoli e i meravigliosi nomi
degli eventi, se non figure, simboli
dei desideri immutabili dolorosi? Eppure
–si ascolti ancora – i desideri immutabili
dolorosi che mordono il cuore nei sonni
e del poco da vivere che resta
fanno strazio felice, che cosa sono
se non figure, simboli, voci,
dei popoli che furono e che in noi
sono fin d’ora? E così vive ancora,

parlando con Euripide e con Pericle
di arcobaleni e meteore, il filosofo
sparito e una sera d’estate
ansioso fra capre e capanne di schiavi
entra ad Atene Anassagora.

La reversibilità qui è intreccio e inversione di sequenze logiche e temporali. Il primo verso («Anassagora giunse ad Atene») ritorna nell’ultimo («entra ad Atene Anassagora») capovolto nell’ordine dei termini (il soggetto, Anassagora, all’inizio, apre il verso e il discorso; alla fine, li chiude); e, soprattutto, il passato remoto («giunse») si è rovesciato in un presente («entra»). La reversibilità formale del lessico e del discorso esprime una reversibilità dei contenuti. L’educazione, la trasmissione dell’apprendimento, ha fatto sopravvivere Anassagora, lo ha, per così dire, reso presente e attuale. La prima e la terza strofa hanno per oggetto una verticalità, vale a dire una distensione e un capovolgimento temporali fra passato presente e futuro, grazie al quale, come si dice alla fine della seconda, «gli uomini che furono […] in noi sono fin d’ora». La seconda strofa riguarda invece una dimensione orizzontale, una distensione spaziale e geografica attraverso la quale il lontano e il vicino si sovrappongono e possono stringersi insieme. La vita dei popoli di cui percepiamo l’esistenza attraverso le radio determina la nostra interpretazione del loro e del nostro mondo, e a sua volta, viceversa, questa stessa nostra interpretazione determina la loro vita. E anche: da un lato la storia «dei popoli che mutano» diventa simbolo e figura dei nostri desideri «immutabili» (eterni, in quanto naturali o biologici), li incarna in popoli e in personaggi; dall’altro questi stessi desideri, e quindi il biologico o il vitale-materiale, diventano simbolo, figura e voce della storia. La reversibilità si sposta a e si realizza anche nel rapporto fra civiltà e natura, dato che l’uomo non può che cercare di grammaticalizzare quest’ultima.
Qui si propone niente di meno che una operazione di traduzione, di trasmissione e di trapianto, una reversibilità che riguarda non solo passato e presente e le vicende dei popoli, ma anche storia e natura.
Per quanto spetta all’ambito civile, l’educazione insegna la reversibilità delle distanze e delle differenze nel tempo e nello spazio, e dunque un nuovo senso di cittadinanza e di etica planetaria, la possibilità di un nuovo patto fra le generazioni e fra i popoli. È forse questa, d’altronde, l’unica lezione ancora valida dell’umanesimo, che troppe volte nel passato e nel presente ha scambiato il dialogo fra gli uomini con il conciliabolo fra i dotti e ha fatto passare per universale il proprio particolare, presentando la propria cultura letteraria come negazione delle scienze e delle tecniche e magari cercando di esportare la propria idea della democrazia come universalismo dei diritti occidentali. Ma l’umanesimo è anche fondatore della prospettiva di una civiltà del dialogo e della tolleranza, in quanto porta con sé, già nel nome, il concetto e la prospettiva dell’unico universale che ci è concesso: quello del genere umano, della socialità che esso presuppone, e della sua unità da conquistare.
La poesia di Fortini ci comunica in fondo un messaggio semplice. In un mondo in cui adolescenza protratta, perdita della memoria collettiva e interruzione del rapporto di trasmissione fra padri e figli sono diventati esperienza comune, l’attività intellettuale che cerca un senso non solo individuale ma pubblico è l’unica risposta laica possibile al nulla della morte e alla ripetitività dei cicli biologici.

OPERE CITATE
Z. Bauman, La decadenza degli intellettuali. Da legislatori a interpreti, Bollati Boringhieri, Torino 1992.
P. Bourdieu, Per un corporativismo dell’universale, in Le regole dell’arte: genesi e struttura del campo letterario, Il Saggiatore, Milano 2005, pp. 425-437.
F. Fortini, Intellettuali, ruolo e funzione, in Questioni di frontiera. Scritti di politica e di letteratura 1965-1977, Einaudi, Torino 1977, pp. 68-73.
F. Fortini, La poesia ad alta voce. Discorso inaugurale all’Anno Accademico 1981-1982, Siena, 6 dicembre 1981, estratto dall’Annuario Accademico 1981-1982 dell’Università degli studi di Siena, pp. 7-20, ora in F. Fortini, Saggi ed epigrammi, a cura di L. Lenzini, I Meridiani Mondadori, Milano 2003, pp. 1562-1578.
F. Fortini, Reversibilità, in Poesie inedite,a cura di P. V. Mengaldo, Einaudi, Torino 1997, p. 27.
G. Frasca, Schiuma, in AA.VV., Gruppo 93. La recente avventura del dibattito teorico letterario in Italia, a cura di F. Bettini e F. Muzzioli, Manni, Lecce 1990, p. 144.
G. Saviano, Gomorra.Viaggio nell’impero economico e nel sogno di dominio della camorra, Mondadori, Milano 2006, p. 258.
E. W. Said, Dire la verità. Gli intellettuali e il potere, Feltrinelli, Milano 1995, pp. 9-27.






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