Trasformare il mistero dell'incarnazione — l'eterno che si fa storia, tempo fugace,
carne fragile e peritura — o anche solo l'infantile poesia di Gesù Bambino o dell'angelo che porta i
doni nella figura di un vecchio panciuto e svampito, dal viso rubizzo e giulivamente ebete, è un po'
troppo.
Se proprio ci si vuole sbarazzare del Cristianesimo — del linguaggio e delle figure che esso ha dato
per secoli alla rappresentazione della vita — meglio tornare allo Yule, alla nordica festa pagana del
solstizio d'inverno col suo culto delle demoniche forze elementari, che Lovecraft, nei suoi racconti
dell'orrore assai poco natalizi, sentiva ancor vive e minacciosamente in agguato sotto la crosta della
civiltà. Non a caso, al tempo della mia infanzia, catechisti e sacerdoti della parrocchia
scoraggiavano e deprecavano, sia pur blandamente, l'albero di Natale, l'abete di remota ascendenza
boreale e pagana, contrapponendogli il cristiano, cattolico e italico Presepe; palme e cammelli
d'Oriente e dolce terra umbro-francescana contro la neve del Settentrione.
Mi sarei dunque atteso una più energica riprovazione ecclesiastica — almeno pari a quella delle
zucche di Halloween — del paonazzo fantoccio da supermarket, con le sue renne fatte per tirare la
slitta a Cortina e non in Lapponia. Se Babbo Natale, con rispetto parlando, deriva da Santa Claus
ovvero San Nicolò, come triestino mi sento corresponsabile del suo trionfo, visto che a Trieste San
Nicolò, col suo manto rosso, porta i doni nella notte tra il 5 e il 6 dicembre, ma quel rosso del santo
di Bari ha almeno una sua regalità, da re pastore e non da insegna luminosa di supermarket.
Quest'ultimo, ovviamente, può essere altrettanto sacro, con buona pace dei fustigatori del
consumismo nostalgici della miseria dei tempi andati. Nessun oggetto, nessuna istituzione, nessun
rito sono di per sé sacri; sacro è solo il senso di amore e soprattutto di rispetto per gli uomini.
Comperare un panettone a un supermarket, pensando alla tavolata con persone amate, non è meno
poetico che preparare un pasto in una capanna di pastori o in una casa contadina. Sono i simboli
della vita a dire il significato che le attribuiamo.
Sotto questo profilo, il ridanciano e scampanellante Babbo Natale è un segno della crescente
scristianizzazione; della perdita della memoria, del linguaggio, del senso che il Cristianesimo dà al
mondo. Non è solo il vituperato consumismo, simboleggiato da Babbo Natale, che disturba. Pure in
passato il pranzo e i regali natalizi obbedivano alla logica del consumo, di per sé nient'affatto
disdicevole, e non è un merito se la penuria, subìta e non certo scelta, costringeva a consumi più
modesti. E' quel sorriso giocondo e soddisfatto nel roseo faccione che nega il Natale. Le feste di un
tempo univano il piacere — per un bambino, anche l'incanto misterioso dei doni sotto l'albero o
davanti al Presepe — e la malinconia della ripetizione, che scandisce il fluire e lo svanire del tempo
quanto più cerca di catturarlo e fermarlo nel rito sempre uguale.
La festa — e il Natale è quella più grande — fa (soprattutto faceva) sentire che la festa della vita
finisce, che l'esistenza è il precipitare della gioia e degli affetti nel buio del tempo e del nulla, così
come nel grande abete, che un magico zio travestito da angelo mi allestiva nella mia infanzia, una
cascata di caramelle bianche come la neve cadeva e spariva nella folta ombra dei rami e le gocce di
cera delle candele accese cadevano una sull'altra e si consumavano. Ogni anno tante gocce d'oblio,
mentre la tavolata famigliare si arricchiva di nuovi venuti e ancor più si spopolava di altri che se ne
andavano lasciando seggiole vuote.
La festa diceva la tenerezza e anche gli acri, amari malintesi della vita di famiglia; era occasione in
cui emergevano e poi si sopivano rancori antichi, acerbamente conviventi con gli affetti, che il
bambino captava sgomento e poi rasserenato, imparando a capire il nesso inestricabile di amore e
avversione che lega gli uomini. Protagonista e vezzeggiata, l'infanzia era anche vagamente oppressa
da quella ripetizione e da quella mistura di gioia e malinconia, immortalata in tragiche e debolmente
sorridenti foto di famiglia.
Anche in quei Natali tradizionali si violava e negava, senza saperlo, il significato del Natale, che è
preludio di Buona Novella e di liberazione e non malinconia; tempo annunciato e vissuto come
pienezza, come compimento di attese e valori, e non quale stillicidio di minuti e di anni nel nulla.
Ma tutto ciò era almeno riscattato dalla malinconia; l'angelo — anche quello che porta i regali — è
sempre malinconico, figura del mondo caduto e imperfetto.
Babbo Natale invece è sinistramente allegro; è persuaso e vuole persuadere gli altri che tutto va
bene e andrà sempre meglio; che il nostro mondo, la nostra società, il nostro benessere, il nostro
denaro, la nostra democrazia, il nostro teatro quotidiano siano i migliori e gli unici possibili, una
crescita destinata ad accrescersi trionfalmente sempre più, una scorpacciata senza limiti garantita da
pillole digestive sempre più efficaci, un progresso inarrestabile, uno stadio definitivo e un ordine
immutabile, un oggi scambiato per l'eterno. Incubi di pranzi in cui l'obbligato ingozzarsi insinua
nell'animo una pesantezza di morte, quintali di biglietti augurali e cassette di vini e di dolciumi che
ingombrano la casa dei fortunati destinatari di omaggi con la violenza dell'invasione.
Il Natale è la nascita di un bambino, di un salvatore che sarà crocifisso e conoscerà l'estremo
abbattimento del Getsemani; la gioia che esso annuncia non è una truffa, perché non nasconde il
dolore, il crollo del mondo. Uno dei più grandi racconti di Natale di ogni letteratura, «Cristallo di
rocca» di Stifter, dice — come ha scritto Maria Fancelli in un memorabile saggio — «che
l'attraversamento del nulla è necessario ». Babbo Natale vuole invece farci dimenticare che siamo
sull'orlo di un vulcano, il quale potrebbe eruttare fuoco distruttore da un momento all'altro; che le
tensioni del mondo si vanno facendo insopportabili e incontrollabili; che davanti al Presepe
premono, per entrare in quella capanna che è il cuore del mondo, più persone di quante essa possa
accogliere. Babbo Erode non si turba per le stragi di innocenti. Il fasullo scampanellìo della sua
slitta cerca di sopraffare il coro degli angeli che annunciano gloria a Dio nell'alto dei cieli e pace in
terra agli uomini di buona volontà.
Cerca di coprirlo perché, se lo si sente, si rimane sbigottiti dalla smentita che quell'annuncio riceve
sulla Terra, dove la pace è quasi sempre negata agli uomini di buona volontà e semmai concessa ai
farabutti. Quel canto da sempre smentito va invece sempre ascoltato e seguito, per continuare a
credervi contro ogni evidenza, a sperare contro ogni vittoriosa negazione, con quell'autentica
speranza che passa sotto le forche caudine della disperazione e rifiuta le stampelle del tronfio e
menzognero ottimismo.