MUSICA E FILOSOFIA-INTERVISTA A ELIO MATASSI
Data: Giovedì, 18 ottobre 2007 ore 21:02:43 CEST
Argomento: Rassegna stampa


 

Musica e Filosofia
Intervista a Elio Matassi

di Dario Gentili


1) Professor Matassi, la collana della casa editrice Guida presso la quale è stato pubblicato il Suo libro Musica si chiama Parole chiave della filosofia. Leggendo il Suo testo, penso che la scelta del termine filosofico “Musica” rappresenti una Sua ben precisa presa di posizione a proposito delle modalità con cui la musica è stata pensata dalla filosofia: infatti, la musica è entrata di diritto nel dibattito filosofico solo attraverso il filtro di espressioni quali “Filosofia della musica” o “Estetica musicale”. Potrebbe spiegare come il Suo Musica, a tutti gli effetti un libro di filosofia, s’inserisce all’interno dell’interpretazione filosofica della musica?


Il mio percorso teoretico aspira a evidenziare attraverso quali modalità argomentative la filosofia abbia cercato d’impadronirsi della musica, di renderla commensurabile al logos tradizionale, di considerarla alla stregua di uno dei tanti e possibili “oggetti” della filosofia. La correlazione tra musica e filosofia viene organizzata e dimensionata a partire dalla filosofia, come se si ponesse un rapporto tra un prima (la musica) e un dopo (la filosofia), tra un linguaggio puramente virtuale e uno, invece, compiutamente realizzato. La musica come la “notte” della filosofia. Quest’ultima detta dall’inizio alla fine le condizioni del rapporto, alla musica non rimane altra scelta che accettarle. Questo rapporto di subordinazione comincia a entrare in crisi a partire dagli inizi dell’Ottocento. Basti rammentare l’incipit della celebre recensione di E. Th. A. Hoffmann alla V di Beethoven (1810), quando vengono chiarite in maniera esemplare le ragioni per le quali la musica è l’arte per eccellenza romantica, anzi, a rigore, l’unica veramente romantica in quanto, recidendo ogni legame di sudditanza diretto o indiretto con le altre arti, apre le porte di un regno sconosciuto contrassegnato dall’ineffabilità del suo linguaggio. Devono essere prese le misure rispetto alle altre altri, quelle meramente poetico-narrative come quelle essenzialmente plastiche, risultando, in linea di principio, la musica incommensurabile a entrambe. Tale processo di liberazione ed emancipazione della musica viene ulteriormente approfondito nel corso dell’Ottocento con E. Hanslick, il fondatore dell’estetica musicale moderna; anche in questo caso si insegue e persegue la specificità del bello musicale in alternativa a quello rintracciato dalle altre arti e totalmente “altro” rispetto ai canoni consueti del linguaggio. L’argomentazione scelta da Hanslick è particolarmente stringente: mentre nel linguaggio consueto esiste un rapporto tra mezzo e fine, tra significante e significato, nella musica, invece, il suono è al contempo mezzo e fine. Lo scarto che separa la musica dal linguaggio è dunque non solo profondo, ma addirittura “alternativo”; siamo su un’altra lunghezza d’onda, su un ordine di considerazione completamente diverso. Nonostante le apparenze questa impostazione non prelude soltanto alla rivendicazione dell’autarchia autoreferenziale della musica, ma comporta anche, sottilmente, una riproduzione a un livello più elevato della trasversalità delle arti. Al limite, infatti, dal punto di vista estetico-normativo, il puro suono e la pura visione finiscono per coincidere. L’autentica Kehre, comunque, nella considerazione ed interpretazione della musica si ha nel Novecento; protagonisti di tale svolta si possono considerare sul piano musicologico E. Kurth e su quello filosofico Bloch, Benjamin, Adorno, Jankélévitch. Con Kurth si assiste per la prima volta a uno spostamento consapevole dalla filosofia della musica a quella dell’ascolto: non sussistono suoni in sé, i suoni consegnati nei diagrammi spaziali delle partiture devono essere considerati “morti”. Ciò che continua a sopravvivere nei suoni è la loro volontà di essere ascoltati. Il paradigma dell’ascolto, dietro cui si può intravedere un modello comunitario completamente rinnovato, viene approfondito e radicalizzato in autori quali Bloch e Benjamin, anche se la Kehre decisiva risulta essere quella adorniana, sottesa al grande paradigma dello sguardo di Euridice, come si suggerisce nella prima delle grandi opere postume di Adorno, il Beethoven. Euridice, il grande mito della musica ci guarda in modo triste, in attesa non di una risposta qualsiasi, ma di una risposta “elettiva”, risposta che può essere fornita dalla filosofia a una sola condizione: accettare fino in fondo un rapporto egualitario con la musica.

2) Il Suo libro cerca di interpretare il rapporto tra filosofia e musica come una sorta di contro-canto rispetto a quella che Lei definisce la “linea Platone-Schopenhauer”, caratterizzata dal pensare la musica come un oggetto tra gli altri della filosofia. Vuole illustrare questa tradizione, dominante fino all’estetica della musica moderna, e gli autori che Lei prende a riferimento per svincolarsi da essa?


Questa linea di emancipazione della musica dalla sudditanza esercitata dalla filosofia prende le misure in modo particolare da quella concezione che si ritrova paradigmaticamente esplicitata nel sogno di Socrate, e nel conseguente sdoppiamento, in un celebre luogo del Fedone platonico. Nel sogno, Socrate dice a se stesso d’impegnarsi nel fare musica e nel comporre; la risposta che, a sua volta, Socrate dà a se stesso, sempre nell’ambito dello stesso sogno, è del tenore seguente: nella vita Socrate ha sempre perseguito la filosofia ed in tale perseguimento ha di fatto coltivato la musica stessa, perché che cos’è, al limite, la filosofia, se non una forma, la forma più elevata di musica? Pur concedendo a Platone che la mousiké greca è cosa molto diversa dalla musica moderna – nel primo caso, in modo particolare con il verso greco, abbiamo la strettissima compenetrazione tra linguaggio e dimensione sonora; nel secondo, invece, la dissociazione più profonda fra musica e linguaggio – non si può sottovalutare il fatto che nella versione platonica l’unità di misura per il rapporto musica-filosofia è fornito dalla filosofia. Un’interpretazione “moderna” di tale rapporto di subordinazione è stata data da Schopenhauer: come musica, la filosofia rivela la propria essenza, è linguaggio che “dice” il mondo com’era prima della creazione, un tema che governa la filosofia di Schopenhauer e che rappresenta una costante di tutta la filosofia antica. La musica, al limite, non può considerarsi neppure un oggetto del pensiero, ma è la stessa filosofia a porsi, a declinarsi come musica, la particolare “musica della filosofia”; come mousikos, infatti, il filosofo è colui che intreccia le relazioni, che sta tutto nella koinonìa delle forme. Una prospettiva configurabile come quel particolare non-luogo che è il punto di conversione tra le figure e lo sfondo, fra l’essere e il non-essere. Platone ribadisce tale ruolo nel mito delle cicale (Fedro), in cui viene per così dire riassunta tutta la dottrina platonica della musica: a) la musica non è che un dono delle Muse, peraltro molto tardivo; b) alcuni uomini presentano una particolare attitudine per la musica; c) costante è il riferimento alle relazioni che intercorrono tra queste due attività umane, la musica e la filosofia. In ogni caso il rapporto tra queste due dimensioni è speculare. Le cicale segnalano alle Muse come uomini che più rappresentano la vocazione per la musica quelli che si dedicano alla filosofia. Questa linea, che in maniera approssimata definisco la prospettiva Platone-Schopenhauer, ritrova una contestazione puntuale in alcuni momenti fondamentali della filosofia novecentesca, in particolare in Bloch e Jankélévitch, che, nonostante le profonde differenze di stili, sensibilità e formazione, concordano almeno su un punto decisivo: la musica esiste nell’attualità di quell’evento evenemenziale per eccellenza che è l’ascolto inteso come incontro-confronto tra due contingenze considerate nella loro irriducibile individualità, l’ascoltante e il suono. Nell’ascolto-evento si sciolgono tutti i complessi nodi della ricostruzione musicale, che si afferma in tutta la sua portata antinichilistica. Nell’evento-ascolto si consuma, dissolvendosi, la tradizione platonico-schopenhaueriana.

 

3) Per rompere il rapporto ancillare e di dipendenza tra la musica e la filosofia, il Suo libro lavora dall’interno i presupposti stessi del pensiero filosofico. Sulla scorta di autori quali Bloch, Benjamin e Jankélévitch, per instaurare un rapporto egualitario con la musica, la filosofia deve pensare una “superiorità estetica del suono” e un primato dell’ascolto sul theorein. In che senso, come Lei stesso scrive, per pensare adeguatamente la musica, la filosofia deve essa stessa farsi musica?


Bloch, Benjamin e Jankélévitch portano un contributo decisivo a tale processo di liberazione-emancipazione della musica. La visione blochiana del suono quale aura dell’ascoltatore che sta ritrovando se stesso (Spirito dell’utopia), quella benjaminiana della musica come processo redentivo: la musica è quella dimensione verticale che lacera per sempre la dipendenza immanentistica dell’essere-colpevoli; quella dimensione che produce la restaurazione del creaturale. Nell’interpretazione dell’ineffabile di Jankélévicht, la musica vive e continua a vivere solo nell’attualità evenemenziale dell’esecuzione e dell’ascolto. Tutte e tre tali prospettive, insieme, producono una radicale conversione. Il suono non è più una cifra meramente speculare di un presunto universo cosmologico pienamente armonizzato, non è più un semplice messaggio astrale, ma diventa “materia umana per eccellenza”. La particolare “fragilità”, frattalità, discrezione del suono, di un’articolazione significativa sempre nel contempo tesa, offerta e ritirata è dunque per propria costituzione intrinseca ontologicamente contingente: è il contingente, la contingenza in tutta la sua irriducibilità. Quando si assume che l’accadimento sonoro postula un presente bidimensionale con l’apertura di uno spazio tempo, di una propria risonanza, si finisce per riconoscere necessariamente la natura contingente del suono e la natura altrettanto contingente di chi si disponga ad accoglierne la portata: un soggetto completamente ridefinito nella sua identità di ascoltante ed ascoltatore. Dal soggetto che ascolta alla comunità di soggetti ascoltanti il passaggio è diretto: è questo probabilmente il percorso più interessante su cui riflettere e indagare, un percorso in cui filosofia della musica, antropologia filosofica e filosofia politica possono incontrarsi. Una tradizione di pensiero che mette in discussione il consueto primato della visione e del theorein. La superiorità estetico-metafisica del suono riesce a trasmettere al comparto filosofico un nuovo impulso; la musica diventa essa stessa una forma di pensiero, di filosofia, non solo perché in essa l’attività razionale per eccellenza, il linguaggio, viene piegata a usi e modalità espressive inconfrontabili e tuttavia più efficaci e duraturi che non quelli della scienza o del senso comune, ma anche perché nella musica e a partire dalla musica è possibile costruire una prospettiva contrassegnata dalla speranza, dall’utopia. La superiorità estetica del suono viene chiaramente fondata sull’effetto che esercita sulla nostra ricettività sentimentale: il suono non può non comprometterci sentimentalmente, compromissione che riesce anche, attraverso l’ascolto, a metterci in discussione interiormente.

 

4) Un’altra interpretazione molto originale che emerge in Musica riguarda il pensiero di Bloch e Benjamin. È il ruolo determinante che la musica svolge nel pensiero di questi due autori (più esplicito in Bloch di quanto non sia in Benjamin, ma non meno essenziale anche in quest’ultimo) a ritmare con il suo “tempo” la storia in senso “messianico”? Il “tempo dell’utopia” (Bloch) e il “tempo della redenzione” (Benjamin) non sarebbero dunque filosoficamente pensabili in modo adeguato se non si percepisse in essi la “battuta” del tempo musicale?

 

La musica come tempo dell’utopia e della speranza e, nel contempo, come tempo della redenzione. In maniera più esplicita e programmatica E. Bloch e, in maniera più allusivo-indiretta, Benjamin, arrivano a ritenere la musica come essenziale per la storia. Basti pensare alla seconda Sinfonia di Mahler, Resurrezione, in particolare al quinto movimento, in cui si individua, sia nella profonda rielaborazione dell’Ode di Klopstock operata da Mahler sia nella composizione musicale stessa, un’idea redentiva, autoredentiva della vita stessa. Solo una vita operosa, creativa, può sfidare e vincere la morte. La musica nella sua attualità è l’evento stesso dell’utopia, della redenzione. Si può addirittura arrivare a congetturare che sussista una sinonimia totale fra musica e utopia: la musica nella sua attualità evenemenziale dell’ascolto è quella forma, l’unica possibile, di utopia concreta, di utopia realizzabile. Al limite è plausibile solo una filosofia della storia della musica se alla storia viene effettivamente concesso uno spazio di apertura sul futuro. In Spirito dell’utopia, da un lato, i “tappeti musicali”, dall’altro, la forma-evento (Ereignisform), stanno a indicare una forma completamente libera, totalmente svincolata da qualsiasi paradigma estrinseco, l’ideale controaltare della Wirklichkeit, di una forma già pregiudizialmente chiusa, garantita una volta per tutte nella sua compiutezza assoluta. In virtù di ciò, di questa capacità di perpetuare il proprio rinnovamento, la propria rinascita – i “tappeti musicali” nella loro estrema fluidità suggellano questo incessante movimento – la musica presume una priorità ontologica, metafisica, che nessuna storia o sociologia della cultura sarà mai in grado di restituire. Solo dunque una Geschichtsphilosophie “al quadrato”, avvitantesi su se stessa, diventa la chiave di volta della equiparazione tra temporalità storica e temporalità musicale, equiparazione che ritrova il suo suggello semantico nell’espressione “Gesamtprozess der Geschichtssymphonie”, a sottolineare comunque il primato della temporalità musicale, in cui si verifica il paradossale rovesciamento della forma-tempo nella forma-spazio. In questi termini alla musica verrà attribuito un ruolo eccentrico di chiara matrice storica, anche se il significato di tale aggettivo non può essere banalmente frainteso, perché non si tratta di un legame conformistico, di mera conformità alla storia. Questa nuova e più spregiudicata dimensione della temporalità nasce pertanto all’interno di quella che viene definita “l’ultima musica”, “l’ontologia della musica” al di là di tecnicismi e competenze altamente sofisticate. Con Benjamin entriamo nell’equivalenza tempo della redenzione, tempo della musica, linguaggio dell’ascolto. Anche in questo caso a risultare decisiva è la distinzione tra vedere e ascoltare, prospettata in maniera pregnantemente ellittica.

 

5) Lei definisce Adorno “probabilmente il maggior filosofo della musica del Novecento” ed effettivamente è al suo pensiero che Lei affida la parola conclusiva del suo testo riguardo al rapporto tra musica e filosofia. Adorno è stato oltre che filosofo anche compositore musicale, ma in un senso inverso rispetto agli altri filosofi-compositori (Rousseau e Nietzsche): soltanto in Adorno si può riconoscere un passaggio dalla musica alla filosofia, da compositore musicale a “compositore dialettico”, come Lei stesso lo definisce. È in virtù della sua formazione musicale e dello studio della dodecafonia che Adorno è riuscito a tematizzare una dialettica senza sintesi, la “dialettica negativa”, una dialettica che non esaurisce hegelianamente il tempo nella metafisica come Logica, ma “rende giustizia” alla caducità come temporalità sempre aperta ed eccedente lo status quo? Si potrebbe riscontrare in Adorno, come Lei propone in conclusione di Musica, una perfetta simmetria e reciprocità tra la “dialettica negativa” e la “musica sincopata del Novecento”; si potrebbe tradurre, senza tradire le specificità dei rispettivi ambiti, la figura filosofica della dialettica, così come è pensata da Adorno, nella figura musicale del contrappunto?

 

Nel mio libro, Adorno assolve a una funzione decisiva; rappresenta il compimento dello sguardo di Euridice, del processo di liberazione della musica. In questo caso assistiamo a un autentico capovolgimento della prospettiva, definibile con approssimazione, Platone-Schopenhauer. Se si parte correttamente dall’esperienza compositiva di Adorno - uno dei pochissimi pensatori insieme a Rousseau e a Nietzsche a essere passato attraverso l’esperienza diretta della composizione – si riuscirà a percepire il senso e la direzione di tale capovolgimento. Viene per sempre invertita la sequenza: non più, come nel passato, dalla filosofia alla musica, ma, viceversa, dalla musica alla filosofia. La particolare dialettica negativa di Adorno, ossia la ricerca di una dialettica emancipatasi dal mito della terza proposizione, di una dialettica che forza al massimo il confronto-scontro tra i termini antitetici, ritrova una chiarificazione esaustiva solo in sede contrappuntistico-musicale. Nella dialettica negativa vi è il problema della simultaneità della posizione e della negazione che necessiterebbe, per essere espresso verbalmente con efficacia, della simultaneità del contrappunto, che il linguaggio verbale non conosce. Come è noto, il contrappunto nella sua dimensione più estrinseca consiste nell’esecuzione di più note, punctum contra punctum, una contro l’altra e dunque simultanee. Le linee melodico-orizzontali vengono disposte una sopra l’altra, dando luogo, in tal modo, a combinazioni verticali. Con il principio della dialettica negativa, Adorno traduce filosoficamente lo spirito stesso della musica. La figura centrale che esalta tale passaggio è quella del compositore definito non casualmente da Adorno stesso “dialettico”. Il compositore, infatti, proprio in sede compositiva riesce a risolvere la vexata quaestio del rapporto tra soggetto e oggetto, tra i quali esiste una interazione storicamente data e autenticamente cogente. Il compositore dialettico indica dunque concretamente la direzione della nuova sequenza: dalla musica alla filosofia. Non solo la musica non soggiace più al primato della filosofia, ma addirittura indica alla filosofia una via d’uscita da polarità che teoreticamente non erano mai riuscite a sciogliersi in maniera definitiva.







Questo Articolo proviene da AetnaNet
http://www.aetnanet.org

L'URL per questa storia è:
http://www.aetnanet.org/scuola-news-8773.html