Pare che il maestro severo ottenga migliori risultati, mediamente
del 20% in più, rispetto a quello più generoso: da
qui il sotterraneo sibilo di qualcuno che vuole la causa della
china presa dalla scuola alla presenza ormai massiccia
di insegnanti donne, inclini più al mammismo e all’indulgenza
piuttosto che al rigore. Ma da qui pure l’urgenza ormai
irrimandabile di attuare processi di valutazione sul
merito e sulle competenze dei professori e di attuare parametri
di giudizio dei ragazzi più rigidi e più uniformi, visto
che alcuni premiano le eccellenze, altri la mediocrità –
anche per evitare penosi abbandoni – e altri ancora allargano
la gamma dei voti cosicché le insufficienze risultano
poche, livellando la classe e impedendo lo stimolo a fare
meglio.
D’altra parte gli studenti della secondaria superiore ormai
sono oltre 2 milioni e mezzo, mentre le strategie didattiche
sono di poco modificate rispetto all’antico. Poche
risposte di qualità sono state date alle quantità di utenza
e alla richiesta di istruzione, che non è solo la conquista di
una qualità della vita migliore, ma è anche una maggiore
corrispondenza qualitativa alle domande del mondo del
lavoro. In altre parole, c’è una sorta di dicotomia tra le richieste
della società, che pretende competenze e alti standard
di vita attraverso modelli in continua evoluzione, e la
scuola che, massificandosi, non riesce a dare basi culturali
adeguate alle richieste, sia delle famiglie, e sia delle industrie
in perenne competizione fra loro.
L’aumento, dunque, della quantità di scolarizzazione richiederebbe
misure educative adeguate che spetta attuare
alla politica e non a ogni singola scuola sulla base di
una non meglio definita autonomia didattica. Infatti, l’istituzione
scolastica si basa su due pilastri essenziali ma oggi
marcescenti: la selezione del personale e l’incentivazione.
«Così come attualmente strutturati, i due pilastri potrebbero
funzionare solo se gli insegnanti fossero tutti santi,
missionari e dotati naturalmente di caratteristiche perfette
e inossidabili per fare il loro lavoro».
E infatti, dal punto di vista della selezione, sono più le sanatorie
che i concorsi a permettere la conquista delle cattedre
visto che si è consentito di attivare il ciclone dei precari.
Gli stessi concorsi,
peraltro, spessissimo esaminano le
carte, per evitare ricorsi, invece che le competenze effettive,
oltre ad ammiccare alle inevitabili raccomandazioni.
E non solo ancora. Nei programmi concorsuali, poco è richiesto
in termini di didattica pura e di psicologia dell’età
evolutiva, materie assenti perfino da tanti corsi di laurea
che però consentono l’insegnamento. Da qui l’urgenza di
cicli di laurea abilitanti a numero rigorosamente chiuso,
perché basati sulla effettiva necessità, e con discipline
qualificanti come la scienza della didattica e della progettazione,
la psicologia, il diritto.
Per quanto riguarda, invece, l’incentivazione del personale,
hanno ragione coloro che individuano nella scuola il
luogo di imboscamento di gente che a fronte di un magro
stipendio svolge poco lavoro, vacanze comprese. Perché alla
fine tutto si riduce a questo, quando non c’è differenza
né di impegno, né di capacità, né di ruolo. Né ancora si può
pensare di incentivare chi ha presentato o gestito più progetti
o chi ha svolto più funzioni proprio perché con l’insegnamento
nulla hanno a che vedere, anzi spesso distraggono
i docenti dalle classi, frustrando le richieste di conoscenza
degli alunni, allontanano i ragazzi dagli studi. Né
ancora si può lasciare la valutazione del lavoro docente al
solo preside, spesso più propenso a sollecitare stesure di
progetti che a verificare l’effettivo lavoro dei professori in
aula, la loro assiduità, il loro impegno. La soluzione? Alla
politica, ma certamente non a quella del vaffa.
PASQUALE ALMIRANTE (da www.lasicilia.it)