Il velo é simbolo ideologico per antonomasia dell'integralismo e dell'estremismo islamico.
Data: Lunedì, 24 settembre 2007 ore 18:02:42 CEST
Argomento: Opinioni


24.09.2007 Il velo: diritto o imposizione ?
a confronto i commenti di Magdi Allam e Renzo Guolo alle parole di Giuliano Amato

Testata: Corriere della Sera
Data: 24 settembre 2007
Pagina: 32
Autore: Magdi Allam
Titolo: «Il velo non è un diritto ma un'imposizione - Ai confini del velo»



Dal CORRIERE della SERA del 24 settembre 2007 (pagina 32), un editoriale di Magdi Allam che spiega l'errore contenuto nelle parole di Giuliano Amato sul velo islamico:

Amato ha ragione, ma solo a metà, nel fare un collegamento tra il velo islamico e «un' ideologia imperialista». Perché mentre è del tutto opinabile sostenere che «vietare il velo vuol dire imporre un'ideologia imperialista occidentale », è invece assolutamente vero che l'imposizione del velo è lo strumento principale di un'ideologia imperialista islamica, nella certezza che sottomettendo la donna si avrà mano libera nella conquista del potere religioso, culturale, sociale e politico.
Questa è la realtà storica da quando negli anni Settanta il vuoto identitario in Medio Oriente, provocato dal fallimento dell'utopia laico-nazionalista del panarabismo, fu gradualmente colmato dalla reislamizzazione ad opera dei Fratelli Musulmani in Egitto, Siria, Sudan e Yemen, dei wahhabiti sauditi che diffusero un'interpretazione radicale dell' islam disseminando moschee in Asia, Africa e anche in Europa, mentre Khomeini in Iran esportava la sua rivoluzione islamica tra gli sciiti in Iraq e Libano. Ebbene il tratto comune della reislamizzazione è l'imposizione del velo alle donne, sostenendo la tesi arbitraria dell'obbligo coranico. Laddove per le strade della mia Cairo, nel ventennio in cui ci sono nato e cresciuto tra gli anni Cinquanta e Sessanta, non si vedevano donne velate in giro, a partire dagli anni Settanta cominciarono a rendersi visibili fino a trasformarsi in maggioranza. Lo stesso fenomeno involutivo contagiò gradualmente gli altri Paesi musulmani che si caratterizzavano per una sostanziale laicità delle istituzioni e liberalità dei costumi, Marocco, Algeria, Tunisia, Indonesia, Malesia e, più recentemente, la Turchia. Ed è significativo che più si è consolidato il potere degli estremisti islamici, più sono aumentate le donne velate. Il velo è il termometro inconfutabile per registrare il livello di crescita del radicalismo islamico. Sono i fatti ad attestare che il velo è tutt'altro che un simbolo religioso. È piuttosto il simbolo ideologico per antonomasia dell'integralismo e dell'estremismo islamico.
Se potessero ascoltare le parole di Amato, si rivolterebbero nella loro tomba la militante femminista egiziana Hoda Shaarawi, la poetessa irachena Nazik Al Malaika e l'intellettuale egiziano Qasim Amin che sin dall'inizio dello scorso secolo si batterono contro il velo islamico. Così come oggi la tesi di Amato si scontra con la battaglia per l'emancipazione della donna condotta in Algeria dal ministro della Cultura Khalida Messaoudi e dal suo omologo in Egitto Farouq Hosni, che ha recentemente subito un linciaggio religioso, mediatico e politico per aver criticato il velo islamico. Ed è lo stesso impegno civile sostenuto da diverse intellettuali tra cui Fatima Mernissi, Elham Manea, Raja Benslama, Nahed Selim e Monjiya Souaihi. Infine deve far riflettere il fatto che persino alcuni teologi islamici non propriamente moderati sul diritto all'esistenza di Israele e sul terrorismo palestinese, tra cui Gamal Al Banna, Hassan Al Turabi e Ahmad Chaouki Alfangari, sono stati accusati di apostasia e perfino condannati a morte per aver sentenziato che non vi è alcuna prescrizione coranica del velo.
L'invito che rivolgo ad Amato è di considerare la realtà del velo islamico all'interno del contesto originario in cui si colloca e di valutarla con i parametri propri di una religione che è fisiologicamente plurale e storicamente conflittuale. Diversamente si diventa auto-referenziali, collocando la questione del velo nel contesto occidentale e valutandola con i parametri esclusivi dei diritti fondamentali della persona che non hanno riscontro nella sharia islamica. Ciò che ad Amato sfugge è che per gli integralisti e gli estremisti islamici il velo non è un diritto individuale ma un obbligo divino, alla donna non si dà la facoltà di indossarlo o meno, bensì la si obbliga a farlo.
E non si tratta ahimè più soltanto di un fatto che concerne gli «altri», dal momento che anche l'Europa è diventata terra di conquista islamica e vede diffondersi il velo. Con una strategia ufficializzata il 12 luglio 2004 dalla «Assemblea per la protezione del hijab», promossa da Youssef Qaradawi e Tariq Ramadan, i referenti religiosi e ideologici dei Fratelli Musulmani in Europa. Con loro c'erano 300 delegati provenienti da 15 Paesi, tra cui l'Italia. Ebbene la posizione di Qaradawi sul velo è netta: «La donna deve indossare il velo perché glielo ordina Dio. Ma se la moglie rifiutasse di portare il velo, il marito la deve ripudiare».
Questa è la realtà dell'ideologia imperialista islamica che trova purtroppo terreno fertile in un Occidente affetto da un'altra ideologia, il relativismo che nel caso specifico si traduce nell'«islamicamente corretto », trasformando le leggi e le libertà della civiltà occidentale nel cavallo di Troia della conquista islamica.

Renzo Guolo sulla REPUBBLICA (pagina 27) elogia le dichiarazioni di Amato che "spiega" che "il divieto di velo è una sorta di manifestazione ideologica dell´imperialismo occidentale".
Quella di Amato non è nemmeno un'opinione, ma l'espressione di una verità oggettiva.
Il velo è solo in rari casi un'imposizione, dovuta per altro ai "condizionamenti familiari" ( che, è vero, possono "talvolta" essere "anche violenti").
Un articolo che è un perfetto esempio di "islamicamente corretto" confutato da quello di Magdi Allam.

Ecco il testo:


Giuliano Amato spiega che il divieto di velo è una sorta di manifestazione ideologica dell´imperialismo occidentale. Daniela Santanché firma invece una proposta di legge per impedire che le ragazze possano entrare a scuola con il volto coperto. E così, con congruo ritardo rispetto alla Francia, anche l´Italia si trova alle prese con dibattito sull´indumento-simbolo religioso più contestato dell´occidente.
I termini della questione sono questi: i tenaci avversari del copricapo femminile islamico hanno percepito nelle parole del ministro dell´Interno gli echi di un relativismo filosofico ammantato di argomentazioni multiculturaliste e intriso del "complesso di Kurtz", una sorta di orrore per i valori dell´Occidente perseguiti, invece, senza ipocrisie e sino in fondo, dal conradiano personaggio di "Cuore di tenebra". I critici di Amato sottolineano come il velo sia il frutto di un imposizione e non una libera scelta, soprattutto per le ragazze più giovani.
L´intento dichiarato dei seguaci della Santanché è invece quello di garantire "la piena ed effettiva integrazione di tutti gli studenti, che non devono potersi identificare come appartenenti a comunità diverse". Secondo costoro il velo tra i banchi, anche quello, come l´hijab, che copre solo i capelli, rischia di diventare un simbolo di separazione e diversità, piuttosto che di integrazione tra culture. Ma cos´è il velo o i veli, visto che ne indossano di diverso tipo, per le musulmane in Italia? Molte cose, come del resto nel mondo islamico. Per le donne e le ragazze delle famiglie religiose tradizionali il velo assume innanzitutto la funzione di salvaguardare l´onore familiare.
L´emigrazione, l´urbanizzazione forzata addirittura da un paese e da una cultura all´altra, l´intensificazione dei contatti tra sessi nel lavoro e a scuola hanno, infatti, mutato il tradizionale rapporto uomo/donna nell´islam, fondato sulla coppia intimo/non intimo. Trasformazioni destabilizzanti per un immaginario maschile fondato sulla custodia della purezza femminile. Per queste famiglie il velo ristabilisce, almeno simbolicamente, la separazione tra sessi e traccia il limite del lecito: una donna non velata può essere vista senza copricapo solo da uomini appartenenti alla famiglia con i quali i rapporti sessuali sono interdetti, da bambini o anziani.
Dietro ai casi di donne fermate ad Azano, Dresso o Treviso perché indossavano il burqa o il niqab - il primo copre integralmente anche il volto, il secondo lascia scoperti solo gli occhi - non sempre vi sono militanti dell´islam politico; ma come si è visto una visione tradizionale dei rapporti tra sessi. Le donne e le ragazze che vivono in famiglie militanti dell´islam politico esibiscono invece il velo come dichiarata manifestazione di identità. Indossarlo è per loro non solo un obbligo religioso ma anche il simbolo di rifiuto dell´Occidente. Occidente interno, presente intimamente nei corpi delle donne svelate, che appaiono in televisione o nei manifesti pubblicitari. Nella concezione del mondo islamista la donna si vela anche per non farsi consumare dallo sguardo degli uomini. Qui il velo rinvia volutamente all´idea di una società fondata sulla purezza e, per chi lo porta, assume il significato opposto a quello dell´oppressione femminile.
Quanto alle ragazze delle famiglie che lo portano per tradizione culturale, il velo è oggi un mero strumento di opportunità. Indossarlo permette una relativa autonomia dalla famiglia, i cui i maschi tendono a restringere gli spazi femminili quando vi è un esplicito rifiuto di indossare l´hijab. Queste ragazze usano il velo come strumento di accesso alla scena pubblica. Un «velo-passaporto», che consente loro neutralizzare la disapprovazione sociale e familiare. Un prezzo da pagare per andare a scuola del nuovo paese in cui vivono: un mondo privo di condizionamenti e aperto, in cui oltre a impadronirsi di un´altra cultura, cresce l´autostima e la sicurezza personale. Tanto che la mise islamica si integra progressivamente di segni "spuri". Così non sorprende vedere nelle scuole della grandi città italiane, ragazze che indossano l´hijab ma hanno anche il piercing; sotto il velo portano gli stessi abiti delle loro coetanee con le quali condividono anche gli stessi gusti culturali occidentali. Identità plurime, incoraggiate esteriormente anche dalle donne musulmane che hanno scelto di non indossare il velo, restando o meno credenti. Se fosse impedito di portare loro il velo, sarebbero costrette ad abbandonare la scuole e, per evitare le sanzioni legate all´evasione dell´obbligo scolastico, alcune sarebbero rispedite dai nonni nei paesi d´origine. Per le "passaportiste" il velo dovrebbe aprire qualsiasi porta: anche quelle della piscina, come accaduto a Piacenza e Bolzano, dove alcune ragazze velate si sono tuffate sollevando le proteste dei bagnanti e dei gestori e inducendo alcuni gruppi dell´islam organizzato a cercare di inquadrare la domanda familiare di "moralità", attraverso la richiesta di accessi e orari separati in simili luoghi.
Il velo è entrato a scuola anche dalla parte della cattedra: alcuni anni fa a Ivrea una giovane maestra è riuscita a fare il suo tirocinio in un nido privato nonostante le perplessità dei genitori. Insomma un paese in cui il velo è molte cose; anche la libertà di abbandonarlo. Come testimoniano alcune ricerche effettuate a Torino, dai quali risulta che giovani ragazze ormai più istruite dei genitori, sono riuscite a convincerli che portare il velo dovrebbe essere una scelta e che, forse, un giorno non è detto che non lo reindosseranno.
Per tornare al problema sollevato da Amato, si può allora imporre il divieto di velo per legge? La Francia è l´unico paese che lo ha fatto ma la scelta regge perché il modello laico e assimilazionista che ha adottato considera analogamente, dal punto di vista del valore, tutti i simboli religiosi o identitari. Non è un caso che nessun altro paese europeo abbia scelto questa strada. Oltre che costituzionalmente, sarebbe politicamente possibile - o desiderabile - un simile modello? Il tema dell´eguaglianza tra religioni esploderebbe immediatamente, dando vita a fratture sociali e a conflitti.
La domanda è allora: può uno stato laico e liberale, imporre una propria visione dominante in materia? Si può obbligare cittadine e residenti un comportamento che, a torto o a ragione, esse considerano irreligioso? O forse la laicità consiste, anche, nel garantire la piena libertà religiosa, così come i diritti di quanti ritengano opportuno, in qualsiasi momento, abbandonare senza alcun problema il proprio credo e i propri simboli religiosi? I fautori del divieto di velo non sembrano condividere questa concezione della laicità che interpretano essenzialmente come "laicità identitaria". Il velo diventa, nel tempo segnato dal fantasma dello "scontro di civiltà", il simbolo dell´alterità politica, religiosa e culturale all´Occidente: dunque va bandito! È in questa vulgata ideologica che Amato, con la sua voluta provocazione intellettuale, individua un tipica posizione "suprematista" occidentale.
Certo, non va negato che per molte donne il velo è un imposizione, cui difficilmente possono sfuggire per il peso dei condizionamenti familiari, talvolta anche violenti. Ma senza forzature ideologiche, e con un sano uso del diritto come tutela quando è necessario, non è meglio affidare loro la scelta di indossarlo? Fatte salvo le norme di ordine pubblico, che impedisce giustamente di coprirsi totalmente il volto per rendersi riconoscibili, vietare non serve. E può solo rendere più conflittuale la questione. La trasformazione deve essere culturale. In fin dei conti il velo è tornato in auge da circa trent´anni, dopo che per lungo tempo indossarlo, ameno nei centri urbani del mondo islamico, era diventata pratica circoscritta. Solo il ciclo politico di "risveglio dell´islam" lo ha riproposto con forza. Perché gli incessanti mutamenti indotti dai processi di globalizzazione culturale non dovrebbero incidere a ritroso su un simile fenomeno o trasformarlo in uno dei tanti volti della società del futuro?


 







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