Il Sessantotto fu - tra caos e «ribellismo» - un tempo di fiducia, ma anche
di delusioni. Dal dissolversi negli Anni 70 del «clima utopico» ha inizio il declino morale e civile
del paese Italia: soprattutto per la «generazione bruciata» della contestazione e della pantera.
L’ennesima emergenza, e la risposta
consueta: «Sperimentare!
» Non serve osservare come
anche stavolta non è chiaro chi
"sperimenta", chi metterà assieme i
rapporti della sperimentazione, in
quale sede saranno letti a valutati, a chi
toccherà prendere le decisioni eventualmente
suggerite dagli esiti "sperimentali".
E la genericità e labilità dell’approccio
anticipa la costante distrazione,
e la certezza che "nuovi" esperimenti
si proporranno prima ancora
che il o i precedenti siano andati a
buon fine.
Non scopro nulla se, uomo di scuola,
ne concludo che in Italia la scuola è più
un’abitudine che una istituzione: la
politica non ha un’idea propositiva del
paese che è chiamata a governare, e
pare rivolgersi a dei maghi per il nostro
futuro, a fattucchiere per le piaghe del
presente. C’è in corso un attacco indiscriminato
ai consulenti dei ministeri:
chiudere tutti i rubinetti del tipo all’Università
e alla Pubblica Istruzione gioverebbe,
siatene certi, non solo al bilancio
statale; e sarebbe anche un
buon inizio per la fondazione di uno
Stato leggero.
Ho maturato da tempo la persuasione
che nel mezzo secolo scorso, di
riforme grandi o piccole se ne sono
annunciate a decine, ma solo qualcuno
è stata definita, avviata e mai attuata
compiutamente: ne lascio fuori le reiterate
riforme degli ordinamenti (magistratura,
scuola, finanze, sanità), gabellate
come riforme tout court, o più
cautamente come preliminari ad ogni
riforma dei settori interessati, assistite
da promesse di dimagrimento, da "aggiornamento
permanente" e dallo
spreco vergognoso degli "incentivi di
produttività" proposti come alternativi
alla ripugnante selezione meritocratica.
Non è il caso di far graduatorie in
materia di costi e di sprechi, e non so
quanto possa servire fare una graduatoria
dei ministri senza aver fatto una
storia dei rispettivi ministeri. Per la
scuola italiana dagli anni ’50 ad oggi,
due soli nomi paion galleggiare nel generale
naufragio - quello della Falcucci,
e quello di Tullio De Mauro (e forse
di Ruberti per l’Università a la ricerca):
ma anche per il loro tempo, lungo per
l’una e fin troppo breve per l’altro, può
dirsi di un "clima" della scuola italiana,
che non fosse depresso, opaco, segnato
da demotivazione. Le cure Berlinguer
e Moratti hanno solo mostrato lo
stadio terminale della patologia che si
esprimeva con quei termini.
Attribuendo a quel clima la spiegazione
della presente "emergenza", provo
a saggiarne le cause in vista non di
facili processi (e condanne) ma per
aiutare una riflessione interna che porti
aria nuova in ambiente asfittici. E’ il
motivo che da qualche anno pongo al
centro di un dialogo con docenti e con
giovani che hanno scelto e scelgono
più o meno esitanti quella professione.
E’ corrente presso i docenti, che sono
spesso genitori, la rassegnata constatazione
della "distanza" della famiglia
(quando c’è) dalla scuola dei figli, e
dell’assunzione della scuola come luogo
e alibi per la formazione di bambini
e di adolescenti, cui "la famiglia" si
riconosce incapace o impotente. Fin
qui, si dirà, nulla di nuovo - soprattutto
in conseguenza della rivoluzione
dell’istituto famiglia, che ha accentuato
le difficoltà emerse con rude evidenza
con l’avvento della scuola di massa.
Quel che è "nuovo" è l’atteggiamento
dei docenti che, demotivati, cercano
fuori di sé - nel mutamento sociale, e
nel ritardo istituzionale (stipendi, carriera,
ecc.) - le ragioni di una loro rinuncia
che ha finito nel passato ventennio
per contagiare anche gli allievi.
Lo storico della presente scuola italiana
deve fissare anche per questo il ’68
come spartiacque: a monte l’importanza,
in una con l’originalità, delle vere
riforme che la scuola italiana ha conosciuto
- l’istituzione (1962-63) della
media unificata, e la connessa riforma
della primaria; a valle la delusione
ora rassegnata ora aggressiva, in tutti i
casi conflittuale, dei soggetti che si
erano detti portatori della rivoluzione.
Il ’68 fu - tra caos e "ribellismo" - un
tempo (breve) di utopia e di fiducia
nel quale si confidò di portare a perfezione
"rivoluzionaria" la deriva riformatrice
del centro-sinistra, che precedette
la "contestazione" e fu peraltro
il principale destinatario dell’aggressione
- in un conflitto generazionale, di
cui soprattutto i padri ebbero difficoltà
a capire le motivazioni e a governarle.
Da quella "delusione", e dal violento
dissolversi negli anni ’70 del "clima
utopico", ha inizio il declino morale
e civile del paese Italia; né solo per le
sacche (i terrorismi contrapposti) in
cui se ne concentrarono i tossici, ma
soprattutto per la "generazione bruciata",
vale a dire per le due-tre generazioni
successive (della contestazione
studentesca, della "pantera", ecc.) segnate
da frustrazione e peggio. I meno
si dissero impegnati a capire gli "errori",
i più rassegnati ad accettare l’Italia
come un paese seduto, moderato, non
redimibile.
Queste due-tre generazioni non
scelsero, come alcuni di noi della generazione
dei padri, la scuola come il
luogo di una rifondazione morale e civile:
la rivolta, la domanda di utopia
era maturata nella scuola tra tensioni e
ansiosa ricerca di sbocchi. Era naturale
che nella scuola, per docenti e studenti,
trovassero deposito le frustrazioni
e le delusioni, e di questo neoscetticismo
furono contagiate intere
generazioni di allievi. Quegli stessi di
cui oggi si lamenta la ricerca spregiudicata
del successo, la cattiveria che si
spinge fino al crimine, una interpretazione
gangsteristica dei rapporti sociali.
E non stupisce la (parziale) convergenza
di analisi di Veltroni e di papa
Ratzinger: basterà a superare le presenti
contraddizioni?
Ammettiamolo: abbiamo assistito,
con risposte anche moralmente, certo
culturalmente insufficienti, all’instaurarsi
in Italia di forme "barbare" di degrado
sociale. Il segno più visto ne è la
rimozione del futuro, l’impotenza a
progettare "città celesti", l’esaurirsi del
circolo vitale utopia-riforma che era
stato l’anima della generazione mia e
dei nostri "padri che sapevano sognare". Raggiungerò fra breve ottant’anni:
per la generazione del secondo Dopoguerra
che fu la mia, famiglia era il patrimonio
morale (e materiale se c’era)
da consegnare ai figli; se entrate in
colloquio con i "giovani" (tra i 18 e i 30
anni), apprenderete che a monte c’è
una zona opaca - molti ammetteranno
di aver "ereditato" un patrimonio
materiale, pochi un patrimonio morale.
Tutti ammetteranno che la "famiglia"
non è più stata il deposito tradizionale
di valori morali e civili - il deposito
cui attingere, rinnovandolo e
adeguandolo, per costruire nel presente
il futuro, la speranza, l’utopia.
Laici o "fedeli", abbiamo partecipato
alla curée della politica, sempre più
sorda alle Cassandre (l’espressione
entrò in politichese per Ugo La Malfa)
che denunciavano questo viver al di
sopra delle risorse e il montar irresistibile
del debito pubblico caricato sulle
spalle delle generazioni a venire.
E’ questo tempo opaco, che divide i
nipoti dai nonni, i giovani che han bisogno
di futuro ed il nonni "che sapevano
sognare" - un tempo che tendiamo
a rimuovere, e che con varie
formule (la notte della Repubblica,
Tangentopoli, ecc.) proviamo ad assolvere
o condannare prima di averlo
compreso. L’unica risposta che conosco,
e che domina nella retorica corrente
è la terapia meritocratica, che -
retorica a parte - è persino peggiore
del male: è un placebo infetto steso su
una piaga torpida. Quel che manca ai
giovani è quel che i loro padri (genitori
o maestri) non hanno più - la motivazione
che sta a fondamento del loro
saper fare, capire e aspettare. L’assenza
di motivazione priva i giovani della
spinta a utilizzare l’imponente strumentario
che globalizzazione e digitalizzazione
consegnano loro: e son
quasi sollecitati a iscriversi nel gran libro
dei furbi. Cosa dobbiamo "sperimentare"
in un mondo tanto mutato,
ove la sopravvivenza è assicurata dalla
capacità di intenderlo per governarlo,
che non sia una rifondazione
morale, che si affidi alla convinzione
che il lavoro intellettuale, e le congiunte
ricadute pratiche o tecnologiche
del medesimo, han diritto sociale
di gratificazione e riconoscimento. Lo
studente deve essere assistito nel fondare
la persuasione che il suo "lavoro"
gli dà non solo prospettive, ma gratificazione:
e ciò abbisogna del sostegno
di un docente "motivato".
In questo caso, non è la retorica dell’aggiornamento
o del merito (misurato
con incentivi sindacalizzati) a far
premio: la formazione del docente investe
più il metodo che non i contenuti
ai quali egli può accedere in rapporto
alle risorse disponibili. Una biblioteca
come un laboratorio sono luoghi
di una formazione "di base", dove lo
sperimentare è insieme pratica e creazione.
La scuola, il terminale da sempre
più sensibile del "tono morale" di
una comunità, abbisogna di un "ritorno
alla fiducia", e però di un’autonomia
che non sia la solita astuzia per
ridurre la pubblica spera o peggio, dirigerla
verso fini impropri o sprechi,
"diretti" dalla burocrazia. Quel che è
stato, e vuol essere ancora questo
"sperimentare" ad infinitum, questo
gioco estenuato tra metodo e contenuti
che sente del marcio della minestra
andata a male. Ma non basta, a fare
positivo, lasciare vuoto il piatto.
GIUSEPPE GIARRIZZO
(da www.lasicilia.it)