LA SCUOLA OGGI. A lezione di degrado dopo il tramonto delle utopie collettive
Data: Martedì, 04 settembre 2007 ore 01:03:38 CEST
Argomento: Rassegna stampa


Il Sessantotto fu - tra caos e «ribellismo» - un tempo di fiducia, ma anche di delusioni. Dal dissolversi negli Anni 70 del «clima utopico» ha inizio il declino morale e civile del paese Italia: soprattutto per la «generazione bruciata» della contestazione e della pantera.

L’ennesima emergenza, e la risposta consueta: «Sperimentare! » Non serve osservare come anche stavolta non è chiaro chi "sperimenta", chi metterà assieme i rapporti della sperimentazione, in quale sede saranno letti a valutati, a chi toccherà prendere le decisioni eventualmente suggerite dagli esiti "sperimentali". E la genericità e labilità dell’approccio anticipa la costante distrazione, e la certezza che "nuovi" esperimenti si proporranno prima ancora che il o i precedenti siano andati a buon fine.

Non scopro nulla se, uomo di scuola, ne concludo che in Italia la scuola è più un’abitudine che una istituzione: la politica non ha un’idea propositiva del paese che è chiamata a governare, e pare rivolgersi a dei maghi per il nostro futuro, a fattucchiere per le piaghe del presente. C’è in corso un attacco indiscriminato ai consulenti dei ministeri: chiudere tutti i rubinetti del tipo all’Università e alla Pubblica Istruzione gioverebbe, siatene certi, non solo al bilancio statale; e sarebbe anche un buon inizio per la fondazione di uno Stato leggero.

Ho maturato da tempo la persuasione che nel mezzo secolo scorso, di riforme grandi o piccole se ne sono annunciate a decine, ma solo qualcuno è stata definita, avviata e mai attuata compiutamente: ne lascio fuori le reiterate riforme degli ordinamenti (magistratura, scuola, finanze, sanità), gabellate come riforme tout court, o più cautamente come preliminari ad ogni riforma dei settori interessati, assistite da promesse di dimagrimento, da "aggiornamento permanente" e dallo spreco vergognoso degli "incentivi di produttività" proposti come alternativi alla ripugnante selezione meritocratica.

Non è il caso di far graduatorie in materia di costi e di sprechi, e non so quanto possa servire fare una graduatoria dei ministri senza aver fatto una storia dei rispettivi ministeri. Per la scuola italiana dagli anni ’50 ad oggi, due soli nomi paion galleggiare nel generale naufragio - quello della Falcucci, e quello di Tullio De Mauro (e forse di Ruberti per l’Università a la ricerca): ma anche per il loro tempo, lungo per l’una e fin troppo breve per l’altro, può dirsi di un "clima" della scuola italiana, che non fosse depresso, opaco, segnato da demotivazione. Le cure Berlinguer e Moratti hanno solo mostrato lo stadio terminale della patologia che si esprimeva con quei termini.

Attribuendo a quel clima la spiegazione della presente "emergenza", provo a saggiarne le cause in vista non di facili processi (e condanne) ma per aiutare una riflessione interna che porti aria nuova in ambiente asfittici. E’ il motivo che da qualche anno pongo al centro di un dialogo con docenti e con giovani che hanno scelto e scelgono più o meno esitanti quella professione.

E’ corrente presso i docenti, che sono spesso genitori, la rassegnata constatazione della "distanza" della famiglia (quando c’è) dalla scuola dei figli, e dell’assunzione della scuola come luogo e alibi per la formazione di bambini e di adolescenti, cui "la famiglia" si riconosce incapace o impotente. Fin qui, si dirà, nulla di nuovo - soprattutto in conseguenza della rivoluzione dell’istituto famiglia, che ha accentuato le difficoltà emerse con rude evidenza con l’avvento della scuola di massa.

Quel che è "nuovo" è l’atteggiamento dei docenti che, demotivati, cercano fuori di sé - nel mutamento sociale, e nel ritardo istituzionale (stipendi, carriera, ecc.) - le ragioni di una loro rinuncia che ha finito nel passato ventennio per contagiare anche gli allievi.

Lo storico della presente scuola italiana deve fissare anche per questo il ’68 come spartiacque: a monte l’importanza, in una con l’originalità, delle vere riforme che la scuola italiana ha conosciuto - l’istituzione (1962-63) della media unificata, e la connessa riforma della primaria; a valle la delusione ora rassegnata ora aggressiva, in tutti i casi conflittuale, dei soggetti che si erano detti portatori della rivoluzione.

Il ’68 fu - tra caos e "ribellismo" - un tempo (breve) di utopia e di fiducia nel quale si confidò di portare a perfezione "rivoluzionaria" la deriva riformatrice del centro-sinistra, che precedette la "contestazione" e fu peraltro il principale destinatario dell’aggressione - in un conflitto generazionale, di cui soprattutto i padri ebbero difficoltà a capire le motivazioni e a governarle.

Da quella "delusione", e dal violento dissolversi negli anni ’70 del "clima utopico", ha inizio il declino morale e civile del paese Italia; né solo per le sacche (i terrorismi contrapposti) in cui se ne concentrarono i tossici, ma soprattutto per la "generazione bruciata", vale a dire per le due-tre generazioni successive (della contestazione studentesca, della "pantera", ecc.) segnate da frustrazione e peggio. I meno si dissero impegnati a capire gli "errori", i più rassegnati ad accettare l’Italia come un paese seduto, moderato, non redimibile.

Queste due-tre generazioni non scelsero, come alcuni di noi della generazione dei padri, la scuola come il luogo di una rifondazione morale e civile: la rivolta, la domanda di utopia era maturata nella scuola tra tensioni e ansiosa ricerca di sbocchi. Era naturale che nella scuola, per docenti e studenti, trovassero deposito le frustrazioni e le delusioni, e di questo neoscetticismo furono contagiate intere generazioni di allievi. Quegli stessi di cui oggi si lamenta la ricerca spregiudicata del successo, la cattiveria che si spinge fino al crimine, una interpretazione gangsteristica dei rapporti sociali.

E non stupisce la (parziale) convergenza di analisi di Veltroni e di papa Ratzinger: basterà a superare le presenti contraddizioni?

Ammettiamolo: abbiamo assistito, con risposte anche moralmente, certo culturalmente insufficienti, all’instaurarsi in Italia di forme "barbare" di degrado sociale. Il segno più visto ne è la rimozione del futuro, l’impotenza a progettare "città celesti", l’esaurirsi del circolo vitale utopia-riforma che era stato l’anima della generazione mia e dei nostri "padri che sapevano sognare". Raggiungerò fra breve ottant’anni: per la generazione del secondo Dopoguerra che fu la mia, famiglia era il patrimonio morale (e materiale se c’era) da consegnare ai figli; se entrate in colloquio con i "giovani" (tra i 18 e i 30 anni), apprenderete che a monte c’è una zona opaca - molti ammetteranno di aver "ereditato" un patrimonio materiale, pochi un patrimonio morale.

Tutti ammetteranno che la "famiglia" non è più stata il deposito tradizionale di valori morali e civili - il deposito cui attingere, rinnovandolo e adeguandolo, per costruire nel presente il futuro, la speranza, l’utopia.

Laici o "fedeli", abbiamo partecipato alla curée della politica, sempre più sorda alle Cassandre (l’espressione entrò in politichese per Ugo La Malfa) che denunciavano questo viver al di sopra delle risorse e il montar irresistibile del debito pubblico caricato sulle spalle delle generazioni a venire.

E’ questo tempo opaco, che divide i nipoti dai nonni, i giovani che han bisogno di futuro ed il nonni "che sapevano sognare" - un tempo che tendiamo a rimuovere, e che con varie formule (la notte della Repubblica, Tangentopoli, ecc.) proviamo ad assolvere o condannare prima di averlo compreso. L’unica risposta che conosco, e che domina nella retorica corrente è la terapia meritocratica, che - retorica a parte - è persino peggiore del male: è un placebo infetto steso su una piaga torpida. Quel che manca ai giovani è quel che i loro padri (genitori o maestri) non hanno più - la motivazione che sta a fondamento del loro saper fare, capire e aspettare. L’assenza di motivazione priva i giovani della spinta a utilizzare l’imponente strumentario che globalizzazione e digitalizzazione consegnano loro: e son quasi sollecitati a iscriversi nel gran libro dei furbi. Cosa dobbiamo "sperimentare" in un mondo tanto mutato, ove la sopravvivenza è assicurata dalla capacità di intenderlo per governarlo, che non sia una rifondazione morale, che si affidi alla convinzione che il lavoro intellettuale, e le congiunte ricadute pratiche o tecnologiche del medesimo, han diritto sociale di gratificazione e riconoscimento. Lo studente deve essere assistito nel fondare la persuasione che il suo "lavoro" gli dà non solo prospettive, ma gratificazione: e ciò abbisogna del sostegno di un docente "motivato".

In questo caso, non è la retorica dell’aggiornamento o del merito (misurato con incentivi sindacalizzati) a far premio: la formazione del docente investe più il metodo che non i contenuti ai quali egli può accedere in rapporto alle risorse disponibili. Una biblioteca come un laboratorio sono luoghi di una formazione "di base", dove lo sperimentare è insieme pratica e creazione.

La scuola, il terminale da sempre più sensibile del "tono morale" di una comunità, abbisogna di un "ritorno alla fiducia", e però di un’autonomia che non sia la solita astuzia per ridurre la pubblica spera o peggio, dirigerla verso fini impropri o sprechi, "diretti" dalla burocrazia. Quel che è stato, e vuol essere ancora questo "sperimentare" ad infinitum, questo gioco estenuato tra metodo e contenuti che sente del marcio della minestra andata a male. Ma non basta, a fare positivo, lasciare vuoto il piatto.

GIUSEPPE GIARRIZZO (da www.lasicilia.it)







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