Gli esami di Stato sono finiti. Come? Come
al solito, cioè bene, anche se con un
pizzico di trionfalismo in meno rispetto
alle passate edizioni. Un poco più di austerità
(che però qualcuno ha fatto scadere
nel grottesco); un po’ meno faciloneria
(sono stati più numerosi i casi di
docenti che hanno richiesto dai loro
alunni qualche escursione fuori dal percorso
preconfezionato con cui nel passato
si concludeva tutta la performance
dei maturandi). Il commento si potrebbe
chiudere qui. La cronaca ha già iniziato
a registrare l’albo d’oro dei centisti, la
hit parade della cultura
che dovrebbe essere
un ossimoro se si
riuscisse a riflettere
sul valore profondo
della seconda e su
quello effimero della
prima.
Ma se questi esami
vengono osservati con
il regard éloigné suggerito
dall’antropologia
culturale, devono
essere motivo di maggiore
attenzione e,
purtroppo, di allarme.
Riferiamo i fatti: dopo
ne abbozzeremo
un commento. La curva
di applicazione allo
studio rivelata dalle
prove è monotòna
verso il basso. Si studia
sempre di meno e
si evitano le materie
"difficili". I nostri diciottenni
sono benissimo
versati nell’arte
della retorica e sanno
chiacchierare con adeguata
scioltezza su
tutto lo scibile (come nei talk show),
ma a condizione di mantenersi sulle generali.
Se chiedi un riscontro bibliografico,
se imposti una discussione sulle
coordinate cronologiche, le cortine fumogene
della retorica decadono lasciando
scorgere aridi panorami di desolanti
incertezze: "Polibio è il più grande
degli storici ellenistici... -Bene, bravo,
ma chi sono gli altri? -Boh!"; "Il fascismo
fu la grande macchia del Novecento...
- Ma lei sa quando iniziò? - Credo
nel 1929, quando ci fu la crisi della
Borsa... - Sa che cosa fu la Marcia su Roma?
- Non saprei...". Gli ignoranti ci sono
sempre stati, ma quelli che hanno risposto
così non appartengono alla categoria.
Sono ragazzi ben valutati dai docenti
di classe, con un curriculum ragguardevole
e generalmente premiati in
sede di esami. Il motivo di preoccupazione
è proprio questo. Perché passando
dalle discipline della discussione a quelle
della cognizione il vuoto contenutistico
si fa quasi assoluto. "Che cosa è questa
parola? Credo un verbo"; "Come si risolve
questa equazione? -Non lo so".
Il lettore non corra prematuramente
alle conclusioni. I nostri ragazzi non sono
certamente più stupidi di quelli di
mezzo secolo fa, né più ignoranti di
quelli che si preparavano ai tempi dell’esame gentiliano.
Gli alunni di tutti i tempi sono il riflesso
dei maestri. Da un
buon maestro esce un
alunno serio e operoso,
da una scuola sfilacciata
e parolaia escono diplomati
dall’apparenza onnisciente
e dalla sostanza
inconsistente, come
dimostrato dalla falcidia
nelle prove di ammissione
alle università che
non distribuiscano lauree
a go go ai personaggi
dello spettacolo. Ci siamo
abituati (e abbiamo
abituato i ragazzi) a considerare
più importante
un "evento" (scolastico
o mediatico fa poca differenza)
piuttosto che
l’ordinaria amministrazione.
Abbiamo insegnato
a giovanotti e signorine
che l’idea brillante è
già tutto (come pensava
D’Annunzio) pur se non
sostenuta da solidità di
impegno e continuità di
applicazione. Fioriscono
le discipline della comunicazione
(il cui sublime
esempio è Mike Bongiorno) e si assottigliano
gli studiosi di scienze esatte o
sperimentali (sempre più suppliti da
Persiani e Indiani che sono abituati in
patria al duro lavoro anche intellettuale).
Ma fortunatamente la partita non è ancora
persa. Se i Maestri si convincessero
che la conoscenza non è un marchio di
infamia e che gli sproloqui senza sostanza
si addicono alle show-girl e non
agli scholastici: se fossero incoraggiati a
mirare alla cultura smettendola con gli
"eventi", in breve tempo avremmo una
inversione di tendenza e i nostri studenti,
nel giro di qualche anno, saprebbero
recuperare quelle posizioni che
hanno perse -come rivelato dalle statistiche-
nel panorama internazionale.
SERGIO SCIACCA (da www.lasicilia.it)