PALERMO. «Assolta perché il fatto non sussiste».
Questa la sentenza emessa ieri mattina, con rito
abbreviato e dopo avere ascoltato le repliche di
accusa e difesa, dal giudice dell’udienza preliminare
Piergiorgio Morosini nei confronti dell’insegnante
di 56 anni della scuola media «Silvio Boccone» di Palermo denunciata e processata per
abuso di mezzi di correzione e lesioni. La professoressa
di lettere, il 28 gennaio 2006, aveva punito
uno degli allievi facendogli scrivere 100 volte
sul quaderno «sono un deficiente
» perché, con un atto di
bullismo, aveva impedito ad un
compagno undicenne di servirsi
della toilette degli uomini dicendogli,
davanti a tutti: «Non
puoi entrare qui, sei gay, sei una
femmina».
Una vicenda che sarebbe passata
inosservata se il padre del
ragazzo punito non avesse denunziato
l’insegnante, costituendosi
parte civile e chiedendo
un risarcimento di 25 mila euro del danno psichico
che il figlio avrebbe sofferto in conseguenza
della punizione. Tesi condivisa dal pm Ambrogio
Cartosio che ha chiesto la condanna dell’imputata
a due mesi di reclusione. Per il Gup, invece,
la punizione – scrive nella motivazione di 13
pagine letta contestualmente alla sentenza e accolta
dagli applausi di alcuni esponenti dall’associazione
«Gay» e «Articolo 3» che in mattinata
avevano manifestato con bandiere e cartelli la loro
solidarietà all’imputata – «è un mezzo pedagogico-
disciplinare rispettoso dell’incolumità fisica
e morale del minore e indispensabile per il
raggiungimento di importanti obiettivi attraverso
un’opera di convincimento e persuasione».
Perché – sottolinea il Gup – nell’insegnante
c’era «la volontà di realizzare un sostegno solidaristico-
protettivo nei confronti del soggetto debole
unitamente all’esigenza di non accreditare
di fronte a tutta la classe modelli comportamentali
negativi di prevaricazione sugli altri che trascurano
gli effetti psicologici di certe offese verbali
». Queste ultime, insieme con «i comportamenti
prepotenti ed intimidatori» possono portare
– spiega più oltre – «a gesti gravi di autolesionismo
e anche a tentativi di suicidio, come attestano
recenti fatti di cronaca».
«Sono felice – ha detto l’insegnante che è stata
difesa dall’avvocato Sergio Visconti – perché il
giudice ha capito le mie motivazioni.
L’intenzione non era di
punire né di umiliare il ragazzo.
Volevo semplicemente farlo riflettere
su quanto aveva fatto.
Nessun insulto. In più di trent’anni di insegnamento, non
ho mai insultato un alunno. Al
ragazzo – ha aggiunto – avevo
spiegato, discutendo in classe
con lui e i suoi compagni, che
"deficiente" vuol dire "privo di"
e lui era stato privo di sensibilità
nei confronti del compagno che aveva offeso.
Volevo che l’episodio fosse spunto di discussione
e niente più. Ho sempre insegnato agli allievi a
dire quello che pensano ma con educazione, altrimenti
che uomini saranno? Anche con il ragazzo
punito ho cercato di dialogare e credo che
lui abbia compreso le mie intenzioni. In vita mia
non sono mai stata contro qualcuno e se sbaglio
sono abituata a chiedere scusa, come sono abituata
a mettermi, da madre, nei panni dei genitori.
«Sono convinta – ha concluso – che se i familiari
avessero avuto una reazione diversa, il ragazzo,
che è molto vivace tanto da essere segnalato
dai colleghi al preside perché adottasse opportuni
provvedimenti, avrebbe accettato senza problemi
la punizione».
GIORGIO PETTA (da www.lasicilia.it)