L’identità, l’universale e il nucleo vivo dell’umanesimo
Allegoria n° 49 di Romano Luperini
1.
Ho qui sotto gli occhi, ricevuta casualmente, la bozza dei programmi di letteratura italiana elaborata da un pedagogista (di cui taccio il nome) per conto della commissione per i licei linguistici. Dopo una avvertenza iniziale in cui l’estensore bisticcia con se stesso dicendo che la sua non è una proposta di programma ma solo una serie di indicazioni o di “tracce” ma poi aggiungendo fra parentesi che tali tracce sono “vincolanti” per tutti, seguono otto pagine in cui non compare mai – e si noti che si riferisce ai licei linguistici – un confronto con altre letterature, neppure europee, o con altre discipline. I percorsi per generi che avrebbero potuto aprire alle altre letterature sono assenti, i percorsi tematici sono presenti solo come confusi contenitori di capitoli di storia letteraria. Di fatto i temi sono ridotti a questi tre: «itinerari dell’uomo», «sentimenti» e «concezioni del mondo». Qualche esempio, involontariamente esilarante: sotto «Itinerari dell’uomo» viene inserito come argomento «L’accettazione immediata della vita in Boccaccio»; sotto «Sentimenti» «Il sentimento veristico di Verga»; sotto «Concezioni del mondo» « La satira di Tassoni». Così Saba viene collocato sotto «Sentimenti» e ridotto all’etichetta degli «affetti semplici». Montale ha un ruolo da comprimario e nettamente secondario rispetto a Quasimodo, gli ultimi narratori ricordati dopo Svevo sono Pratolini e, chi sa perché, Bacchelli. Probabilmente chi ha redatto i programmi ha novant’anni, si è formato fra il 1930 e il l945 e poi non ha letto più nessun altro libro.
Non so se è più grave la sottocultura che traspare da questo documento oppure l’inerte nozionismo che lo ispira e che si disperde in una serie di concettini slegati fra loro e privi di qualsiasi prospettiva d’insieme. Si assiste al trionfo dei particolarismi. Nessun respiro unificante. Solo disgregazione al minuto. Solo istruzione, niente educazione.
Ma si può insegnare senza un progetto? E poi, anche: si può insegnare senza una utopia?
2.
Nella sua recente autobiografia Hobsbawm si pronuncia con durezza contro la tendenza, nella storiografia, a parlare in nome di una identità contro altre identità, a scrivere cioè una storia scritta all’interno di un gruppo solo per i membri di quel gruppo – Hobsbawm si riferisce alla “storia di identità”, molto diffusa soprattutto negli Stati Uniti -.
Che il gruppo sia un’etnia, una nazione, un sesso non cambia molto. «Definendosi in contrapposizione a qualcun altro, l’identità implica essenzialmente la non identificazione con l’altro. Essa conduce al disastro», conclude.1 Rifiuto del particolarismo, universalità della storia e tendenza alla totalità, insomma, sono istanze umanistiche a cui il grande storico continua a restare fedele.
Siamo in un’epoca nuova segnata da immani contrasti di culture e di civiltà. Sotto il manto della globalizzazione, che induce a un massimo di centralizzazione del comando economico e politico, sta avanzando un processo di disgregazione e di spappolamento delle identità, che tendono perciò a contrapporsi, a chiudersi a riccio e a resistere arroccandosi sul proprio passato. L’epoca dei valori umanistici e universali sembra tramontata per sempre. Oppure, quando questi valori vengono invocati, servono solo come copertura a una sorta di imperialismo culturale e politico, che vorrebbe imporre come universale il sistema occidentale dei diritti liberali e democratici.
In questa situazione quale tenuta conservano – se la conservano – le categorie della identità e della universalità? E lo stesso umanesimo quanto è superato dallo sviluppo storico, quanto è compromesso con la civiltà occidentale che lo ha elaborato e quanto, invece, è recuperabile all’interno di un progetto di educazione alla cittadinanza del mondo e di una nuova etica planetaria?
A questi interrogativi di carattere generale se ne aggiungono poi altri, più particolari, più attinenti alla disciplina che insegniamo. Hobsbawm, per esempio, rifiuta la storia di identità. Ma noi italianisti, formatici su una tradizione romantica e ottocentesca che ha a capostipite De Sanctis e la sua Storia della letteratura italiana, abbiamo sempre insegnato una disciplina nazionale fondata sul cemento della lingua italiana. Ha senso per noi, ed eventualmente che cosa significa per noi, superare una prospettiva di identità nazionale?
3.
L’altro ci assedia. Anzitutto la letteratura è assediata dall’universo tecnologico e dall’imperialismo della comunicazione televisiva ed elettronica, dall’universo dei linguaggi pubblicitari e utilitaristici. La stessa lingua italiana è sempre più inquinata e corrotta da infiltrazioni del “similinglese” (o, meglio, dal “similamericano”) di moda e dai gerghi tecnologici e manageriali che a esso si ispirano. Nello stesso tempo, la globalizzazione ci porta a contatto con un mondo multiculturale, con religioni e civiltà diverse dalla nostra, con vere e proprie invasioni di popoli che premono ai nostri confini spinti dalla fame, dalla miseria e dalla guerra o come immigrati già frequentano le nostre scuole portandovi culture ed esigenze estranee al costume e alla mentalità occidentale. Di fronte a queste pressioni diverse e persino opposte ma convergenti nell’effetto destabilizzante, il riflesso di chiusura e di difesa rischia di divenire quasi automatico, e infatti già si manifesta in una legislazione che vincola gravemente la libertà di viaggio e di spostamento da un lato e il dovere dell’ospitalità dall’altro. Sul piano culturale e su quello del canone letterario non sono mancate proposte di arroccamento, avanzate anche da grandi studiosi di letteratura (è il caso dell’americano Harold Bloom e della sua difesa del canone occidentale). Né mancano, in direzione opposta, tendenze che sembrano invece favorire la spinta alla disintegrazione di qualsiasi identità nazionale ed europea perché incoraggiano forme confuse ed eclettiche di meticciato o, viceversa, perché propugnano particolarismi localistici e regionali (spicca fra questi in Italia la pretesa di fondare l’identità addirittura nazionale di una regione su una presunta identità etnica, quando invece l’identità nazionale è, in ogni caso, solo una “costruzione” ideologica e cioè culturale ed etico-politica).
La scuola deve trovare una propria via muovendosi fra queste spinte contrastanti. Non è facile e qui si può soltanto cominciare a gettare le basi teoriche e metodologiche di un discorso che in Italia è appena agli inizi e dunque ancora tutto da sviluppare. Ma sarà forse utile dichiarare sin da ora che fra il riflesso condizionato dell’appartenenza e l’effetto dello spaesamento occorrerà cercare una terza via.
4.
Lo studio della letteratura ha un vantaggio rispetto ad altri campi disciplinari: presuppone, nel suo proprio statuto epistemologico, la dimestichezza con l’altro. È già stato detto altre volte (e recentemente, con forza, da Francesco Orlando:2 l’altro è il testo. Non è un’alterità lontana da noi, esterna al nostro lavoro di sempre. Si annida nel fondo della nostra disciplina. Il rispetto per il testo non è diverso dal rispetto per la persona. Conoscere un testo non è diverso da conoscere un altro uomo: è necessaria la stessa tensione dialogica ed etica. Forzare l’interpretazione di un testo può essere un atto di violenza. Il testo, non solo se appartiene a secoli remoti e a civiltà superate ma anche se esprime la cultura dei nostri giorni, esige sempre uno sforzo di avvicinamento e di comprensione. Leggere Montale non è più facile di leggere Dante.
Ciò è giusto. Tuttavia non mi pare che sia sufficiente a esaurire i nostri compiti. Troppo spesso la tradizione dell’umanesimo da cui noi proveniamo ha mostrato maggiore rispetto per i testi che per le persone e le culture, e ha sostituito il dialogo con i testi a quello fra i popoli e le culture concrete. La storia dell’intellettuale dell’Occidente è anche la storia, direbbe Vico, della “boria dei dotti” che scambiano il loro universo testuale con l’universo tout court. La dimestichezza con l’altro che contraddistingue il nostro lavoro oggi è sottoposta a prove nuove che esso non può eludere. Restare nel recinto della tradizione non basta. Il vantaggio che quella dimestichezza ci dà va dunque verificato su terreni nuovi.
Non possiamo certo abbandonare il terreno della letteratura nazionale. Sia il sostantivo (letteratura), sia l’aggettivo (nazionale) sono imprescindibili. Da un lato esiste anche una identità della letteratura da salvaguardare (e cioè un suo canone, un insieme di valori formali e tematici, una tradizione), e niente per esempio ci convincerà a trasformare la letteratura da monumento a documento e a renderla mera testimonianza di una grammatica del potere (come avviene, per esempio, nei Cultural Studies americani) o illustrazione sussidiaria di percorsi tematici e storici. Dall’altro c’è una esigenza di identità politica, culturale e linguistica che è irrinunciabile. Questa letteratura italiana e questa lingua italiana sono la nostra stessa storia, e noi abbiamo il dovere (anche istituzionale) di difenderle. E neppure, ovviamente, possiamo rinunciare alla nostra identità europea e sottrarci al compito di mostrare le affinità profonde e gli strettissimi legami che connettono la letteratura italiana a quella del resto del continente e del mondo occidentale in genere.
Si tratta tuttavia di acquisire una sensibilità nuova e dunque di aprirci a modi nuovi di insegnare la nostra disciplina. Il punto di vista di chi studia la letteratura italiana, europea e occidentale è particolare e parziale. Esso implica sempre – lo si sappia o no – la presenza di altri punti di vista. Per contrappunto, l’altro è sempre oscuramente presente nel nostro discorso: magari anche solo per esclusione. La nostra identità culturale è stata costruita nei secoli; ma l’abbiamo “inventata” (direbbe Remotti) anche per opposizione. Non possiamo e non dobbiamo rinunciare alla nostra identità; ma dobbiamo essere consapevoli della sua particolarità e della sua parzialità, evitando di proporne un’estensione universalistica di tipo imperialistico e aprendoci al dialogo con le altre culture. Bisogna avere una identità nazionale ed europea forte, ma anche confrontarla con le culture di altri popoli. Il confronto sarà poi tanto più fruttuoso quanto più l’interlocutore, muovendo da una sicura coscienza di sé, sarà disposto a metterla in gioco misurando la propria autocoscienza con quella altrui. D’altronde si dialoga per cambiare non solo l’altro ma anche noi stessi. Scopo del vero dialogo è sempre modificare entrambi gli interlocutori.
5.
Nel suo DNA (se mi è lecito esprimermi così) la nostra disciplina presenta un altro aspetto potenzialmente vantaggioso di apertura all’altro. Per sua natura implica un’apertura all’extraletterario e all’interdisciplinarità. Fa parte intrinseca della critica letteraria e della saggistica in cui essa si esprime il ricorso ad altre discipline (dalla storia alla psicoanalisi, dalla filosofia alla sociologia). D’altra parte è lo stesso testo letterario che è una porta d’ingresso in mondi diversi dalla letteratura, facendo riferimento agli aspetti sociali ed esistenziali più vari e complessi del destino umano. Lo studio della letteratura non ha il rigore chiuso e monodisciplinare di certe scienze esatte, ma quello aperto e interdisciplinare dell’ermeneutica. Ciò non significa, beninteso, che il critico o l’insegnante di letteratura debba diventare un tuttologo che si esprime su tutto senza conoscere e approfondire nulla; ma che deve impiegare una rete di categorie, di concetti e di informazioni desunti anche da altre discipline per insegnare meglio la propria. Da questo punto di vista l’attenzione per alterità è connaturata al nostro stesso lavoro. Una volta salvaguardata la centralità degli aspetti letterari (da quelli formali al canone), i percorsi tematici non possono essere impiegati solo come uno escamotage per tagliare e abbreviare i programmi, ma vanno valorizzati per meglio sottolineare e articolare le componenti interdisciplinari del nostro impegno didattico nel campo della letteratura. E fra queste non potrà mancare la dimensione interculturale. Indubbiamente l’incontro con l’altro si esprime anche in altri aspetti: basti pensare al represso culturale, ai temi della follia, del corpo e della differenza sessuale. Tuttavia in questo momento, nell’orizzonte storico che caratterizza questi anni segnati da drammatici contrasti di civiltà e di culture e da grandiosi fenomeni di emigrazione e di spostamento di popoli interi, il rapporto Occidente-altri mondi e il confronto interculturale mi sembrano ineludibili. A seconda del tipo di scuola, si può puntare soprattutto sulla letteratura italiana (basti pensare alla presenza della civiltà araba nelle origini della nostra letteratura, al modo con cui Dante e Boccaccio la rappresentano, al Milione di Marco Polo, alle immagini del saraceno in Ariosto e in Tasso e al tema, nei loro poemi, del selvaggio e del cannibale nel nuovo mondo, poi ripreso e rovesciato polemicamente dall’illuminista Parini nel Giorno) o invece sulle letterature europee (dal Calibano di Shakespeare ai mussulmani di Montesquieu, da Swift e Defoe a Tournier) o su quelle del Sud del Mondo (dal nigeriano Chinua Abele al pakistano Hanif Kureischi sino al sudafricano Coetzee, per non parlare della ricchissima letteratura del Sudamerica), magari allargando il confronto al cinema (i rapporti interrazziali e interreligiosi sono al centro, per esempio, di non pochi film non solo negli Stati Uniti ma anche e soprattutto in Inghilterra e in Germania).
6.
In questa sede, tuttavia, e in questa fase ancora propedeutica e, per dir così, fondativa, più degli esempi didattici concreti, servirà cominciare a definire metodi e categorie critiche.
Una prima questione è stata posta tempo fa da Emanuele Zinato3 sotto forma dilemmatica: meticciato o metodo contrappuntistico? La forma del meticciato è quella stessa della combinazione, dello zapping e della navigazione in rete. È pericolosa perché vive nel costume, ha dalla sua la pratica del vivere nel postmoderno perché privilegia l’accostamento, il cumulo, la giustapposizione, lo scorrimento in superficie, la mancanza di spessore. Il metodo contrappuntistico – teorizzato a suo tempo da Said – mira invece a porre in risalto la contraddizione e la sua ragione storica, mostra la trama di conflitti di cui è tessuta la civiltà nel pianeta e tende a trasformarla in dialogo, e a fare ciò in modo critico, non con il buonismo ipocrita del “politicamente corretto”. Siamo qui a un punto delicato che forse è necessario chiarire meglio. Si tratta di partire dalla propria particolarità senza ipostatizzarla, di non rinunciare alla propria parzialità e tuttavia di saperla mettere in discussione. In altri termini, si tratta di avere ben chiaro che educare è più complesso del semplice istruire. Educare comporta non il ribadimento e l’arricchimento della appartenenza e della identità di partenza, ma qualcosa di più, che, come vuole l’etimologia, “tiri su”, faccia crescere attraverso il confronto con l’altro. Implica cioè una operazione di traduzione, di trapianto e di trasmissione che si svolge sia verticalmente (dal passato al presente) sia orizzontalmente (da altre culture alla nostra e dalla nostra alle altre culture). Un’operazione di traduzione, perché si rende attuale il passato riscrivendolo nella lingua dell’oggi e mondi lontani, anche se a noi contemporanei, vengono, per così dire, grammaticalizzati nel linguaggio della nostra civiltà; di trapianto perché ciò che è lontano nel tempo e nello spazio viene fatto rivivere, facendolo entrare nel circolo vitale di una civiltà diversa da quella di partenza; di trasmissione perché, nel confronto multiculturale con il presente, non si tratta di una operazione unidirezionale bensì di un dialogo, di uno scambio di comunicazioni. In ogni caso, traduzione, trapianto, trasmissione comportano una messa in chiaro della differenza culturale. Non si può tradurre se non da una lingua diversa, non si può trapiantare che da un corpo o a un altro, non si può trasmettere se non siamo in due.
Attraverso il rapporto con l’altro storico si forma la memoria di una comunità, attraverso quello con l’altro etnico, religioso e culturale si forma un nuovo senso di cittadinanza e di etica planetaria. Il nostro obbiettivo deve essere questa reversibilità delle distanze e delle differenze, dunque un nuovo patto fra le generazioni e fra i popoli. Dirò di più: l’educazione – come ci ricorda Fortini in una poesia appunto intitolata Reversibilità – si propone anche un’altra reversibilità: quella fra natura e civiltà, fra il biologico e il sociale. L’educazione infatti grammaticalizza anche l’altro biologico, la morte, la malattia, gli istinti; lo traduce nei segni della civiltà; ci permette di guardare in faccia l’orrore della morte e il caos delle pulsioni, di renderli meno ferini, di mediarli con la cultura.
Misurandoci con il passato e con le altre culture del presente, la nostra particolarità si confronta con le altre. Nessuna cultura, né la nostra di partenza né le altre, può ambire alla totalità o universalità. Dobbiamo piuttosto cogliere il contenuto di verità che sta in ogni posizione diversa dalla nostra. Ovviamente siamo abituati a questa ginnastica mentale grazie, come ho già detto, allo statuto disciplinare stesso del nostro lavoro. Trovare il contenuto di verità nelle opere che leggiamo fa già parte del nostro lavoro: è, direi, il nostro lavoro. È il metodo dialettico o allegorico che Benjamin aveva teorizzato.
7.
A questo punto, però, la questione si sposta ancora una volta e ci si presenta sotto un aspetto nuovo, sinora inesplorato. Ci si potrebbe chiedere infatti: ma con quale criterio si riconosce il contenuto di verità che dobbiamo cercare nelle opere?
Per un insegnante – e per un insegnante di materie letterarie soprattutto – questo criterio è quello dell’utopia. Ogni educazione presuppone una utopia, la esige. Ciò è valido sempre, in generale; figuriamoci oggi, nella situazione di miseria e di assedio a cui è sottoposta la scuola e in cui ci troviamo a vivere. Non si dà educazione senza utopia, senza un progetto in nome del quale “tirare su”, verso una qualche meta, i giovani che ci vengono affidati. Definire la meta dell’oggi: questo è l’essenziale, dunque.
E ancora una volta per trovare la nostra utopia bisogna tornare indietro, alle nostre radici. Passato e futuro hanno d’altronde un destino solo. Salvare l’uno è anche salvare l’altro. C’è un nucleo vitale nel nostro passato che si tratta di recuperare e di far rivivere. Questo nucleo vitale sta nella tradizione stessa da cui proveniamo, quella dell’umanesimo. L’umanesimo porta con sé, già nel nome, il concetto e la prospettiva dell’unico universale che ci è concesso: quello del genere umano e della socialità che esso presuppone.
L’umanesimo, come il razionalismo illuministico di cui hanno parlato Adorno e Horkheimer, è doppio e infatti ha lasciato una doppia eredità. Troppe volte nel passato e nel presente ha fatto passare per universale il proprio particolare, scambiando il dialogo con i conciliaboli fra i dotti, presentando la propria cultura letteraria come negazione delle scienze e delle tecniche e, oggi, magari, esportando la propria idea di democrazia come universalismo dei diritti occidentali. Non possiamo dimenticare che il trionfo dell’umanesimo ha coinciso anche con la scoperta, l’annientamento o la schiavitù dei cosiddetti selvaggi.
E tuttavia l’umanesimo è anche fondatore della prospettiva utopica di una civiltà del dialogo (il dialogo, fra l’altro, nasce come genere letterario dal cuore stesso dell’umanesimo) ed è portatore di un criterio di verità effettivamente universale: va incoraggiato e promosso tutto ciò che unifica il genere umano e che salvaguarda le differenze accettandole come ricchezza e interna dialettica di un genere umano unificato. Da questo punto di vista la conclusione politica della Ginestra leopardiana non è che una espressione di una secolare tradizione umanistica.
Dopo l’11 settembre siamo entrati in un’epoca nuova. I contrasti fra le civiltà sembrano diventati insanabili. Popoli interi sono costretti a emigrazioni bibliche. Terrorismi contrapposti si fronteggiano. Catastrofi nuove si profilano. La nostra vita è diventata più precaria. L’altro è già fra noi, e non bastano più a impedircene la percezione gli schermi televisivi che lo riducono a immagine o quelli di cristallo dei nostri supermarket e delle nostre città di vetro, progettati dagli architetti postmoderni quasi a impedirci la vista dell’esterno e il contatto stesso con esso.
La scuola deve essere all’altezza di questa nuova situazione; deve educare facendo fronte a una nuova drammatica condizione umana che la globalizzazione proietta ormai su una scala planetaria. Un compito estremo. Perché la scuola, in questo spazio lacerato da immani contraddizioni, deve educare alla cittadinanza del mondo: deve, come ha scritto Martha Nussbaum, “coltivare l’umanità”, l’universale umano che è in tutti noi.
8.
Un compito estremo, dicevo. E reso più difficile nella situazione attuale italiana da almeno due circostanze: il declino in questi anni della civiltà italiana e con esso – ed è coincidenza niente affatto casuale - del prestigio e del ruolo della letteratura e di chi la insegna; e l’involuzione della scuola prodotta dai processi di “riforma” in atto.
Dai documenti che circolano si ricavano infatti alcune tendenze di fondo: l’ideologia ministeriale punta a incoraggiare l’individualismo e la competizione, inducendo gli allievi a percorsi personali;la disarticolazione e settorializzazione della comunità scolastica si traduce in canalizzazione precoce, cosicché la divisione riguarda non solo i singoli ma i gruppi sociali, alcuni spinti verso l’alto (i licei), gli altri verso il basso (le scuole professionali), senza che venga garantita una base unitaria e neppure possibilità reale di interscambio dal basso all’alto; viene di fatto distrutta la classe come comunità organica, sede di formazione unitaria e di un sapere comune, a esclusivo vantaggio della proiezione sul mondo del lavoro, dei curricoli personali degli allievi e della influenza delle loro famiglie; questa impostazione non solo dissolve qualsiasi tendenza alla socializzazione del sapere, ma mina alle radici la possibilità stessa di una formazione unitaria di base: con il terzo anno di ogni ciclo proiettato verso l’altro (il 2 più 1), viene di fatto ridotto lo spazio dei programmi comuni; la scuola pubblica, proprio in quanto pubblica, viene vista con sospetto, a favore delle scuole private, l’articolazione e disarticolazione particolaristica delle quali è più congeniale al progetto ideologico perseguito.
Viene così colpita a morte la spinta verso l’unità del sapere e verso un sapere condiviso. La nuova scuola prefigura una società in cui ciascuno è solo sul mercato del lavoro, in concorrenza con tutti gli altri; e prefigura un mondo in cui ciascun popolo si comporta in modo predace su scala mondiale. Mentre la forza dell’educazione sta nell’unire verticalmente (dal passato al presente) e orizzontalmente (avvicinando i vari popoli e le varie culture di oggi), la cosiddetta “riforma” smembra, settorializza, contrappone. Fa trionfare i particolarismi.
9.
La “riforma” in atto nega l’utopia umanistica; è, alla radice, antieducativa. Pone in discussione la possibilità stessa di fare della classe una comunità ermeneutica, in cui si sviluppi una libera dialettica interpretativa all’interno di un sapere comune. In una comunità ermeneutica ognuno muove sì dalla propria parzialità, ma non per assolutizzarla, bensì per porla in rapporto dialettico con le altre parzialità al fine di creare lo spazio interpretativo e democratico di una verità comune articolata, complessa e tendenzialmente universale. La classe, in quanto comunità interdialogica, prefigura un mondo senza frontiere. In una scuola pubblica e dunque pluralistica per sua natura, la classe costruisce uno spazio che rispetta le differenze, e tuttavia non esclude, ma unisce. Aspira all’universalità dell’umanesimo. Ebbene, oggi è proprio questa universalità a essere minacciata. Siamo in una situazione-limite. I professori di italiano non potranno e non dovranno dimenticare di essere gli ultimi eredi di una tradizione umanistica che può apparire per certi versi ormai consumata, ma che conserva nel suo fondo un nucleo ancora vitale e un’utopia sempre più necessaria e attuale.
1. E. Hobsbawm, Anni interessanti. Autobiografia di uno storico, Rizzoli, Milano 2002, p. 458.
2. F. Orlando, Teoria della letteratura, letteratura occidentale, alterità e particolarismi, in Un canone per il terzo millennio, a cura di U. M. Olivieri, Bruno Mondadori, Milano 2001, pp. 63-87 e Id., L’altro che è in noi. Arte e nazionalità, Bollati Boringhieri, Torino 1996.
3. E. Zinato, Dei confini della letteratura. Le prospettive di una didattica intersciplinare, in «Allegoria», XIII, 37, gennaio-aprile 2001, pp. 63-71.
L'articolo è stato pubblicato sul n° 49 di «Allegoria»,