LO STUDIO DELL'ANTICHITA' CLASSICA: CONVERSAZIONE CON LUCIANO CANFORA
Data: Sabato, 12 maggio 2007 ore 00:05:00 CEST
Argomento: Rassegna stampa


Lo studio dell’antichità classica. Conversazione con Luciano Canfora
 a cura di Daniela Cavallo

 Uno sguardo sull’antichità classica per la consapevolezza della differenza tra il mondo antico e il nostro mondo; il valore dello studio delle lingue non più viventi, tradurre il greco e il latino come metafora di una palestra per la mente, che prevede un allenamento per conquistare quella elasticità necessaria ad affrontare la prova finale del salto intuitivo.
 Qualche riflessione di Luciano Canfora, professore di Filologia classica presso il Dipartimento di scienze dell’antichità dell’Università di Bari.



 Come proporre lo studio dell’antichità classica nella scuola? Quali possono essere gli elementi di questa disciplina che la scuola dovrebbe assicurare a tutti?
Lo studio dell’antichità classica negli ordini di scuola in cui essa è stata presente ed è ancora presente, il cosiddetto liceo classico, quello scientifico, e il magistrale che poi si chiamerà pedagogico, ha sempre avuto un posto cospicuo, rilevante, tanto da incutere in alcuni riformatori la volontà di emarginarlo, ridurlo, in omaggio a un principio anche giusto di non creare una deformazione mentale negli allievi; esigenza, questa, che non è recente.
 I nostri ministri, riformatori, hanno forse poca cultura, poca informazione in questo campo. Penso a Guglielmo II, invece, che parecchio tempo addietro, nell’anno 1900, promuove, presiede una Schulkonferenz, una conferenza sullo stato di salute della scuola dell’Impero tedesco, e con forza chiede la riduzione delle ore settimanali di greco nel ginnasio umanistico, equivalente del liceo classico, in favore della lingua inglese, delle discipline scientifiche, dicendo ai professori esterrefatti, tutti classicisti, presenti «Io non voglio formare degli antichi greci e romani ma dei tedeschi», che è una formulazione aspra e sintetica, ma molto efficace; è interessante notare che grandissimi studiosi dell’antichità vicini al potere, molto vicini al vertice politico-culturale dell’Impero, come il grande Wilamowitz, approvarono in pieno questa scelta in opposizione ai professori di ginnasio che invece vi vedevano già una profanazione. Questo per dire che il problema querelle degli antichi e dei moderni dentro l’istituzione scolastica è sempre stato vivo, vitale, per fortuna, in quanto da quel conflitto nasce la trasformazione.
 Dove comincia la barbarie? Comincia quando si decide il più e il meno importante, quando si comincia a fare una scala. Tutta la storia passata è fondamentale e vive dentro di noi, per cui è un’amputazione il decidere che un pezzo si toglie, si riduce e così via. Naturalmente la barriera che via via si determina e nel corso del tempo diventa sempre più problematica è quella della lingua, delle lingue antiche, come veicolo per la comprensione. Consideriamo la frase che il grande Wilamowitz disse quando scrisse lui stesso un libro scolastico di greco, il Griechisches Lesebuch, il libro di lettura di greco, «Se lo scolaro non legge correntemente il greco, questo libro è meglio non adottarlo nemmeno»; naturalmente, lo scolaro che legge correntemente il greco è un’utopia, oggi, ma lo era già cento anni fa. Non dobbiamo illuderci.
 Basta questo evidente limite a indurci a fare a meno della conoscenza del mondo antico? Certamente no, anche se l’illusione molto diffusa secondo cui lo studio linguistico sarebbe un lusso è completamente erronea, perché dobbiamo ammettere contemporaneamente che si tratterebbe di un inevitabile impoverimento e quindi di una conoscenza di seconda mano, dogmatica, di quel mondo.



 Quali sono gli elementi capitali della civiltà antica che il cittadino qualunque sia il suo destino nella società dovrà, sperabilmente, serbare nella sua memoria individuale? Io sono contrario all’idea che il mondo antico detenga dentro di sé i valori inconcussi e fondamentali ispirandosi ai quali abbiamo in mano la stella polare. Questa è un’idea vecchia, molto radicata nella cultura, diciamo così, professoria ancien régime, ma completamente sbagliata, nel senso che siamo noi che crediamo che alcuni dei valori presenti nell’antichità sono i valori per eccellenza. È una nostra proiezione all’indietro e anche una scelta dentro un mondo che è molto più complicato, molto più contraddittorio, eversivo o repressivo, spiritualista o materialista, ascetico o il suo esatto contrario, a seconda dei pezzi di documentazione che ci sono rimasti. Quindi, qual è l’elemento da mantenere nella propria testa come preziosa acquisizione, dopo aver studiato più o meno scolasticamente quella epoca storica? La consapevolezza della differenza, la capacità di capire la differenza: gli antichi sono diversi da noi, quindi la banalità della immobile natura umana che si ripete attraverso il tempo e noi non abbiamo altro compito che rimirare questa identità e ispirarci ad essa è il peggiore dei modi di usare il mondo antico. E quindi il suo contrario, cioè quello che mette l’accento sulla differenza, è il più istruttivo e forse quello che ad un cittadino può servire anche come categoria mentale. Questa è la mia risposta al primo, arduo quesito.

 In una sua lezione su un personaggio molto importante della storia romana, Ottaviano (Augusto), ha detto: «Nella comunità antica il mestiere più importante è quello del cittadino, certo perché ci sono gli schiavi che permettono l’attenzione allo studio». Due domande e qualche considerazione: qual era la dimensione del cittadino in Grecia e a Roma? Quanto era necessario essere esenti da impegni di ordine pratico?
 Oggi i ragazzi non sembrano oberati da mansioni di questo tipo (c’è, piuttosto, un eccessivo assecondarli in attività paraludiche che prendono tanto tempo!), e sembra che il ‘tentativo’ sia quello di eliminare, o rimandare, ogni riferimento all’assunzione di responsabilità. Poi, in un altro passaggio della stessa lezione, ha detto una cosa che mi ha colpito molto, anche perché corrispondeva esattamente a qualcosa che da tempo mi girava per la testa, ma che non riuscivo bene a esprimere. La riferisco testualmente: «La dolcezza pedagogica rallenta».
«Nella comunità antica il mestiere più importante è quello del cittadino», con un corollario su che cosa rende un uomo cittadino nella polis. Ecco, questo direi che è un po’ il tema che unifica tutti gli altri aspetti, dal momento che la cittadinanza, cioè l’appartenenza a una élite ristretta che possiede la pienezza dei diritti, è la posta in gioco principale nella comunità antica, e nel conflitto che si determina all’interno di ogni comunità. La gestione della cittadinanza è tutto, nel senso che chi ne è fuori è una ‘non persona’. Nell’Atene arcaica prima di Solone si può precipitare per debiti nella condizione di ‘non persona’, cioè si perde la libertà individuale e lo statuto di cittadino per una contingente e drammatica circostanza, qual è appunto quella dell’indebitamento e dell’incapacità di fronteggiarlo. Situazione di pericolo talmente grave che appunto una delle iniziative fondamentali cui si lega la memoria stessa di questo notevole legislatore, mediatore politico che fu Solone consistette nel mettere una barriera invalicabile tra lo statuto di libero e lo statuto di non libero, ovvero schiavo, cancellando la possibilità di cadere in servitù per debito. A quel punto, come è stato detto più volte e con molta lucidità, per esempio da Moses Finley, la schiavitù diventò un mondo totalmente separato e condannato, destinato a non riscattarsi se non con una faticosa contrattazione individuale, a base economica fra l’altro, e la libertà fu l’appannaggio della minoranza dei cittadini di pieno diritto. Questa è la grande rivoluzione soloniana, che, mentre riscatta alcuni, condanna definitivamente gli altri. Pensare fino in fondo questa situazione, questo concetto, significa anche avere un’idea più storica della rivoluzione soloniana alla quale si collega la nascita della forma politica democratica, già nella tradizione antica e poi anche nell’immagine storiografica moderna. La natura sostanziale della cittadinanza consiste, nella città antica, nel ruolo militare: il cittadino è allo stesso tempo il guerriero e il guerriero è ipso facto cittadino, le due figure coincidono e magari si apre un problema ulteriore; per esempio nell’Atene del V secolo, dalla fine della tirannide alla piena instaurazione della democrazia alla metà circa del secolo, si apre una delicata questione su quali ruoli militari comportino la totale cittadinanza. L’innovazione che crea le premesse per una democrazia cosiddetta radicale all’interno dei liberi, l’innovazione consisté nell’includere nella cittadinanza anche coloro che non si possono armare a proprie spese: i famosi «marinai che muovono le navi», che diventano addirittura la base sociale della democrazia, diventano una forte minoranza - non sono mai stati una maggioranza numerica, come sapeva benissimo Aristotele - ma una forte minoranza molto
 



 politicizzata, che partecipa ai lavori dell’assemblea, dove non vanno tutti inevitabilmente, ma vanno i più politicizzati e determina ‘l’andamento’ stesso della politica della città. Resta comunque il principio che essi, in quanto parte determinante della più importante arma di cui Atene disponga, cioè le navi, sono guerrieri e per ciò cittadini (e si torna su questo punto); nel caso della repubblica romana la cosa è addirittura linguisticamente dimostrata dall’identità del concetto, populus, esercito e popolo, la parola vuol dire tutte e due le cose. Senatus populusque vuol dire il Senato e l’esercito oltre che il Senato e il popolo. Quindi, questo è il cardine della cittadinanza, ma, come dicevo, il fatto che al di là di quel baratro, che fu segnato inizialmente da Solone, c’è tutto il resto degli esseri umani, ai quali è demandata parte cospicua della produzione e del lavoro nelle sue varie forme (quello minerario, quello agricolo, quello domestico) fa sì che il cittadino sia anche un uomo che dispone di molto tempo libero. Questo non accade per esempio, nella realtà dell’Attica, ai piccoli coltivatori, i quali sono legati a un terreno che devono curare in maniera più o meno continua, e quindi non frequentano l’assemblea popolare; se non in casi particolarmente rilevanti, per esempio quando i loro interessi sono direttamente colpiti. Il protagonista degli Acarnesi di Aristofane, il famoso Diceopoli, è lì dall’alba in attesa che arrivino i politici perché deve protestare, urlare se qualcuno di loro caldeggia la continuazione della guerra, ma non è un abituale frequentatore dell’assemblea perché ha molto da fare nel suo demo, nel suo terreno. Questo ci fa capire abbastanza bene la dinamica contenuta in quella frase da cui abbiamo preso le mosse, secondo cui il cittadino della città antica, che certamente è tale in quanto è guerriero, è anche uno che dispone di un tempo da dedicare alla vita pubblica, alla frequentazione del teatro, forme di cultura collettiva assai vitali nella città antica, perché esiste un mondo
 del lavoro separato e subalterno. La proiezione estrema di questo pensiero, che non è un pensiero estatico, entusiasta, è naturalmente un pensiero critico; la proiezione estrema ed entusiastica è quella famosissima di Friedrich Nietzsche, il quale dava del cosiddetto miracolo greco una spiegazione assai brutale; che, cioè, proprio la schiavitù, il fatto di avere scaricato su un mondo subalterno e non riconosciuto nella sua pienezza umana, la fatica del lavoro avrebbe determinato la grandezza spirituale dei Greci.

Questi Greci che appaiono quasi non esistenti, venati da una mitologia pari a quella del pantheon greco antico.
Sono lontanissimo dalla idolatria per gli antichi e quando si cade in estasi dinanzi alla tragedia greca sento un certo
 


 disagio e cerco di ricordare che noi abbiamo per caso un gruppetto minuscolo di tragedie a fronte di centinaia di altre che sono andate perdute; se le avessimo tutte la nostra frenesia estatica si abbasserebbe di molto, il tono sarebbe più pacato. Ecco, c’è questa idea buffa e assolutamente antistorica che trasforma un mestiere in una sorta di produzione di capolavori a getto continuo che è inconcepibile e dà appunto quel senso di lontananza, di disagio, di rifiuto che è tra i fattori che mettono in crisi la conoscenza del mondo antico. Il ‘miracolo greco’ è un’invenzione moderna ovviamente, fermo restando che le realizzazioni nel campo, per esempio, del pensiero scientifico (si dice i Greci siano arrivati sull’orlo del calcolo infinitesimale; io non lo so, perché non sono un matematico) meritano la più grande ammirazione ovviamente; questo vale anche per l’applicazione pratica dei calcoli che si vedono, per esempio, nell’architettura, che non è il prodotto casuale di estri, ma è il frutto di calcoli di carattere appunto matematico. Quindi, storicizzare tutto questo, come si diceva nell’Ottocento «mettere i Greci a nudo», è l’unica via per conoscerli, per stabilire un rapporto sano con questo passato e forse metterlo a frutto.
 Quanto alla domanda ulteriore, al fatto cioè che i nostri ragazzi non sembrano proprio «oberati», ma sembra piuttosto che il tentativo sia quello di eliminare ogni riferimento all’assunzione di responsabilità, io questo pensiero lo condivido, perché credo che la traduzione banale dell’idea del cittadino libero di esplicare la sua spiritualità sia diventato il culto del tempo libero e del non lavoro; a questo punto gli antichi, nel loro aspetto più faticoso per noi, quello dell’approfondimento, della conoscenza di una lingua non più vivente, di lingue non più viventi, tornano di grande utilità. Mi riferisco a un pensiero non molto popolare, anzi dimenticato perché impopolare, di Antonio Gramsci, il quale era un pedagogista piuttosto severo, quindi non adatto all’attuale centrosinistra e neanche all’attuale centrodestra, molto fuori della demagogia vigente. Gramsci in una delle pagine dei Quaderni in cui si occupa della Riforma Gentile, del senso della riforma della scuola pensata e realizzata dall’Idealismo italiano (perché la Riforma Gentile poi è stata ideata insieme con Croce, e viene definita fascista, ma in realtà era stata pensata prima), riflettendo su tutto questo insieme, sul riordino del liceo classico, sulla sua funzione e così via, riflettendo anche sulla limitazione dello spazio riservato allo studio linguistico che in quella riforma si verificava nello spirito di quella tedesca di pochi anni prima di cui abbiamo letto all’inizio, fa un po’ controcorrente l’elogio dello studio linguistico, come la cosa faticosa alla quale non ci si può non sottoporre, perché lo studio deve essere doloroso, faticoso e solo allora produce una crescita. Lui dice che lo studio del latino e del greco, del latino in particolare in quel caso, ha questo importante vantaggio: è come vivisezionare un cadavere, che non ha nulla a che fare con lo studio di una lingua moderna, è un lavoro duro, complicato, che esige ore di applicazione e in quanto tale è vantaggioso Questa formulazione è stata dimenticata, direi anche dai gramsciani più devoti. Non perché tutto quello che ha scritto Gramsci sia di per sé la verità, ma è interessante il fatto che si sia formata nella sua mente questa idea perché probabilmente ha visto un elemento che di solito si lascia in ombra. Lui dice in modo implicito quello che si potrebbe dire, a mio giudizio, in modo ancora più fecondo: proprio perché lingue non praticate, non viventi, inquadrate in una realtà che noi faticosamente conquistiamo, una realtà che dobbiamo recuperare per pezzetti e che in gran parte ci sfugge, tanto più sono per noi difficili. La difficoltà in cosa consiste? Nella necessità intuitiva. Tradurre da una lingua come il greco, come il latino, esige un salto intuitivo dalla successione delle parole al senso complessivo di ogni periodo ed è quello l’esercizio più importante, per lo meno pari a quello che si determina nello studio della matematica, assolutamente unico e insostituibile e sicuramente complicato anche per i docenti, i quali non è detto che siano allenati necessariamente a questa ginnastica straordinaria che si ripropone per l’interprete dinanzi a ogni pagina: ogni pagina nuova, in quelle lingue, richiede da chi le affronta questa elasticità; crearsi nella mente il senso generale che dà un senso a tutti i pezzi, che presi ciascuno per sé non significano nulla. Posso fare la traduzione simultanea di una lingua vivente se faccio l’interprete alle Nazioni Unite, ma non potrò mai fare la traduzione simultanea di un testo greco o latino, mettendo in fila tutte le parole che mi trovo davanti. È quel salto, quell’intuizione necessaria grazie alla quale ci si addestra: perché quanto più si ripete questo esperimento aiutandosi con traduzioni, con l’aiuto di docenti che ci guidano e così via, tanto più questo
 

 salto viene agevolmente compiuto. Ecco, questo è un procedimento mentale secondo me entusiasmante, di grandissima utilità, rispetto al quale il problema del «a che mi serve?» perde qualunque significato, perché se io l’ho fatto per alcuni anni della mia carriera scolastica e poi farò il medico, o l’ingegnere o farò l’artista di teatro, quell’esercizio mi sarà stato preziosissimo, quale che sia il mio abituale impiego di quella elasticità mentale che avrò conquistato. Ecco perché credo che la questione si ponga in termini non di banale, di empirica, utilitaria riscossione di vantaggi, ma in termini di addestramento mentale, che è forse la cosa più importante cui la scuola può sperare di giungere. Ecco perché ho detto che la dolcezza pedagogica rallenta, perché la dolcezza pedagogica ritarda lo sviluppo delle persone, in quanto lo sviluppo è uno sviluppo attraverso un tirocinio, una disciplina, un’autolimitazione, una capacità di proporsi degli obiettivi e raggiungerli, l’esatto contrario della dolcezza; la dolcezza è in fondo l’utopia, la pura utopia. L’utopia è quella di Giambulo, in Diodoro Siculo, in cui si immaginano persone ferme sotto alberi da cui i frutti cadono spontaneamente e vengono colti senza fatica. È un sogno dell’umanità, l’età dell’oro, ma l’età dell’oro è soltanto un’idea utopistico-letteraria, non è un programma politico e neanche un obiettivo. Quindi la dolcezza è veramente il contrario di ciò che forma e fa maturare le persone. Il caso specifico che ho illustrato prima - perché il campo che ci riguarda è quello dello studio del mondo antico, toccando la questione più delicata, la difficoltà linguistica - è l’esempio a mio avviso più eloquente di come una pedagogia non demagogica dia frutti e come invece l’altra sia sostanzialmente tautologica rispetto all’esistente. Problemi di questo genere, impostati così, possono sembrare ostentazione di severità o di rigore. Non c’è nulla di ostentativo in questo, c’è la riflessione che è anche ormai un bilancio, perché noi abbiamo alle spalle decenni di storia della scuola e di pratica scolastica e ci siamo, credo, tutti resi conto dell’impoverimento contenutistico, dell’aver realizzato un prodotto alla fine meno valido, più povero, che sa meno cose, che sa meno bene muoversi nel mondo, che non ha parametri mentali, fra i quali c’è l’autolimitazione, la capacità di autolimitarsi e, quindi, di avere un rapporto corretto con gli altri. Decenni di esperienza ci fanno vedere che il risultato è stato scadentissimo. Allora, tornare indietro è sempre una ginnastica mal vista, ma certamente battere strade completamente diverse da quelle che si sono rivelate perdenti è saggia politica.

 Torniamo all’intento teorico di questa conversazione. Con quali argomenti si può tentare di ‘convincere’ uno studente, che affronta la scelta dello studio universitario da intraprendere, a optare per una disciplina del settore umanistico? E poniamo che questa scelta cada su una facoltà di Lettere (magari proprio su Lettere classiche, come si diceva un tempo); alla reazione quasi certamente inorridita di chi apprende la (nefasta!) notizia, cosa si può opporre, come si può argomentare concretamente?
Le riflessioni fatte fin qui, credo, tolgono di mezzo anche il falso problema della utilità, che è un argomento che spesso torna nella riflessione. Torna soprattutto nelle famiglie, perché le famiglie incombono sui loro rampolli e instillano nella loro testa, magari per ragioni anche comprensibili, il criterio utilitaristico: scelgo una scuola che mi dia un riscontro immediato e evidente e scredito quella che, invece, questo risultato non me lo dà. Qui però si vorrebbe fare un piccolo chiarimento, che non credo sia del tutto ovvio. È noto che nella storia delle strutture educative dei Paesi europei che hanno una certa somiglianza nelle strutture stesse (Francia, Germania, Italia per tanto tempo, dalla metà dell’Ottocento in avanti, più o meno hanno avuto un sistema scolastico simile), in questi nostri Paesi è facilmente documentato il fenomeno per cui le scuole di carattere immediatamente tecnico erano le scuole delle classi popolari; percorso più breve, sbocco immediato in un lavoro di carattere, avrebbe detto Croce, banausico, cioè essenzialmente connesso alla fatica fisica, ad un impiego di carattere prettamente subalterno-dipendente, lavoro nobilissimo, ma naturalmente alla fine obbligato sbocco per alcune classi e non per altre, mentre i licei, in particolare quello classico, erano invece il percorso e poi lo sbocco di classi medio-alte, che si potevano permettere lo studio cosiddetto inutile, nel senso alto e filosofico della parola, al seguito del quale c’era l’università, al seguito della quale c’erano le professioni. Quindi, l’ordinamento sociale aveva nella scuola in certo senso la sua cellula di partenza e anche i suoi percorsi già preordinati. Non deve essere però dimenticato che proprio le classi povere, costrette più o meno dalla dinamica sociale a scegliere in un certo modo, se consapevoli anche in minima parte, guardavano con desiderio e nostalgia alla scuola cosiddetta inutile. Il paradosso dinanzi al quale noi ci troviamo è che nelle classi medio-alte si è fatta strada l’idea che l’inutile scuola di carattere storico-filosofico-contemplativo va sostituita con una scuola di immediata utilità. È un paradosso. Coloro che socialmente avrebbero anche la possibilità di concedersi questo piacere neutrale e pratico si sono così imbarbariti da sognare una forma scolastica minore, più povera e quindi, in ultima analisi, perdente.



 È un sovvertimento. Si diceva un tempo, anche Concetto Marchesi l’ha detto quando difendeva il latino: il proletario desidera che suo figlio lo sappia il latino. E noi siamo nel paradosso che invece il benestante dice «Ma a che mi serve questa cosa inutile?», avendo dell’utile e dell’inutile un’idea estremamente banale e povera.
 Questo chiarimento serve a sbaraccare i pregiudizi più forti con cui abbiamo a che fare quotidianamente. Poi c’è un altro aspetto che credo rimanga in ombra; che cioè il concetto di utile e inutile stranamente si concentra soltanto su alcuni rami del sapere. Per esempio, non c’è nulla di più inutile della musica, non c’è nulla di più inutile della logica, ma nessuno si permetterebbe di dire «Rimuoviamo la musica, rimuoviamo la logica». Allora, perché mai soltanto alcune cose cadono sotto la categoria, sotto la mannaia dell’inutile? Evidentemente per una non conoscenza o per una pessima conoscenza. Ai giovanissimi che si pongono queste domande - perché comunque è più interessante convincere loro, che le persone già corrotte dall’esperienza – va spiegato esattamente questo, che essi forse addirittura naturaliter vanno cercando delle cose inutili nelle quali credono e allora il campo dell’inutile nobile, che, in ultima analisi, è molto utile, va dilatato, rimirato in tutta la sua ampiezza.

 Rispetto alle materie umanistiche, alla sua materia per esempio, nell’attuale organizzazione universitaria qual è il senso della laurea in tre anni (ed eventuali altri due)? In cosa differisce dalla precedente in quattro anni?
Il veleno di questi pseudoconcetti è penetrato negli ordinamenti universitari: mi riferisco, appunto, alla riforma infausta denominata tre + due, che sembra una formula pitagorica, ma ormai per intenderci la chiamiamo così. Anche qui il discorso da farsi è forse un po’ più lungo e accidentato. Poiché io mi considero una persona che ha sempre scelto politicamente sul versante della sinistra, e, ad esempio, penso che annullare l’esperienza storica del comunismo sia una follia eccetera, mi concedo il diritto di dire che la sinistra italiana, ma non solo italiana, ha colpe spaventose nella demolizione dell’istituzione scolastica e universitaria, e che ciò è accaduto per un male inteso concetto di democrazia. E purtroppo è l’esperienza ormai semisecolare che abbiamo alle spalle che dimostra ciò. L’operazione è stata duplice, ancora una volta sono state le élites privilegiate a dare il colpo di grazia, perché le élites privilegiate erano quelle che nelle università dei tardi anni Sessanta avevano fruito al meglio di quello che quel sistema poteva dare e hanno cominciato a sdottrinare che lo si dovesse demolire in omaggio a una male intesa idea d’uguaglianza, che non era uguaglianza, era un regalo avvelenato. Non era uguaglianza, perché l’uguaglianza dell’ignoranza è una pugnalata alle spalle, non è un dono e neanche un diritto. Questo appare un po’ polemico detto in questa maniera, ma secondo me rende bene il concetto.
 Su due piani si è svolta la cosa: parte dall’università, investe naturalmente la scuola (scuola media, licei eccetera) e innesca un circuito per cui dopo un po’ di generazioni l’università si riempie di soggetti completamente diversi da quelli che avevano messo in moto questa pseudorivoluzione culturale, di modo che questo circuito perverso si autoalimenta in maniera esponenziale. A questo punto sorge nel legislatore insensato (mi riferisco a Luigi Berlinguer) il desiderio di trasformare questa realtà, via via deteriore, in normativa e con un procedimento abbastanza scorretto (mi riferisco agli anni 1997, 1998, gli anni in cui rapidamente furono stabilite queste nuove normative), cioè sul falso presupposto che già in Europa le cose stessero in quei termini, il che non era affatto vero; fu creata di colpo (cosa mai successa prima, i processi sono sempre stati lenti, graduali, inevitabilmente, le persone non si evolvono a colpi di cannone) una dicotomia, una divisione in due del percorso universitario. Perdente in tutti e due i casi, perché quello triennale è meno che un post liceo, programmaticamente tale, con programmi in cui si misura persino il numero di pagine la cui conoscenza si può richiedere agli allievi; e quello biennale è troppo corto per essere veramente specialistico. Quindi, è una dissipazione complessiva di cinque anni, rispetto ad un ordinato e razionale percorso: parlo, per esempio, di facoltà di carattere umanistico di quattro anni in cui la gradualità era scaglionata su un arco di tempo sufficiente per giungere alla fine ad una frequentazione dello specialismo che è il momento più alto nella carriera di una persona che ha la buona occasione di frequentare l’università: il momento più alto da laureato in attesa di posto nella scuola, quei mesi passati a concludere la propria carriera universitaria rimanevano come un ricordo importante e metodicamente utile quale che fosse poi la scelta più o meno obbligata, scuola media inferiore, ginnasio, quello che sia. Aver fatto una vera tesi di laurea dopo un percorso che si è fatto via via sempre più acuminato e coerente era un’esperienza unica, un grande privilegio. Ora questo è scomparso, nel senso che sia la prima che la seconda fase sono degli arrangiamenti frettolosi: la prima quasi un parcheggio e la seconda una corsa disperata nell’illusione di colmare un ritardo che diventa a quel punto incolmabile.
 Ma direi che il disastro (che si è misurato facilmente, adesso è quasi ovvio sentire parlare criticamente e solo criticamente di questa esperienza) non dico che sia in via di risanamento, sarei troppo ottimista, ma certamente è nell’occhio critico di quasi tutte le istituzioni universitarie. Le più forti, la medicina e la giurisprudenza, ne sono rimaste fuori e questo forse è sintomatico. Medicina per ovvie ragioni, nel senso che uno che fa la laurea triennale non ha neanche le caratteristiche del paramedico o infermiere: è un nulla e basta. Nel caso della giurisprudenza c’è stato, come sempre da quelle parti, un veicolo fortissimo di difesa e cioè gli ordini professionali e gli sbocchi: avvocato, procuratore, giudice comportano concorsi per i quali il percorso triennale non serve a nulla, non è neanche riconosciuto. E quindi fatalmente tutte le facoltà di giurisprudenza hanno ripristinato, prima de facto poi de iure, l’ordinamento precedente. Sarà un caso? Certamente no, vuol dire che dove il problema aveva un risvolto pratico allarmante, lo si è fermato in tempo.
 Nel caso nostro, nelle facoltà di Lettere, credo che il risultato sarà che il cursus universitario diverrà di cinque anni. Così l’illusione puerile secondo cui il mercato del lavoro aspettava ansioso i triennalisti perché altrimenti ci sarebbe stato un gaspillage delle forze, delle risorse umane del Paese si è trasformato in un allungamento del percorso, e quindi in un ritardo. E questo direi che è stata una nemesi storica sulla demagogia di sinistra, di cui la sinistra è stata la vittima; si paga tutto nella politica, la politica è verità, quindi si paga tutto, gli sbagli in primis.




Se si volesse scegliere la ricerca, quali settori si aprono per uno sbocco lavorativo, e con quali tempi, nell’ambito degli studi classici?
La domanda ha una zona d’ombra che la insidia, perché diversamente da altri Paesi d’Europa (come Francia, Inghilterra, Germania che conosco meglio, ma penso che la Spagna sia uguale) noi abbiamo ancora una vastissima rete scolastica di licei, dove il greco e il latino sono materie obbligatorie (usiamo questa parola malvista). Cosa che non è più negli altri Paesi europei. Il che, da un certo punto di vista, potrebbe favorirci in linea teorica, perché la domanda d’insegnanti di quelle discipline dovrebbe essere continuamente alimentata dal fatto che c’è questa rete così ampia e che gli ordinamenti sono rimasti sostanzialmente gli stessi, nonostante i licei sperimentali. Nonostante questo, la maggioranza delle istituzioni scolastiche esistenti comporterebbe un notevole bisogno di nuovi insegnanti capaci di insegnare queste discipline; quindi quello sbocco lavorativo parrebbe per noi assicurato.
 In realtà noi siamo il “caso italiano”, noi riusciamo a realizzare quello che in Francia parrebbe impossibile (ci rimproverano di non essere sufficientemente cartesiani ed è vero, non lo siamo per nulla); abbiamo realizzato un insegnamento apparente del greco e del latino nelle scuole. Questo è stato il nostro capolavoro. Con grande disagio, perché poi questo diventa una scuola di corruzione: lo studente, lo scolaro è sempre in grado di capire tutto, non è vero che non capisca. A rigore si potrebbe dire che quando si svolgono le interrogazioni l’unico che dà il voto giusto è lo studente stesso, solo che non lo dice, ma è così. È scuola di corruzione perché se lo spettacolo offerto è di fingere di praticare un insegnamento che di fatto non c’è, fingere di sottoporre alla prova di traduzione, per esempio alla maturità classica, e di fatto fornirla sotto banco, il che è risaputo. La prova viene elusa, nel momento stesso in cui viene fatta, questa che, ripeto, è una scuola di corruzione toglie gran parte del valore che potrebbe avere la sopravvivenza da noi di quello che altrove manca. Ed è un peccato, anche per una ragione empirica; mi è accaduto di scriverlo su qualche giornale nei mesi scorsi. Ci sono, per esempio, nel mondo occidentale, istituzioni, biblioteche, archivi dove conoscitori non troppo elementari delle lingue antiche troverebbero un posto di lavoro necessario. Leggere e capire il frontespizio di un’opera pubblicata nel Cinquecento, nel Seicento o nel Settecento, tutto scritto in latino con molte parole in greco, tra breve sarà come la lettura dell’arabo per funzionari che nella loro esperienza scolastica non hanno praticamente più quelle conoscenze. Cosa succede? Succede il paradosso: Oxford, per esempio, Londra, ma soprattutto la Bodleiana ha una grande quantità di papiri greci, letterari e non. Ma le scuole, le università del Regno Unito non producono più un numero sufficiente di persone in grado di leggere queste lingue con una certa profondità, e quindi chiedono fuori, e tanti italiani che non trovano lavoro in Italia si fanno avanti per consulenze pro tempore nell’ambito di queste istituzioni. Perciò mi è capitato di scrivere che noi esportiamo papirologi, che sembra un’enormità (non sono numeri altissimi), però è vero. Allora è un peccato se, avendo noi questa base più larga dovuta appunto all’ordinamento tuttora vigente, la svuotassimo
 


 facendone una scatola vuota, in cui l’insegnamento impartito è apparente. Sarebbe autoingannarci e disperdere una ricchezza fruibile su un mercato imprevisto, cioè quello della esportazione di competenti in Paesi che per le scelte che hanno fatto, quei competenti non li hanno più. La Francia aveva una grandissima tradizione di licei meravigliosi; le riforme, da Faure in avanti, hanno ristretto talmente il novero degli scolari capaci di conoscere queste lingue, queste discipline, da metterli in una seria difficoltà. Fuori dall’École nationale des chartes, per esempio, dove ancora lo studio è tradizionalissimo, il latino e il greco sono diventati un oggetto sconosciuto. La Francia del Collège de France, di Francesco I, di Pietro Ramo: sembra un po’ una follia, ma la storia è andata in quella direzione. Siccome da noi non è andata in quella direzione è un vero peccato che noi ridicolizziamo, svuotandola, una ricchezza che comunque abbiamo. Mi sono soffermato così a lungo su questo punto perché contrasto con l’idea che non c’è sbocco per coloro che seguono nella scuola e nell’università, come scolari di facoltà letterarie, questo tipo di studi. Non c’è posto se questi studi vengono fatti così male che la fruizione come mestiere di quelle competenze si vanifica. Non sono così illuso da dire che poi ci sono le soprintendenze eccetera, perché quello è un inganno demagogico; anzi, se c’è un ambito dove la saturazione è totale, è proprio quello. Ultimo colpo di piccone su tutta questa macchina è stato dato sempre dai nostri governanti demagogici di sinistra, con l’invenzione delle famose SSIS e con la demonizzazione del concorso. Il concorso, non per fare il laudator temporis acti, se non è truccato (e allora c’è la magistratura forse da invocare) è la forma più democratica di valutazione, dove tutti siamo uguali dinanzi ad una prova. Ma invece, l’invenzione di questa ‘baracca’ in cui l’essere seduto in una sala per un certo numero di ore ad ascoltare quasi sempre gli stessi docenti che si sono ascoltati nei corsi universitari e al termine trovarsi detentori di un titolo, questo sì che è un inganno. Quindi, caldeggio con forza, anche se questo può sembrare assolutamente utopistico, un ritorno ad un sistema di prove che per essere riferite al vero merito delle singole persone sono autenticamente democratiche, oltre che utili nel determinare le scelte.
 E può essere che, lanciando attraverso l’Enciclopedia Italiana questo messaggio ai nostri governanti, noi otteniamo quel successo che altre volte non ci ha arriso.

Cervia, 14 aprile 2007






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