11.04.2007. Ieri all’istituto commerciale «Sommeiller» di Torino sono arrivati gli
ispettori della Pubblica Istruzione.
Per alcune ore hanno ascoltato i
compagni di classe di Matteo, il sedicenne
suicidatosi martedì scorso, alla
ricerca di un perché di quella morte
assurda.
Finora la rabbia degli amici («Faremo
sentire dei vermi quelli che ti
hanno fatto male»), l’impotenza degli
insegnanti («Non ci eravamo accorti
di nulla»), le dichiarazioni dei
compagni («Ci dispiace tanto, ma
non ci sentiamo in colpa») e l’odio
ideologico dell’ultrasinistra (che ha
strumentalizzato la vicenda per una
campagna contro la Chiesa) non
hanno aiutato a trovare una posizione
umana di fronte a quel tragico
evento.
«Cara mamma - ha scritto nella
sua lettera di addio lo studente torinese
- a scuola mi fanno sentire diverso.
Non voglio più andarci, non
riesco a integrarmi». E ancora: «Mi
chiamano Jonathan (come l’eccentrico
vincitore del Grande Fratello 5,
ndr), ma io non sono gay».
Matteo era un ragazzo sensibile,
come ce ne sono tanti, troppo diverso
dal branco. Una madre immigrata
filippina, un padre italiano ma lontano
da casa perché separato dalla moglie,
il ragazzo compensava la sua
fragilità eccellendo nello studio. Ma
negli ultimi tempi anche questa risorsa
non lo appagava più. I bei voti
non gli davano quella sicurezza che
né in famiglia né con gli amici riusciva
a trovare.
Viene in mente il personaggio di
un fortunato romanzo della insegnante-
scrittrice Paola Mastrocola:
Gaspare Torrente. Gaspare è un siciliano
che frequenta il liceo a Torino,
non ha la moto né la playstation, ma
ama il latino, ed è l’unico in classe a
prendere 10 nelle versioni. Per questo
si ritrova fuori dal giro, come
«una barca nel bosco».
Anche Matteo doveva provare una
sensazione simile, accompagnata dal
dramma di quegli scherzi quotidiani
dei compagni maschi e da quelle frasi
dure più dei pugni: «Quanti maschi
siamo in classe? Cinque, anzi
no: quattro. Perché Matteo è gay».
Quei compagni certo non si alimentano
intellettualmente dei discorsi
del presidente della Cei Bagnasco,
sono piuttosto l’espressione
di una generazione formatasi alla
scuola del Grande Fratello.
La questione è capire quanto oggi
gli educatori - genitori e insegnanti -
siano avvertiti del fenomeno. Perché
la fragilità dei ragazzi si collega
anzitutto alla crisi della famiglia che
lascia spesso i figli allo sbando e, poi,
alla difficoltà dei professori a instaurare
un rapporto educativo (e perciò
di reale ascolto e di compagnia agli
studenti nel cammino della vita).
L’inchiesta del nostro giornale sui
prof in trincea ha documentato ampiamente
come gli insegnanti si trovino
oggi stretti nella morsa fra studenti
sempre più cinici e violenti e
genitori ridotti a «sindacalisti dei figli». Così, il compito dei professori è
divenuto improbo. E’ quanto mai difficile,
infatti, contrastare il ruolo diseducativo
dei nuovi media e supplire
ai vuoti crescenti della famiglia. E’
comprensibile, perciò, che alcuni docenti
di fronte a una responsabilità
così gravosa abbiano deciso di gettare
la spugna o di limitarsi a seguire i
programmi scolastici. Ma ci sono per
fortuna ancora molti insegnanti - come
abbiamo cercato di documentare
- che vivono il lavoro educativo come
l’avventura della loro vita e che,
proprio per questo, riescono a introdurre
i loro studenti a una visione
positiva della realtà. Senza il loro impegno
- che nessun aumento di stipendio
potrà mai adeguatamente ricompensare
- e senza una ritrovata
assunzione di responsabilità da parte
delle famiglie è difficile pensare
che casi come quello di Matteo possano
rimanere una tragica eccezione.
GIUSEPPE DI FAZIO (da www.lasicilia.it)