Docenti impreparati nel rapporto con gli
studenti, disincentivati dalla mancanza di
meritocrazia, gettati in classe come nella
fossa dei leoni: a 34 anni, da sei in cattedra
all’istituto alberghiero di Catania,
scuola di frontiera in un quartiere difficile,
il prof. Salvo Medico, docente di matematica,
vive il disagio e l’entusiasmo della
sua professione e del rapporto con i ragazzi.
«Ma nelle scuole – rileva – dipende
molto dalla dirigenza. La nostra scuola, ad
esempio, pur essendo in un quartiere difficile,
è pulita, non viene toccata, perché
l’attuale preside ha fatto passare il principio
che, se si sporca o si rompe, pagano i
ragazzi».
Il prof. Medico non si sente in trincea,
nonostante insegni in un istituto difficile,
dove spesso i circa 2.000 studenti vengono
«parcheggiati» dalle famiglie, nella
convinzione, errata, che in un professionale
non si studi: «Ci sono lacune di
orientamento alle medie. Da noi quest’anno
abbiamo attivato il progetto della
scuola aperta: i ragazzi di terza media
che vogliono iscriversi all’alberghiero
possono venire a vedere con le famiglie le
classi, i laboratori, per rendersi conto di
cosa si fa. Purtroppo, però, volontariamente
viene poca gente a informarsi».
Il discrimine, secondo il prof. Medico, è
la famiglia. «Nei professionali spesso ci
sono situazioni di degrado familiare alle
spalle, soprattutto dal punto di vista economico,
ma anche dal punto di vista culturale
e sociale. Per molti l’italiano è una
seconda lingua, quindi anche leggere un
libro diventa difficile. C’è una differenza
tra i ragazzi che provengono dai Paesi limitrofi,
come Misterbianco e Motta, che
sono più curati dalle famiglie, e i ragazzi
che provengono dai quartieri catanesi,
meno preparati culturalmente, ma anche
meno abituati a stare a scuola: da
noi i ragazzi si alzano, girano, non sanno
nemmeno stare seduti nel banco». E questo,
secondo il prof. Medico, deriva dal
fatto che le famiglie non danno le basi: «E’
un problema di educazione, i ragazzi sono
molto viziati e coperti dalle famiglie.
Ad esempio, una volta un ragazzo è uscito
senza permesso e ha avuto una nota disciplinare:
i genitori sono venuti a scuola
e volevano denunciarci». A questa «protezione», però, corrisponde un altrettanto
deleterio lassismo familiare: «Alcuni
ragazzi sono poveri e con questa scusa
non comprano i libri scolastici: tutti hanno
però il telefonino all’ultima moda o le
scarpe da 200 euro. Ma i libri non li comprano
e siamo noi docenti che cerchiamo
in qualche modo, attraverso i rappresentanti,
di procurare loro alcuni testi».
Una difficoltà, questa a trattare con i ragazzi
e con le famiglie, che per il prof. Medico
nasce dal fatto che «molti docenti
non hanno la preparazione di base o non
hanno la capacità di insegnare, pur se
preparati. All’università non si insegna a
insegnare, né c’è un tirocinio nelle scuole.
Ma se i contenuti sono importanti, essere
in grado di gestire una classe lo è altrettanto.
Può succedere di tutto, che ti
brucino il banco o ti allaghino la classe: e
da questo punto di vista non c’è nessuna
formazione. Quando sono entrato a scuola,
nessuno mi ha detto come tenere il registro,
come valutare i ragazzi. E non c’è
interesse a informarsi, perché nella scuola,
sovraffollata di insegnanti, non c’è possibilità
di fare carriera: c’è una forte demotivazione,
anche economica – della
serie: ti dò poco e ti chiedo poco –, il livello
dello stipendio è lo stesso a prescindere
dall’impegno e questo accentua in
molti prof la tendenza a imboscarsi».
Mentre invece, portare avanti un progetto
educativo non è soltanto calare nozioni,
«ma accogliere i ragazzi per quello che
sono e, attraverso le lezioni, far passare
un progetto di vita. E’ molto importante,
è molto spinto, soprattutto nei professionali,
il rapporto con gli studenti, perché
questi ragazzi guardano molto di più, rispetto
ai loro coetanei dei licei, come uno
si atteggia nei loro confronti, come uno
viene loro incontro o come impone loro
un vincolo. Bisogna accogliere i ragazzi
per quello che sono, guardarli e vedere
che ci sono persone e non registri contabili
dall’altra parte della cattedra. E, sentirsi
guardati come persone, risveglia l’interesse
dei ragazzi. Ad esempio, una volta
è stato sospeso uno studente particolarmente
esuberante. L’ho chiamato e gli
ho detto: "Per me, tu vali a prescindere
dalla sospensione". Ebbene, da allora,
ogni volta che mi incontra, si ferma a
parlare. Bisogna essere flessibili, pensare
che ciò che si fa va a incidere sulla formazione
di una persona. E questa è una
enorme responsabilità». Ma anche una
bellissima avventura: «La cosa bella –
conclude il prof. Medico – è che stando
con i ragazzi stai comunque con qualcuno
che ti chiede qualcosa e ti costringe a
metterti continuamente in discussione. Il
legno è legno e tale resta, mentre le persone
cambiano, sono vite che ti chiedono:
e se uno è disposto a mettersi in gioco, i
ragazzi rispondono».
Tanto da riuscire a coinvolgerli in una
apertura agli altri che prescinde dai contenuti
scolastici, ma non dalla formazione
della persona: «Un gruppo dei miei ragazzi
– racconta il docente – ogni sabato
si impegna con me a fare giocare alcuni
bambini kosovari che, con le loro famiglie,
vivono in condizioni di estremo degrado.
Non è volontariato, ma un’opera di carità,
un’esperienza attraverso la quale si può
iniziare a fare un cammino su di sé, di introspezione,
di consapevolezza sulla persona,
su cosa è la vita. Un cammino sempre
possibile, anche se al professionale,
purtroppo, le domande sono appiattite».
MARIA AUSILIA BOEMI (da www.lasicilia.it)