Prof in trincea. Il grido di speranza della dirigente Guzzardi da un quartiere-ghetto di Siracusa
Data: Mercoledì, 04 aprile 2007 ore 00:21:39 CEST
Argomento: Rassegna stampa


SIRACUSA. Cita don Milani, pensando a «una scuola che dà di più a chi ha di meno». Eppure ogni giorno lotta per ottenere le cose più elementari. Che qui sono tutt’altro che scontate. Come le supplenze: «Troppo costose per il budget della scuola: se manca qualche docente per poche ore, spesso vado io a fare lezione in classe. Risparmio e poi instauro un rapporto diverso con gli alunni». Minuzie. Come quei pochi euro per pagare la gita ai bambini che non possono permettersela. «Ho chiesto aiuto agli sponsor, alle banche. Per fare uscire i bambini da qui, perché questo è un ghetto nel ghetto». Ha insegnato in Africa e adesso la sua nuova Africa è qui. A Siracusa, nel quartiere della Mazzarrona, in via Algeri. In un plesso-casermone di cemento grigio, incastonato tra palazzine-casermoni di cemento grigio, Roberta Guzzardi combatte la sua guerra quotidiana contro quelle che lei stessa definisce «le barriere invisibili». Siracusana e madre di tre figlie, la "preside Roberta" (così la chiamano tutti gli alunni dell’istituto comprensivo "De Amicis") è ogni giorno in trincea. «Per educare al meglio questi ragazzi, per assicurare loro un lavoro. Se diventeranno falegnami o parrucchiere, ma onesti, sarà un piccolo successo».

Ma aleggia sempre il fantasma della chiusura della scuola. Con appena 218 iscritti (tra materna, elementare e media) il "De Amicis" è uno dei comprensivi più piccoli d’Italia. Un istituto in formato Davide con problemi da Golia. A partire dalla sopravvivenza. «Quest’anno escono due terze medie e se ne forma una soltanto. Speriamo bene...».

Ma il "De Amicis" è stato di recente sbattuto nelle scalette di tutti i tiggì nazionali, per il caso dell’aggressione di un’insegnante da parte di una mamma. «Non mi sono stupita dell’episodio, ma del clamore che ha suscitato. Non vorrei essere fraintesa: nessuna giustificazione. Ma chi vive realtà di frontiera capisce che cose del genere possono succedere. È tutta questione di energia. Anche la violenza è prodotta da quest’energia istintiva. E qui arriva il ruolo di dirigenti e insegnanti: bisogna canalizzare questi istinti e trasformarli in energia positiva. Io mi pongo come mediatrice di questi conflitti. Il caso s’è risolto, proprio in questa stanza. La mamma e l’insegnante si sono incontrate, hanno parlato. E sono certa che la cosa non si ripeterà più».

La preside-pacifista combatte con armi giocattolo la guerra contro un nemico potentissimo: l’indifferenza. Delle istituzioni («Anche se qualcuno ci sta aiutando a evitare la chiusura») e soprattutto delle famiglie. Apre la scuola al tempo prolungato fino alle 16,30; lancia progetti su legalità; si appoggia a un gruppo di maestre in pensione per seguire gli alunni più difficili con le buone vecchie maniere d’una volta. E poi non è sola. Snocciola un lunghissimo elenco di "alleati": i lettori di lingua inglese della Mediterranean University, le tirocinanti dell’Ateneo di Palermo, gli studenti del liceo Quintiliano, gli attori della compagnia "Anime di carta", il volontario dell’Ente fauna, gli operatori della coop sociale "Aurora", i cantanti del coro "Gli armonici di Siracusa", il parroco di S. Corrado Confalonieri e le catechiste...

Eppure il problema resta sempre il "muro" tra scuola e famiglie. «Ma in questo campo stiamo avendo risultati impensabili. Innanzitutto grazie a una classe di mamme che di mattina frequentano i corsi per adulti». Ha provato con "In movimento con mamma e papà", corsi d’aerobica per alunni e genitori. E poi con un incontro periodico. «Si tratta di una cosa informale, assieme a me, ai docenti e agli esperti. Al primo incontro c’erano un paio di mamme, adesso sono più di dieci. E la prossima volta saranno ancora di più».

La "preside Roberta" ha un curriculum particolare. Ha insegnato Italiano per due anni a Manchester, nelle scuole del consolato italiano. Poi a Lagos, in Nigeria. Per quattro anni. E dalla sua esperienza africana c’è un frammento di meravigliosa semplicità: «Per far capire a un bambino che il suo comportamento potrebbe danneggiare gli altri, nelle scuole nigeriane si raccontano favole tribali. Come quella di un uccello su un albero che amava cantare così forte da disturbare gli altri. Una tartaruga che stava ai piedi dell’albero lo pregava di smettere. L’uccello rispose: "Perché non dici all’albero di fermare la sua crescita allora, io amo cantare e nessuno potrà fermarmi". Un’ora più tardi un cacciatore udendo l’uccello, gli sparò. Esso cadde sotto l’albero così il cacciatore, recatosi a raccoglierlo, notò la tartaruga e la catturò per la zuppa, dopodiché tagliò i rami dell’albero per appiccare il falò».

Eppure tra il mondo delle favole nigeriane e quello della realtà siracusana c’è un abisso. Di problemi. Ma anche di speranza. «Come il sondaggio che i nostri alunni hanno fatto sulla presenza dei vigili urbani nel quartiere: i genitori ne vorrebbero sempre di più sul territorio». C’è il seme d’un nuovo rapporto con le forze dell’ordine, anche in un quartiere dove le sirene della polizia annunciano l’ennesima retata che "decapita" famiglie intere. Di mariti, padri, fratelli.

Dalla finestra della "preside Roberta" non si vede il mare. Eppure è lì. A uno sguardo di distanza. Un lungo fazzoletto d’incontaminata costiera aretusea, deturpato da un ammasso d’anarchia edilizia. «Il mio sogno? Portare tutti i ragazzi a fare il bagno qui. Stanno facendo i corsi in piscina e imparano a nuotare. Hanno un mare bellissimo, ma nemmeno se ne rendono conto». Magari anche questa è un’altra favola nigeriana. Quella in cui la preside sognatrice regala un tuffo di felicità ai bambini del ghetto.

MARIO BARRESI (da www.lasicilia.it)







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