Zen 1, un nome che evoca degrado
e isolamento. Una cittadella «incastrata
» fra la periferia settentrionale
del capoluogo siciliano e il quartiere
giardino di Mondello che sorge
un paio di chilometri più a nord
con i suoi viali alberati, le strade
pulite, la gente che ogni mattina fa
jogging. Un’enclave, nel cuore del
regno di Salvatore Lo Piccolo, accreditato
come il reggente di Cosa Nostra
dopo l’arresto della Primula
rossa, Provenzano. Uno dei supermarket
della «morte» dove si tirano
le fila del traffico della droga. Un
quartiere che però, da qualche tempo,
ha dato chiari segni di risveglio,
come racconta Giusy Ferraro, da
tre anni vicepreside dell’istituto
comprensivo Leonardo Sciascia, 30
anni di insegnamento alle spalle in
scuole di frontiera preceduto da un
forte impegno politico negli anni
dell’Università.
Professoressa, lavorate ogni giorno
in una scuola immersa in una
realtà difficile. Ha mai pensato di
mollare tutto?
«Mai. Nel 2001 ho anche rifiutato il
passaggio alle superiori. Preferisco
continuare il mio lavoro qui. C’è
tanto da fare».
Che tipo di ostacoli deve affrontare
un professore della sua scuola?
«Innanzitutto la capacità di apprendimento
dei nostri alunni, limitata
dallo scarso livello culturale delle
famiglie da cui provengono. Padri e
madri semianalfabeti non sono poi
così rari».
Quali sono, quindi, gli strumenti
più adatti per trasferire un minimo
di conoscenza a questi bambini?
«Da anni sono impegnata in un progetto
sperimentale realizzato in
collaborazione con l’Università di
Bari per proporre un modello didattico
nuovo, adatto a bambini
che presentano grosse lacune linguistiche
e culturali. Per questo
motivo ho deciso di continuare a
stare dietro una cattedra a ad insegnare,
nonostante gli impegni da
vicepreside. Cerchiamo, inoltre, di
organizzare dei percorsi di lavoro
comune che coinvolgano gruppi di
docenti. Grazie a questi sforzi siamo
riusciti a portare il tasso di dispersione
dal 23 al 16 per cento».
Oltre alle difficoltà di apprendimento,
che tipo di problemi si affrontano
in classe?
«Registriamo un alto tasso di aggressività,
verbale e fisica, anche
nei più piccoli. Oggetto di questa
rabbia diventano non solo gli altri
compagni ma anche i docenti».
Quali le cause secondo lei?
«Vedo in questi comportamenti in
primo luogo una sorta di difesa nei
confronti di un mondo che ritengono
ingiusto. Anche in questo caso,
però, stiamo sviluppando degli approcci
particolari di contenimento
che si basano molto sul confronto
piuttosto che sulla punizione».
La vostra scuola è stata oggetto
nei mesi passati di un grave atto di
vandalismo. Non era la prima volta.
«È vero. Devo, però, ricordare che il
fatto si è verificato dopo un lungo
periodo di tranquillità. Non solo.
Abbiamo anche individuato i presunti
responsabili, 6 alunni».
Come spiega questo gesto?
«Certamente questi atti non vanno
catalogati nella categoria "bullismo".
Qui non siamo di fronte a dei
bambini annoiati. Questi gesti sono
frutto di un forte disagio sociale.
Anche in questo caso abbiamo deciso
di seguire un approccio soft
che si basa su un supporto di tipo
psicologico. Un assistente sociale
da gennaio sta predisponendo dei
percorsi individuali che si sviluppano
sia all’interno che al di fuori delle
classi. L’obiettivo è di potenziare
in questi bambini la fiducia in se
stessi. È presto per fare un bilancio
ma sono ottimista».
Cosa la preoccupa maggiormente?
«Noto nei nostri ragazzi, anche i
piccoli, un linguaggio eccessivamente
caratterizzato dal punto di
vista sessuale. Inoltre abbiamo il
sospetto che da qualche tempo nel
quartiere circoli più droga. Un giovane
qualche tempo fa è finito all’ospedale
dopo aver perso i sensi, anche
se non ho la certezza che avesse
assunto degli stupefacenti, la
preoccupazione rimane. Poi c’è il
problema delle supplenze. Pochi
decidono di firmare la proroga e di
rimanere. I livelli di stress sono elevatissimi».
Di cosa avete veramente bisogno
per portare avanti la vostra opera?
«Innanzitutto una più razionale distribuzione
delle risorse destinate
alle scuole a rischio. Non si può
pensare di individuare nella sola
Palermo 40 istituti difficili, è un eccesso».
ROBERTO VALGUARNERA (da www.lasicilia.it)