Non
si sente in trincea e dopo 41 anni di insegnamento, con tutte le rivoluzioni
scolastiche alle quali ha assistito, ha ancora voglia di insegnare, nonostante
talvolta mediti di andare in pensione. Ma la domanda resta sempre nel cassetto,
perché «non potrei fare a meno del rapporto con i ragazzi». E’ però molto
critico nei confronti dei suoi colleghi del liceo classico Spedalieri di Catania
che hanno risposto ai loro alunni di non avere risposte da dare e che non è
compito loro dare risposte. Il prof. Antonino Palumbo, ordinario di italiano e
latino, 4 figli a casa e migliaia di "figli" cresciuti tra i banchi, a suon di
classici, ritiene invece che «non si può dire che nella scuola democratica,
laica, pubblica non si danno risposte: nella scuola dei classici si fanno
domande e ci si scommette nelle risposte». Perché i ragazzi dello Spedalieri non
ponevano una domanda teologica, ma esistenziale, filosofica: «Volevano insegnato
il valore della vita e della morte – spiega il prof. Palumbo –, chiedevano
verità con la "v" minuscola perché la verità è fondamento della libertà. Tutti i
classici vanno alla ricerca di un senso della vita e della morte: quella era la
domanda dei ragazzi e, come tale, era doverosa. Un insegnante è credibile quando
un alunno percepisce che le parole, prima di uscire dalla bocca del docente,
rimbalzano nel suo cuore, cioè quando noi insegnanti crediamo a ciò che
diciamo». Né ha senso, secondo il prof. Palumbo, l’idea dei suoi colleghi che la
scuola non debba dare risposte, ma solo strumenti: «Cosa vuole dire dare
strumenti? Se dò uno strumento ai ragazzi, devo far loro capire cosa si può fare
con quello strumento: con un martello posso costruire una sedia o posso uccidere
un uomo. Chi è deputato, se non il docente, a insegnare all’alunno come usare al
meglio lo strumento?».
I ragazzi, insomma,
chiedono risposte, «ma in questo sistema sono gli incolpevoli, gli innocenti ».
Perché la scuola, oggi, purtroppo, risposte non ne dà, né esistenziali, né
filosofiche, né culturali. Parola di docente che da 41 anni presidia una
cattedra e che in questo arco di tempo ha visto cambiare tutto: «Certo, c’è una
differenza notevole tra gli Anni 70 e il riflusso nel privato degli Anni 90.
Dopo le rivolte sessantottine degli studenti, negli Anni 70 in classe avevo
ragazzi variamente schierati politicamente: frequentavano il partito, erano
abituati a esporre in pubblico. Ciò era positivo, era una palestra più valida di
quanto possa esserlo oggi il fast food serale. Dalla fine degli Anni 70 e poi
negli Anni 80 è subentrata una sempre maggiore sfiducia dei giovani nei
confronti dei grandi e della credibilità della politica: gli ideali politici
sono stati liquidati».
Ma il cambiamento dei
ragazzi è andato di pari passo con la «rivoluzione antropologica della famiglia:
con i decreti delegati, negli Anni 70, si dette voce alle famiglie nella scuola,
pensando che queste sarebbero state alleate nel processo educativo. E invece ciò
non è avvenuto: i genitori vengono e, in una visione sempre più protettiva, che
rende i figli mammoni, partecipano solo per sapere come va il figlio e trattare
il voto con il docente». Un potere di contrattazione, quasi di ricatto, che
nasce dal fatto che «il ruolo e la funzione dei docenti sono in crisi, perché
siamo una categoria dequalificata, demotivata, di cui spesso si fa parte
soltanto perché non trovano altri sbocchi nella vita».
In questo conflitto, i
ragazzi si trovano tra due fuochi, in una scuola che non dà loro le fondamenta
culturali. «Oggi alle superiori – denuncia il prof. Palumbo – ci troviamo
davanti a ragazzi che non sanno né leggere né scrivere: le riforme della scuola
elementare e media non sono funzionali per l’accesso ai licei, i cui programmi
non sono stati adeguati. I ragazzi si trovano in quarta ginnasio ad affrontare
italiano, latino, greco, inglese, storia dell’arte, quando non sanno gestire
nemmeno la grammatica italiana. Dagli Anni 70 c’è stato un progressivo
dimagrimento dei programmi, perché i ragazzi capiscono il 5% di quello che
leggono. E non perché siano meno intelligenti, tutto il contrario, ma perché i
giovani vengono buttati in mare senza salvagente, senza possibilità di
sopravvivere, non hanno gli strumenti per capire cosa studiano. E quindi sono
confusi, disorientati». E’ quindi un problema di programmi? «La classe politica
non ha creduto di investire nella scuola, non pensando che dalla scuola escono i
quadri dirigenti di domani. Chi ha fatto le riforme? Tutte persone che non
insegnano». E tutti vogliono lasciare la loro impronta. «Si dice di studiare gli
autori contemporanei: ma come si fa a studiare Montale o Calvino senza conoscere
Pascoli, D’Annunzio, Leopardi, Manzoni? I ragazzi non riescono a seguire perché
sono alle prese con programmi magari validissimi, ma non hanno gli strumenti per
interloquire con i classici».
Allora cosa fare?
«Forse il vero ammodernamento non è cancellare i classici per studiare i
contemporanei, ma rendere obbligatoria la lettura dei quotidiani almeno per i
grandi dibattiti dell’attualità. Ma attenzione, la vecchia scuola non era tutta
da buttare: la società è cambiata, ma i valori sono sempre gli stessi. Allora,
lasciate stare i programmi letterari così come sono, e semmai cercate di
rinnovare i programmi scientifici, mettete lì più filosofia, che possa dare il
senso della modernità. L’etica cos’è? Riguarda cosa? Il fare, l’agire: sono
questi che sono cambiati e quindi anche l’etica deve fare i conti con questo
cambiamento». Occorre, insomma, avere l’umiltà di rivalutare la tradizione, di
innovare nel solco della tradizione. Senza dimenticare che «la cultura è tutto
ciò che rimane dopo avere dimenticato tutto: e quindi l’insegnante quando parla
dice cose che ha fatto sangue del suo sangue, non nozionismo. Senza dimenticare
che, se la scienza è una scala, l’arte è un colpo d’ala».
MARIA AUSILIA BOEMI
(da www.lasicilia.it)