Quattro studenti del liceo classico Spedalieri di Catania (Emanuela La
Magna, Francesco Lo Re, Fabio Lo
Schiavo e Michele Militello) stamattina
alle 11 a Roma si confronteranno
con il ministro della Pubblica Istruzione
Giuseppe Fioroni. Sono in rappresentanza
di quel movimento di
coscienza civica che in vario modo e
suscitando le più diverse prese di posizione,
prendendo le mosse dallo
storico liceo catanese ha coinvolto
l’interesse dell’opinione pubblica nazionale
suscitando un vivacissimo dibattito.
Che cosa portano nello zaino questi
nipoti di Nicola Spedalieri che nel
Settecento, facendo lo stesso cammino
(giovinezza estrosa in Sicilia e forte
impegno intellettuale e civile)
dettò a Roma i lineamenti di una nuova
maniera di intendere la cultura?
Qualcosa di inatteso nella nostra
società dell’apparenza e dello strillo:
non un quaderno di lamenti e una risma
di accuse, ma la conferma di valori
e l’impegno, in prima persona, a
sostenerli.
I ragazzi non vogliono essere sacchi
amorfi da riempire di dottrine,
ma persone pensanti che intendono
socraticamente confrontarsi con gli
altri nella ricerca appassionata di un
significato per la loro vita civile (uomini
siamo, non pupi pirandelliani...);
non mirano a rivoluzionarie riforme,
stravolgimenti dei metodi didattici,
progetti utopici, ma semplicemente a
fare cultura nel più tradizionale e genuino
dei modi che un dissennato
riformismo tecnocratico da decenni
ha trasformato in una selva di norme,
di procedure burocratiche che hanno
infittito la scuola di corsi (di recupero,
di sostegno, di potenziamento, di
eccellenza) e corsette (dall’una all’altra
attività) perdendo di vista il protagonista
(l’alunno) che non si può insaccare
di tante disparate nozioni
senza perdere il senso della propria
individuale scelta di vita. Un recupero
-aggiunge qualcuno ironicamente dell’unità
platonica del sapere, di
contro allo sminuzzamento dei saperi
che possono preparare gli automi
di una società parcellizata, ma non
le coscienze di una politica etimologicamente
partecipata.
Proposte? Dialogare, studiare i
grandi temi della vita di oggi (e di
quella presumibile di domani) che
impongono vigile attenzione e non
supino apprendistato di norme.
Spesso si sente dire in giro che i genitori
di questi ragazzi, (quelli che
nel ’68, scesero nella vasta piazza antistante
lo storico liceo) pur nei loro
scomposti fremiti, avevano una cultura
solida, leggevano Marcuse, discutevano
della Nouvelle Vague: i
successivi movimenti protestatari, di
pantere e gruppuscoli autogestiti, a
parte la foga manesca, non studiano e
non hanno autori di riferimento. Non
è vero: per come parlano e per quel
che dicono, questi ragazzi hanno conoscenze
e curiosità intellettuali sicure.
Vorrebbero che potessero coltivarle
tutti i loro coetanei. Nel luogo
che da sempre è stato destinato a ciò,
la scuola, che dovrebbe essere un
pensatoio e non il laboratorio rigorosamente
esecutivo che sta diventando.
SERGIO SCIACCA (da www.lasicilia.it)