ROMA. I filmati hard
girati con il videofonino nei locali della scuola, le botte a un compagno
disabile riprese con un cellulare nell’indifferenza della classe,
l’atteggiamento insolente verso l’insegnante a cui uno studente offre
dell’hashish spacciandolo per una caramella. La scuola non è nuova a questi
episodi, ma i moderni mezzi di comunicazione hanno trasformato il fenomeno del
bullismo che, seppur diffuso da tempo nel nostro Paese, così come degli Stati
Uniti e del resto dell’Europa, assume oggi delle proporzioni preoccupanti. Da
un’ampia ricerca condotta in varie parti d’Italia dall’Osservatorio nazionale
dell’infanzia emerge che il bullismo a scuola è molto diffuso, con indici
complessivi che vanno dal 41% nella scuola primaria al 26% nella scuola media
per quanto riguarda in numero degli alunni oggetto di prepotenza. Quando poi
viene chiesto ai soggetti di valutare il numero di compagni implicati come
vittime, circa il 61% nella scuola elementare e il 53% nella scuola media
ritengono che ve ne siano almeno tre per classe. Il confronto con gli altri
Paesi Ue è inquietante: gli episodi di violenza e sopraffazione a scuola sono il
doppio del Regno Unito. Il divario tra i dati italiani e quelli internazionali
potrebbe essere da attribuire a un modo diverso di vivere e intendere il
fenomeno. Più il conflitto viene tollerato meno porta alla rottura dei rapporti.
Il fatto assume così minore rilevanza il che induce a una più diffusa ammissione
da parte di chi agisce, subisce o vede quanto accade. Questo spiegherebbe
perché, in linea con gli altri Paesi europei, in Italia si registra una
sensibile diminuzione del fenomeno nel passaggio dalla scuola elementare a
quella media. Il bullismo, percepito come fenomeno fisiologico tra i bambini,
diventa intollerabile nella fase della pubertà, momento cruciale per la
formazione dell’identità personale. E quindi diventa tabù. La costante crescita
di questo fenomeno mette in evidenza le difficoltà della famiglia e della scuola
a formare i giovani alla cultura della legalità. Le agenzie educative sono in
crisi: percepite come deboli e prive di credibilità e autorevolezza; non sono
più il luogo dove acquisire gli strumenti necessari per costruire un futuro
solido. Ma come è possibile che la soglia di accesso ai comportamenti violenti
si sia così pericolosamente abbassata? Quali sono gli interventi adeguati per
fronteggiare la situazione? Nel tentativo di dare una risposta a questi
interrogativi, la Cgil ha organizzato il convegno «Le regole sul banco»,
svoltosi ieri a Roma. L’analisi di Fabrizio Dacrema, coordinatore del
Dipartimento funzione e ricerca della Cgil, è impietosa. Già trent’anni fa il
sociologo Achille Ardirò descriveva «una popolazione giovanile marginale e
marginalizzata, senza padre, bloccata in una condizione di adolescenza
prolungata e alla ricerca disperata di un rapporto con la società adulta, in
bilico tra aggressività, distruttività e dipendenza ». Le trasformazioni delle
società contemporanee hanno confermato la tendenza descritta da Ardirò: il
rallentamento del passaggio dalla società adulta, uno stato di marginalità
economica e politica connesso anche alla flessione dei tassi di natalità, la
crisi delle principali agenzie educative. L’ultimo rapporto Iard sulla
condizione giovanile in Italia ci spiega che nel nostro Paese alcune di queste
tendenze sono ancora più accentuate rispetto agli altri paesi europei al punto
che nell’immagine del futuro dei giovani italiani regna una grande incertezza.
Essi vivono più a lungo con i genitori, l’inserimento lavorativo stabile con un
retribuzione che consenta l’indipendenza economica si sposta sempre più avanti
nel tempo, la disponibilità di case in affitto con canoni accessibili è tra le
più basse in Europa. Il periodo dell’adolescenza, in sostanza, viene dilatato
determinando un lungo periodo di deresponsabilizzazione. «Se agli studenti
continuiamo a far sapere che lo sbocco lavorativo, quando c’è, è precario, essi
saranno portati a cercare una via alternativa a quella dell’impegno e del
merito», commenta il segretario confederale della Cgil, Fulvio Fammoni, che
respinge «la semplificazione della repressione come unico strumento di lotta a
questo fenomeno». No al poliziotto di scuola, sì, invece, a una nuova cultura
della legalità: «Il rampantismo diffuso in tutte le classi sociali del Paese è
il primo dei modelli negativi da debellare».
ANNA RITA RAPETTA (da
www.lasicilia.it)
L’analisi del
sociologo. Il prof. Roberto Vignera: «Contro certe devianze tanto sport di
gruppo, quello duro e governato da solidi principi solidaristici» «Contro il
mobbing scolastico facciamo capoclasse i Franti»
CATANIA. Dietro il
bullismo, attivo e passivo, problemi con i genitori. Questo il parere dei
sociologi sul problema che sembra essere esploso di recente anche in Sicilia.
Anche se, secondo il prof. Roberto Vignera, docente di sociologia
dell’Università di Catania che in questi giorni se ne sta occupando in
conferenze e seminari in varie zone dell’isola, in realtà è probabile che un
tempo il fenomeno fosse semplicemente meno noto. «Uno dei cardini educativi –
spiega – da sempre esaltato, soprattutto in certe classi sociali, è stato il
carattere dell’aggressività: "se porti botte a casa, prendi le altre". Non può
sorprendere, quindi, che il mobbizzato si guardasse bene dal denunciare ai
genitori le aggressioni subite». - Perché parla di mobbing? «Perché così viene
definito nei Paesi scandinavi, dove il fenomeno è stato studiato come in nessun’altra
realtà, e soprattutto per sottolineare che, in forma diretta o indiretta, ha
spesso al centro un mob, un gruppo. Si parla dunque di mobbing scolastico, non
di bullismo. Quest’ultimo termine proviene dall’inglese bullyng, e sottolinea
maggiormente l’atteggiamento aggressivo, vessatorio, diretto, individuale. Il
fenomeno, peraltro, non riguarda solo la prevaricazione fisica, prevalentemente
maschile, ma anche quella psicologica, più presente nell’universo femminile.
Ciò, in alcune circostanze, porterà alla cosiddetta morte sociale di un
individuo, alla disistima, allo svilimento del proprio Sé, in un susseguirsi di
effetti devastanti per la struttura della personalità e che possono portare
anche al suicidio. - Di chi è la colpa? «Secondo Dan Olweus, norvegese, massima
autorità mondiale sull’argomento, il bullismo, come fatto caratteristico della
fase adolescenziale sarebbe piuttosto da riferire a componenti ereditarie. Il
figlio di Franti, il "cattivo" del libro Cuore, archetipo dei bulli di oggi,
avrebbe continuato nella tradizione di famiglia. E’ certo, comunque, che non
solo i protagonisti attivi ma anche quelli passivi degli episodi di bullismo
hanno problemi con i genitori: in particolare, la difficoltà a instaurare con
loro legami affettivi esclusivi, e soprattutto in un ambiente troppo permissivo
per la messa in ombra della figura paterna. Ecco perché assai spesso il dito
viene puntato sugli insegnanti, che fanno ben poco per affrontare il problema.
O, peggio, ridefiniscono il bullismo secondo canoni socialmente legittimi, come
i legami che potremmo definire di vicariato formativo. Ossia: "Picchiandoti ti
insegna cos’è la vita". Per fortuna, alla luce di quanto sta avvenendo, oggi in
Italia gli insegnanti sono sempre più coinvolti in meccanismi di controllo
sociale e hanno l’obbligo di segnalare questi casi. Non dimentichiamo, poi, che
c’è anche un’altra causa del bullismo, che complica tutte le altre: la rilevanza
sociale del minore, la sua impunibilità». - Il minore oggi è impunibile? «Nelle
società caratterizzate da bassi indici di natalità e un elevato livello di
invecchiamento della popolazione, un bambino, un adolescente, è , sotto il
profilo sociale, un bene inestimabile, giustamente tutelato dal punto di vista
giuridicoistituzionale. Ma appare evidente che la sua non punibilità lambisce i
confini dell’agire ricattatorio, nei confronti dei genitori in primo luogo». -
Ma ci sono anche casi in cui la difficoltà di punire i minori è stata, in realtà
come quella siciliana in cui l’illegalità è diffusissima, sfruttata anche dalle
organizzazioni criminali... «Questo è un problema che si sovrappone agli altri.
E ci sarebbe da aggiungere che certi giovani sono cresciuti persino senza le
regole della cosiddetta cultura mafiosa. Ci troviamo dunque davanti a una
situazione molto complicata. Se, dal punto di vista giuridico il minore appare
come una figura sociale facilmente identificabile, sotto il profilo sociologico
le cose non sono così semplici. Come possiamo definirlo? Certo, una personalità
in fase di strutturazione. Ma una tale raffigurazione è insufficiente alla luce
di quanto sta avvenendo» - Quindi? «Lancio un sasso nello stagno: è
indispensabile riformulare le caratteristiche della categoria del minore. Paesi
europei come l’Olanda stanno tentando di farlo, sulla scorta di fenomeni come la
violenza sessuale. Nel nostro contesto, il bullismo, il vandalismo giovanile, i
recenti episodi di guerriglia urbana nel calcio, dovrebbero indurre a compiere
simili iniziative. Ricordando, tra l’altro, che una delle forme più inquietanti
di bullismo è quella perpetrata strumentalmente, che non si estingue nell’atto
prevaricatore, ma diventa strumento per fini illeciti: procurare denaro, oggetti
di valore, eccetera». - Quali cure contro il bullismo? «Inutile usare slogan
come: famiglie più unite! Una maggiore attenzione da parte dei genitori e degli
educatori, naturalmente, non potrebbe che apparire benefica. Una scuola
migliore, tanto sport di gruppo, quello duro, governato da solidi principi
solidaristici, che riesca magari a sublimare un’aggressività altrimenti
ingovernabile. Ma bisogna lavorare su tutti, ossia sulla larghissima parte di
giovani che non sono toccati dal fenomeno. Essi possono influire infatti sul
bullismo intervenendo come deterrente nei confronti dei bulli e come sostegno di
solidarietà alle vittime. Agli insegnanti va consigliato poi di
responsabilizzare i bulli. Chi non ricorda il vecchio espediente di investire il
ragazzo più problematico della funzione di capoclasse? Infine, occorrerebbe
comunque non perdere di vista un paradosso per certi versi ineliminabile
riguardante la condizione giovanile. Lo illustriamo attraverso la vicenda di
Mike Tyson, che per sua stessa ammissione da ragazzo, quando usciva di casa,
andava a picchiare i suoi coetanei per puro divertimento. E’ diventato un
acclamato pugile. Poi è stato arrestato per violenza ad una modella. E’ finito
in carcere; ha seguito un programma di rieducazione ed è tornato sul ring. Ma
parte della sua aggressività era svanita. I tifosi, delusi, commentarono: ‘non è
più lui’!».
GIUSEPPE LAZZARO
DANZUSO (da www.lasicilia.it)
VITTIME E CARNEFICI
Perché in Italia la
percentuale di aggressioni risulta così alta Le dimensioni del fenomeno bullismo
sono inquietanti. A livello europeo uno studente su sette, 15% della popolazione
scolastica delle elementari e medie, è esposto al rischio di diventare bullo o
di cadere vittima dell’aggressività del “branco”. Il 9% sono vittime; il 7% sono
bulli; 1,6% appartiene a entrambe le categorie. Il fenomeno è più presente
quando è maggiore la differenza di età tra i protagonisti. Ecco perché è più
presente nelle classi della scuola elementare e delle superiori, mentre è più
raro nelle medie. Prima dello studio dell’Osservatorio nazionale dell’infanzia,
le poche ricerche effettuate in Italia utilizzando le stesse metodologie
elaborate da Dan Olweus (studioso norvegese considerato la massima autorità
mondiale sul fenomeno), riguardavano Toscana e in Calabria e riferivano di
percentuali dell’ordine del 46%. Dati estremamente allarmanti, dunque, se
paragonati al resto d’Europa. «Va però precisato - spiega il sociologo Roberto
Vignera - come spesso gli indicatori non siano del tutto congruenti con le
immagini più diffuse del bullismo, soprattutto passivo. Tra quelli più usati,
per esempio, vi è la tendenza a essere scelti per ultimi, o a essere relegati a
svolgere ruoli marginali, nei giochi di gruppo. Per esempio giocare in porta in
una partita di calcio».
(da www.lasicilia.it)