«Il bullo è figlio del rampantismo» - L’opinione sostenuta in un convegno della Cgil. Gli episodi in Italia doppi rispetto alla media Ue
Data: Mercoledì, 14 marzo 2007 ore 23:56:15 CET
Argomento: Rassegna stampa


ROMA. I filmati hard girati con il videofonino nei locali della scuola, le botte a un compagno disabile riprese con un cellulare nell’indifferenza della classe, l’atteggiamento insolente verso l’insegnante a cui uno studente offre dell’hashish spacciandolo per una caramella. La scuola non è nuova a questi episodi, ma i moderni mezzi di comunicazione hanno trasformato il fenomeno del bullismo che, seppur diffuso da tempo nel nostro Paese, così come degli Stati Uniti e del resto dell’Europa, assume oggi delle proporzioni preoccupanti. Da un’ampia ricerca condotta in varie parti d’Italia dall’Osservatorio nazionale dell’infanzia emerge che il bullismo a scuola è molto diffuso, con indici complessivi che vanno dal 41% nella scuola primaria al 26% nella scuola media per quanto riguarda in numero degli alunni oggetto di prepotenza. Quando poi viene chiesto ai soggetti di valutare il numero di compagni implicati come vittime, circa il 61% nella scuola elementare e il 53% nella scuola media ritengono che ve ne siano almeno tre per classe. Il confronto con gli altri Paesi Ue è inquietante: gli episodi di violenza e sopraffazione a scuola sono il doppio del Regno Unito. Il divario tra i dati italiani e quelli internazionali potrebbe essere da attribuire a un modo diverso di vivere e intendere il fenomeno. Più il conflitto viene tollerato meno porta alla rottura dei rapporti. Il fatto assume così minore rilevanza il che induce a una più diffusa ammissione da parte di chi agisce, subisce o vede quanto accade. Questo spiegherebbe perché, in linea con gli altri Paesi europei, in Italia si registra una sensibile diminuzione del fenomeno nel passaggio dalla scuola elementare a quella media. Il bullismo, percepito come fenomeno fisiologico tra i bambini, diventa intollerabile nella fase della pubertà, momento cruciale per la formazione dell’identità personale. E quindi diventa tabù. La costante crescita di questo fenomeno mette in evidenza le difficoltà della famiglia e della scuola a formare i giovani alla cultura della legalità. Le agenzie educative sono in crisi: percepite come deboli e prive di credibilità e autorevolezza; non sono più il luogo dove acquisire gli strumenti necessari per costruire un futuro solido. Ma come è possibile che la soglia di accesso ai comportamenti violenti si sia così pericolosamente abbassata? Quali sono gli interventi adeguati per fronteggiare la situazione? Nel tentativo di dare una risposta a questi interrogativi, la Cgil ha organizzato il convegno «Le regole sul banco», svoltosi ieri a Roma. L’analisi di Fabrizio Dacrema, coordinatore del Dipartimento funzione e ricerca della Cgil, è impietosa. Già trent’anni fa il sociologo Achille Ardirò descriveva «una popolazione giovanile marginale e marginalizzata, senza padre, bloccata in una condizione di adolescenza prolungata e alla ricerca disperata di un rapporto con la società adulta, in bilico tra aggressività, distruttività e dipendenza ». Le trasformazioni delle società contemporanee hanno confermato la tendenza descritta da Ardirò: il rallentamento del passaggio dalla società adulta, uno stato di marginalità economica e politica connesso anche alla flessione dei tassi di natalità, la crisi delle principali agenzie educative. L’ultimo rapporto Iard sulla condizione giovanile in Italia ci spiega che nel nostro Paese alcune di queste tendenze sono ancora più accentuate rispetto agli altri paesi europei al punto che nell’immagine del futuro dei giovani italiani regna una grande incertezza. Essi vivono più a lungo con i genitori, l’inserimento lavorativo stabile con un retribuzione che consenta l’indipendenza economica si sposta sempre più avanti nel tempo, la disponibilità di case in affitto con canoni accessibili è tra le più basse in Europa. Il periodo dell’adolescenza, in sostanza, viene dilatato determinando un lungo periodo di deresponsabilizzazione. «Se agli studenti continuiamo a far sapere che lo sbocco lavorativo, quando c’è, è precario, essi saranno portati a cercare una via alternativa a quella dell’impegno e del merito», commenta il segretario confederale della Cgil, Fulvio Fammoni, che respinge «la semplificazione della repressione come unico strumento di lotta a questo fenomeno». No al poliziotto di scuola, sì, invece, a una nuova cultura della legalità: «Il rampantismo diffuso in tutte le classi sociali del Paese è il primo dei modelli negativi da debellare».

ANNA RITA RAPETTA (da www.lasicilia.it)

 

L’analisi del sociologo. Il prof. Roberto Vignera: «Contro certe devianze tanto sport di gruppo, quello duro e governato da solidi principi solidaristici» «Contro il mobbing scolastico facciamo capoclasse i Franti»

CATANIA. Dietro il bullismo, attivo e passivo, problemi con i genitori. Questo il parere dei sociologi sul problema che sembra essere esploso di recente anche in Sicilia. Anche se, secondo il prof. Roberto Vignera, docente di sociologia dell’Università di Catania che in questi giorni se ne sta occupando in conferenze e seminari in varie zone dell’isola, in realtà è probabile che un tempo il fenomeno fosse semplicemente meno noto. «Uno dei cardini educativi – spiega – da sempre esaltato, soprattutto in certe classi sociali, è stato il carattere dell’aggressività: "se porti botte a casa, prendi le altre". Non può sorprendere, quindi, che il mobbizzato si guardasse bene dal denunciare ai genitori le aggressioni subite». - Perché parla di mobbing? «Perché così viene definito nei Paesi scandinavi, dove il fenomeno è stato studiato come in nessun’altra realtà, e soprattutto per sottolineare che, in forma diretta o indiretta, ha spesso al centro un mob, un gruppo. Si parla dunque di mobbing scolastico, non di bullismo. Quest’ultimo termine proviene dall’inglese bullyng, e sottolinea maggiormente l’atteggiamento aggressivo, vessatorio, diretto, individuale. Il fenomeno, peraltro, non riguarda solo la prevaricazione fisica, prevalentemente maschile, ma anche quella psicologica, più presente nell’universo femminile. Ciò, in alcune circostanze, porterà alla cosiddetta morte sociale di un individuo, alla disistima, allo svilimento del proprio Sé, in un susseguirsi di effetti devastanti per la struttura della personalità e che possono portare anche al suicidio. - Di chi è la colpa? «Secondo Dan Olweus, norvegese, massima autorità mondiale sull’argomento, il bullismo, come fatto caratteristico della fase adolescenziale sarebbe piuttosto da riferire a componenti ereditarie. Il figlio di Franti, il "cattivo" del libro Cuore, archetipo dei bulli di oggi, avrebbe continuato nella tradizione di famiglia. E’ certo, comunque, che non solo i protagonisti attivi ma anche quelli passivi degli episodi di bullismo hanno problemi con i genitori: in particolare, la difficoltà a instaurare con loro legami affettivi esclusivi, e soprattutto in un ambiente troppo permissivo per la messa in ombra della figura paterna. Ecco perché assai spesso il dito viene puntato sugli insegnanti, che fanno ben poco per affrontare il problema. O, peggio, ridefiniscono il bullismo secondo canoni socialmente legittimi, come i legami che potremmo definire di vicariato formativo. Ossia: "Picchiandoti ti insegna cos’è la vita". Per fortuna, alla luce di quanto sta avvenendo, oggi in Italia gli insegnanti sono sempre più coinvolti in meccanismi di controllo sociale e hanno l’obbligo di segnalare questi casi. Non dimentichiamo, poi, che c’è anche un’altra causa del bullismo, che complica tutte le altre: la rilevanza sociale del minore, la sua impunibilità». - Il minore oggi è impunibile? «Nelle società caratterizzate da bassi indici di natalità e un elevato livello di invecchiamento della popolazione, un bambino, un adolescente, è , sotto il profilo sociale, un bene inestimabile, giustamente tutelato dal punto di vista giuridicoistituzionale. Ma appare evidente che la sua non punibilità lambisce i confini dell’agire ricattatorio, nei confronti dei genitori in primo luogo». - Ma ci sono anche casi in cui la difficoltà di punire i minori è stata, in realtà come quella siciliana in cui l’illegalità è diffusissima, sfruttata anche dalle organizzazioni criminali... «Questo è un problema che si sovrappone agli altri. E ci sarebbe da aggiungere che certi giovani sono cresciuti persino senza le regole della cosiddetta cultura mafiosa. Ci troviamo dunque davanti a una situazione molto complicata. Se, dal punto di vista giuridico il minore appare come una figura sociale facilmente identificabile, sotto il profilo sociologico le cose non sono così semplici. Come possiamo definirlo? Certo, una personalità in fase di strutturazione. Ma una tale raffigurazione è insufficiente alla luce di quanto sta avvenendo» - Quindi? «Lancio un sasso nello stagno: è indispensabile riformulare le caratteristiche della categoria del minore. Paesi europei come l’Olanda stanno tentando di farlo, sulla scorta di fenomeni come la violenza sessuale. Nel nostro contesto, il bullismo, il vandalismo giovanile, i recenti episodi di guerriglia urbana nel calcio, dovrebbero indurre a compiere simili iniziative. Ricordando, tra l’altro, che una delle forme più inquietanti di bullismo è quella perpetrata strumentalmente, che non si estingue nell’atto prevaricatore, ma diventa strumento per fini illeciti: procurare denaro, oggetti di valore, eccetera». - Quali cure contro il bullismo? «Inutile usare slogan come: famiglie più unite! Una maggiore attenzione da parte dei genitori e degli educatori, naturalmente, non potrebbe che apparire benefica. Una scuola migliore, tanto sport di gruppo, quello duro, governato da solidi principi solidaristici, che riesca magari a sublimare un’aggressività altrimenti ingovernabile. Ma bisogna lavorare su tutti, ossia sulla larghissima parte di giovani che non sono toccati dal fenomeno. Essi possono influire infatti sul bullismo intervenendo come deterrente nei confronti dei bulli e come sostegno di solidarietà alle vittime. Agli insegnanti va consigliato poi di responsabilizzare i bulli. Chi non ricorda il vecchio espediente di investire il ragazzo più problematico della funzione di capoclasse? Infine, occorrerebbe comunque non perdere di vista un paradosso per certi versi ineliminabile riguardante la condizione giovanile. Lo illustriamo attraverso la vicenda di Mike Tyson, che per sua stessa ammissione da ragazzo, quando usciva di casa, andava a picchiare i suoi coetanei per puro divertimento. E’ diventato un acclamato pugile. Poi è stato arrestato per violenza ad una modella. E’ finito in carcere; ha seguito un programma di rieducazione ed è tornato sul ring. Ma parte della sua aggressività era svanita. I tifosi, delusi, commentarono: ‘non è più lui’!».

GIUSEPPE LAZZARO DANZUSO (da www.lasicilia.it)

 

VITTIME E CARNEFICI

Perché in Italia la percentuale di aggressioni risulta così alta Le dimensioni del fenomeno bullismo sono inquietanti. A livello europeo uno studente su sette, 15% della popolazione scolastica delle elementari e medie, è esposto al rischio di diventare bullo o di cadere vittima dell’aggressività del “branco”. Il 9% sono vittime; il 7% sono bulli; 1,6% appartiene a entrambe le categorie. Il fenomeno è più presente quando è maggiore la differenza di età tra i protagonisti. Ecco perché è più presente nelle classi della scuola elementare e delle superiori, mentre è più raro nelle medie. Prima dello studio dell’Osservatorio nazionale dell’infanzia, le poche ricerche effettuate in Italia utilizzando le stesse metodologie elaborate da Dan Olweus (studioso norvegese considerato la massima autorità mondiale sul fenomeno), riguardavano Toscana e in Calabria e riferivano di percentuali dell’ordine del 46%. Dati estremamente allarmanti, dunque, se paragonati al resto d’Europa. «Va però precisato - spiega il sociologo Roberto Vignera - come spesso gli indicatori non siano del tutto congruenti con le immagini più diffuse del bullismo, soprattutto passivo. Tra quelli più usati, per esempio, vi è la tendenza a essere scelti per ultimi, o a essere relegati a svolgere ruoli marginali, nei giochi di gruppo. Per esempio giocare in porta in una partita di calcio».

(da www.lasicilia.it)







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