Catania. Gli allievi dell’istituto comprensivo Petrarca vanno a
scuola volentieri. Qui la dispersione è stata sconfitta, eppure è
una zona di frontiera, al confine tra due quartieri difficili, Trappeto
Nord e San Giovanni Galermo. Qui il disagio sociale c’è
sempre stato e la scuola, a differenza di quelle del centro, si è attrezzata
a gestirlo e a fronteggiarlo, con mano ferma e con
grande disponibilità.
I mille allievi, cui si aggiungono i 400 adulti che di pomeriggio
frequentano la «Scuola della seconda opportunità», hanno
ognuno il proprio armadietto dove lasciano i libri, sono muniti
di un pass elettronico per segnare l’ingresso a scuola, e possono
indicare, via computer, le proprie intolleranze alimentari
o eventuali bisogni. E attraverso il computer, quello di casa o il
«totem» della scuola, i genitori possono controllare quotidianamente
il rendimento scolastico dei figli. I docenti, infatti, non
usano il registro, ma fanno le proprie valutazione per via informatica,
proprio perché siano immediatamente accessibili. Qui
i ragazzi frequentano fino al pomeriggio e fanno pranzo in una
mensa attrezzata di cucina autonoma, una possibilità che la
scuola continua a difendere tra mille difficoltà, pur essendo in
credito di ben 150.000 euro da parte del Comune. Questa è una
scuola aperta al quartiere, dalle 8 del mattino fino alle 22. Qui
si fanno lezioni per i ragazzi dalla mattina al pomeriggio, per gli
adulti della «Seconda opportunità» da metà pomeriggio e sport
per tutti fino a sera, con allievi ed ex allievi. E per questo servizio
la scuola non sborsa una lira di straordinario perché i bidelli
turnano, e se non lo vogliono fare sono invitati ad andare altrove.
«Perché qui - dice il preside Santo Gagliano
- il personale docente e non docente
è al servizio della scuola, non viceversa. Per
questo alla Petrarca non facciamo "progetti",
che sono solo un modo per distribuire soldi
ai docenti e andrebbero eliminati ovunque.
Qui tutte le attività vengono fatte all’interno
del normale progetto didattico e, pertanto,
non sono pagate a parte».
Qui i telefonini non entrano. Chi lo vuole
portare a scuola lo lascia al bidello, all’ingresso,
e lo riprende all’uscita. Se i ragazzi
hanno bisogno di comunicare con casa lo
possono fare dalla presidenza, davanti ad un
docente. «Perché la scuola è un fatto importante
e il rapporto tra la classe e il docente
non può essere disturbato da un elemento
terzo. Ed è importante che la vita vera non
sia sostituita da quella virtuale».
«Quella che viviamo oggi - dice il preside
Gagliano - non è una situazione di disagio
sociale, ma una crisi educativa. Tutte le figure
e le agenzie educative sono in crisi: la famiglia, la scuola, la
Chiesa. Dire che la scuola non può dare risposte è un fallimento
perché la scuola deve dare motivazioni per vivere. Fino a venti
anni fa c’era un contesto di valori condiviso e tutte le agenzie
educative contribuivano a rafforzarli. Anche i partiti avevano
idee diverse, ma valori condivisi, come la legalità e il rispetto
delle regole. Oggi non è più così. I ragazzi ci chiedono cos’è la vita,
che ci sto a fare, chi mi vuole bene, e la scuola risponde: studia
l’italiano, la matematica... Propone contenuti al posto di un
percorso educativo, non risponde ai bisogni dei giovani. I ragazzi
oggi sono infelici e vivono solo nel presente, nessun interesse
per le radici, e dunque per il passato e per la cultura, e nessuna
proiezione nel futuro: il successo e l’insuccesso del presente
è tutto, felicità o tragedia. In questo contesto è inutile invocare
la disciplina. Mi chiede che fare? Penso che più che le cose da
fare è importante il modo in cui si fanno. E’ importante, ed è
quello che facciamo nella nostra scuola, che gli adulti si prendano
cura dei ragazzi, che considerino ognuno di loro unico, insostituibile.
Per esempio, la docente di educazione fisica domenica
scorsa ha portato i ragazzi ad un gara campestre a Maletto e
la prossima li porterà a Selinunte. Lo fa gratis, perché per loro è
importante. I ragazzi lo sanno, l’apprezzano e rispettano la disciplina.
In questa scuola i giovani si sentono a loro agio e non
è un caso che non è stato mai rubato nulla. Ogni cosa che facciamo,
lo sport come il catechismo, cerchiamo di trasformarlo in
un’esperienza di vita dove si creano amicizia e complicità tra l’adulto
e il ragazzo, un patto generazionale dove l’adulto diventa
punto di riferimento: è quello che i ragazzi chiedono, quello
di cui hanno bisogno. I nostri docenti non si propongono come
professionisti della cultura, ma come educatori che trasmettono
cultura e valori, che curano il ragazzo affinché cresca. Nelle
scuole come le nostre i giovani imparano a diventare cittadini,
ad avere un forte senso critico, a rivendicare i propri diritti, per
questo danno fastidio e c’è chi cerca pretesti per delegittimarle,
come è avvenuto con il preside picchiato a Bari, persona che
gestisce bene una scuola di frontiera».
LA «RICETTA» DELL’ISTITUTO:Porte sempre aperte e fiducia in sé stessi
Nell’immobile di via Sebastiano Catania 176 le porte
sono aperte e gli studenti vanno e vengono, liberamente.
Qui non ci sono aule tradizionali con cattedra e banchi,
ma spazi spogli con un grande tavolo centrale e delle
sedie attorno per accogliere docenti e allievi. Qui la
matematica si studia al computer e l’inglese in corridoio,
ballando e cantando. Questa è la scuola del progetto
«2you», due volte ragazzi, il progetto sperimentale
europeo volto a contrastare il disagio giovanile, una sorta
di pronto soccorso per adolescenti che qui trovano
personale specializzato cui rivolgersi per cercare di capire
come affrontare i propri problemi personali, scolastici e
familiari. Uno «sportello» cui possono rivolgersi anche i
loro genitori. Qui si fa attività di recupero, per le medie e
per le superiori. Nel primo caso si tratta di alunni
pluriripetenti che sarebbero persi per la scuola e cui si dà
un’opportunità per ritornarvi, nel secondo caso, per i
ragazzi delle superiori che sono incerti sul percorso
intrapreso, si dà la possibilità di capire se la scelta fatta è
quella giusta o se è necessario cambiare attrezzandosi,
comunque, per il ritorno a scuola o altrove. E poi si fa
sport: un torneo di calcio cui sono stati invitati tutti gli
studenti delle superiori di Catania, e la cosa innovativa è
che i ragazzi devono organizzarsi da soli per i turni, per
scegliere gli arbitri e tutto quanto serve. Gli adulti sono
solo a loro supporto. Un modo per imparare a gestirsi e
ad assumersi le proprie responsabilità. Anche questa -
gestita dalla Petrarca - è un’occasione per ritrovare
fiducia in se stessi e per aiutare i ragazzi a trovare la
propria strada, nella scuola, come nella vita.
PINELLA LEOCATA
(da www.lasicilia.it)
Lo psicologo Guarnieri: «Noi adulti, cosa proponiamo ai giovani?»
Disagio giovanile, ragazzi violenti, balordi,
che trovano nel «branco» la loro
realizzazione? In realtà, la domanda da
porsi è un’altra: «Noi adulti, cosa proponiamo
ai giovani?». Ne è convinto Francesco Guarnieri, psicologo dell’Ufficio
servizi sociali per i minorenni di Catania,
un ufficio del ministero della Giustizia
che garantisce assistenza ai minorenni
con denunce penali.
I giovani, infatti, secondo il dott.
Guarnieri, «ognuno con la propria storia
e inseriti in un certo contesto familiare
e sociale, cercano di diventare
grandi interrogando gli adulti che hanno
attorno. Cercano risposte alle urgenze
che hanno dentro e, se non le trovano
negli adulti perché questi propongono
risposte deboli o confuse, si
adeguano al "gruppo dei pari", cioè agli
altri adolescenti, oppure alle organizzazioni
criminali che, paradossalmente,
dal punto di vista educativo sono molto
abili: hanno una posizione forte dal
punto di vista dell’identità, propugnano
valori sì sbagliati ma netti, generano
un forte senso di appartenenza».
In altre parole, manca da parte degli
adulti una proposta forte, chiara, univoca.
«E’ un problema culturale generale,
che nasce anche dalla problematica del
padre assente. In psicologia, la madre
genera la vita, mentre il padre genera
nel rapporto con la realtà. Se viene meno
il rapporto tra padre e figlio, viene
meno il rapporto tra ragazzo e realtà».
Parole difficili? No, se si esemplificano
con un esempio: «Il mio lavoro –
spiega Guarnieri – consiste nel mettermi
totalmente in gioco nel rapporto
con il ragazzo nel verificare ciò che lui
desidera e fargli vedere che c’è una alternativa.
Faccio un esempio: un giovane
rapinatore ammise di avere sbagliato,
ma riteneva di non avere fatto in
fondo nulla grave perché, secondo lui,
non aveva fatto male a nessuno: la banca
era assicurata e nessuno aveva perso
i suoi soldi. Piuttosto che opporre a
questo ragionamento una posizione
moralistica, gli ho chiesto a chi vengono
fatte pagare le spese che la banca deve
affrontare per le misure di sicurezza
da adottare per difendersi dalla rapine.
"Da chi ha il conto in banca", ha ammesso
il ragazzo e, quindi, gli ho fatto
notare, "anche da tuo padre che ha un
conto in banca. Quindi – gli ho detto –
è come se tu avessi derubato tuo padre".
Il ragazzo è rimasto colpito da
questo ragionamento: i giovani, insomma,
hanno bisogno di qualcuno che li
accompagni nella verifica del rapporto
con la realtà. La loro urgenza è paragonarsi
con la realtà e così scoprire se
stessi: il lavoro degli adulti dovrebbe
essere di aiutarli in questo paragone,
mettendosi però accanto a loro, condividendo
tutta la loro persona, la drammaticità
del rapporto con la vita: questo
permette uno scatto di crescita, una
fiducia, una speranza che è quella che
può cambiare le cose».
Un compito arduo «per il quale – sottolinea
Guarnieri
– servono persone,
non progetti.
Mi chiedo
spesso se nel nostro
ufficio operiamo
bene. Poi
penso: in 10 anni
avrò seguito
circa 200 ragazzi
e se a una parte
di questi dall’incontro
con me,
con l’educatrice,
con l’assistente
sociale, è rimasto
qualcosa, significa
che è stata
guadagnata
una persona alla
società. Come il
ragazzo ex rapinatore
che, passato da questo ufficio, ho
ritrovato tempo fa a scuola all’istituto
San Giuseppe: ha potuto confrontare
due proposte e ha fatto una scelta consapevole.
O come il ragazzo che, durante
la messa alla prova al Banco Alimentare,
si è chiesto perché i volontari davano
gratuitamente. Quella messa alla
prova è andata bene, non tanto perché
questo ragazzo ha fatto bene il lavoro al
Banco, ma perché ha incontrato delle
persone che gli hanno proposto una
esperienza interessante, diversa».
Il disagio dei giovani nasce allora dalla
paura degli adulti di giocarsi tutto nel
rapporto con gli adolescenti: «I ragazzi
non trovano risposte, allora chiedono
insistentemente. Se ancora nessuno risponde,
non chiedono più a parole, ma
con i fatti: chi ha paura di non ricevere
risposte, infatti, pretende».
Ma per gli adulti di oggi, in una società
in cui siamo i primi nell’accudimento
e ai livelli più bassi nell’educazione,
mettersi totalmente in discussione
è una fatica immane, una sfida impossibile:
«Allora gli adulti devono
mettersi assieme: uno si mette in gioco
con la propria passione, il proprio
desiderio, le proprie difficoltà, si guarda
attorno e si chiede: con chi posso
condividere questa avventura? I genitori,
i docenti possono mettersi insieme,
partendo dal basso, lavorando in
équipe: perché i ragazzi hanno bisogno
di adulti che ci stanno, senza censurare
le proprie domande, la propria vita.
I ragazzi hanno bisogno di adulti pazienti
(che hanno, cioè, la capacità di rimanere
in un rapporto, completi, senza
subirlo)».
E allora ecco forse la risposta al fallimento
delle agenzie educative: «Oggi
c’è una difficoltà, proprio perché a volte
abbiamo una posizione debole anche
nel metterci assieme. Si assiste a una
crisi nel rapporto tra famiglia e scuola,
oppure le istituzioni vengono viste come
nemiche rispetto al problema educativo.
Invece, il problema educativo
esige proprio il fatto di mettersi assieme
tra famiglie, agenzie educative, perché
ognuno può fare qualcosa, ma ciascuno
da solo non può riuscire».
MARIA AUSILIA BOEMI (da www.lasicilia.it)