Ma il nodo della questione non sta solo nel ricambio generazionale. I docenti
divisi sul compito dell’educazione. Le tesi di Vittorino Andreoli.
La scuola del «programma» e quella che insegna a vivere
La scuola italiana ha il record dei
prof più anziani del mondo. Ma il
dibattito che sta attraversando il
mondo dell’Istruzione non tocca
solo il ricambio della classe docente,
quanto l’identità stessa della
scuola. Non a caso il beste seller del
momento è la «Lettera a un insegnante
» di Vittorino Andreoli, uno
dei più autorevoli studiosi della psiche
umana con una ampia bibliografia
seguita con interesse da un
vastissimo pubblico. Un contributo
scritto l’anno scorso e quasi profetico
di quel disagio che oggi viene
alla luce nella scuola italiana e in cui
gli studenti (e i docenti) catanesi
stanno assumendo posizioni di rilievo.
Che cosa dice l’epistola che si apre
con un elogio dei docenti della tradizione
umana che oggi sembra
scomparsa? Proprio questo, che "la
scuola non è una istituzione per
trasmettere informazioni, ma un
organismo ben più importante perché
insegna a vivere". Il che significa
che non ci si deve preoccupare
troppo del "programma" da portare
a termine se per farlo si disumanizza
il rapporto con i giovani; che
non ha molto senso sfiancare i ragazzi
con una organizzazione pletorica
dell’impegno orario (sei ore filate
di mattina più supplementi pomeridiani
per corsi a varia denominazione)
che parcellizzano il sapere
in tante nozioni e non lasciano
spazio per interrogarsi sul senso di
quel che si fa o di quello che gli altri
fanno attorno a te.
Per imparare le nozioni, dice Andreoli,
esistono strumenti molto
più efficienti del dialogo scolastico.
Ha ragione: con un’adeguata strumentazione
si può imparare la chimica
organica o la storia della poesia
dugentesca in molto meno tempo
e con risultati più concreti di
quelli che ordinariamente si ottengono
nelle classi.
Ma il corso tecnico standardizzato
e strumentato informaticamente
sforna tecnici, non persone. Gli anni
di scuola sono quelli che preludono
alla vita sociale, alle amicizie che
contano, lasciano una traccia duratura
nella vita delle persone (lo
stesso Andreoli si è formato nel dialogo
con il prof. di filosofia e con la
signorile maestra delle elementari).
I ragazzi non sono individui
amorfi da indottrinare, sono allievi
da accompagnare nella crescita. E
quando sono irrequieti dobbiamo
studiarne le motivazioni: sono fragili
in questo mondo che sembra
offrire tutto, ma non assicura alcuna
stabilità.
E dobbiamo analizzare anche la
nostra proposta di dialogo: da psicologo
sensibile l’Autore fa l’elenco
delle personalità docenti: dal prof figo, a quello samaritano; da quello
cesso (le definizioni sono di Andreoli)
a quello menefreghista in
una casistica assai numerosa che è
accomunata -anche nei casi più felici-
da una notevole tendenza all’isolamento.
Molti docenti vivono la
scuola in solitudine, si sentono in
concorrenza con gli altri, rifrangendo
sulla scolaresca le frustrazioni
che ne derivano.
In effetti come gli adolescenti
hanno bisogno del gruppo per trovare
il proprio equilibrio, anche i
docenti dovrebbero sentirsi stretti
da una collaborazione attiva (e affettiva)
in mancanza della quale si
esasperano le reazioni caratteriali
dei soggetti più incerti.
Soluzione della lunga epistola:
bisogna ritrovare la gioia di fare
scuola. E’ vero. Sono troppi i docenti
che contano i giorni che li separano
dalla pensione come ergastolani
che non vedono l’ora di tornare
liberi.
E invece la scuola, anche in questo
mondo tecnologico, è uno dei
pochi luoghi rimasti dove si può
contribuire alla serenità della vita.
SERGIO SCIACCA (da www.lasicilia.it)